Da Ipazia a Giordano Bruno, un excursus fra alcuni falsi storici ricorrenti

22 novembre 2013 - 14 febbraio 2014

 

 

 

Succede, di quando in quando, di assistere a conferenze o dibattiti sui principali temi dell’astronomia e di sentire, anche da parte di persone di un qualche rilievo, consueti luoghi comuni tipici di una vecchia vulgata scolastica, assunti quali dati certi e incontrovertibili, quasi fossero dogmi. Dogmi di una cosiddetta cultura laica che in realtà esprimono solo la preparazione approssimativa di chi ancora li divulga. Certo, quello sulla preparazione approssimativa potrà sembrare un giudizio piuttosto severo, in realtà è possibile purtroppo avere una grande competenza scientifica ed una insufficiente o pessima preparazione umanistica, figuriamoci poi teologica.

In uno dei testi piú popolari della fu astrofisica Margherita Hack si legge, per esempio, che...

«Giordano Bruno (1548-1600) sosteneva l’esistenza di innumerevoli soli e di innumerevoli terre, abitate da esseri viventi; per queste sue dichiarazioni, ritenute eretiche, fu mandato al rogo il 17 febbraio 1600» (cfr. HACK M., “Vi racconto l’astronomia”, Laterza, 2007, 99).

Affermazioni troppo semplici, troppo generiche per una realtà ben piú ampia e complessa. Anche altri astronomi citano nelle loro conferenze e nelle opere Giordano Bruno ponendolo incredibilmente accanto a personaggi di ben altro spessore scientifico e umano come Galileo Galilei, Giovanni Keplero e altri ancora. Peccato solo che Giordano Bruno con la scienza e il progresso delle scienze non abbia mai avuto nulla a che fare. Come si possano dunque fare simili accostamenti è un vero e sconfortante enigma!

Un altro autore (Corrado Augias) nel libro “Le fiamme e la ragione” (Promo Music 2008) non esita a definire il Bruno... “uno dei massimi geni della storia della cultura occidentale”! Che dire? Se tale era l’autore del De magia, del De vinculis (sugli incantesimi) e di altri trattati esoterici, non v’è dubbio che lo stesso Augias possa ambire in futuro al medesimo riconoscimento.

Un altro personaggio che talvolta, ma piú di rado, si sente citare è Ipazia, ovviamente riletta in chiave femminista e non meno polemica con la Chiesa; polemica che Ipazia stessa non pare che abbia mai conosciuto e meno ancora sostenuto.

È raro invece, tanto per fare un esempio, che si senta dire che colui al quale dobbiamo il sistema eliocentrico, Niccolo’ Copernico, era un canonico polacco, dunque un esponente di quel mondo cattolico che viene spesso fatto passare per oscurantista e avverso al progresso delle scienze. Ancor piú raro poi che si senta qualcuno parlare di Ismaël Bullialdus... Ebbene, chi era costui? Ismaël Bullialdus (1605-1694) fu un sacerdote e un astronomo francese che conobbe i piú grandi esponenti della scienza della sua epoca. Strinse solide amicizie con Pierre Gassendi, Christiaan Huygens, Marin Mersenne e Blaise Pascal. Fu anche un fautore delle cause di Niccolò Copernico e Galileo Galilei. Quello che molti non sanno però è che nel 1645 pubblicò l’opera Astronomia philolaica, nella quale ipotizzo che la forza di gravità seguisse la legge del quadrato inverso. Isaac Newton nella sua celebre opera Philosophiae Naturalis Principia Mathematica riconobbe il grande valore dell'opera di Bullialdus, del quale citò la teoria, ricorrendo alle sue meticolose tabelle di osservazione. Fatti come questi devono indurre chiunque a documentarsi attentamente e a diffidare dei frequenti luoghi comuni mediatici che purtroppo talvolta non sono solo frutto di ignoranza ma di deliberata malizia.

Per esempio, dal 1600, anno della sua morte, e per i due secoli seguenti nessuno si occupò mai di Giordano Bruno. Nel 1802 il filosofo Friedrich Schelling pubblicò un’operetta che lo nominava ma della quale nessuno si accorse. L’ex frate domenicano divenne un’icona del "libero pensiero" solo grazie all'avanzante anticlericalismo risorgimentale italiano. Il 9 giugno 1889 il governo Crispi inaugurò il noto monumento in Campo de’ Fiori a Roma. Circa tremila persone erano state invitate per inaugurare l’opera dello scultore Ettore Ferrari e ascoltare il discorso del filosofo Giovanni Bovio. L’anno dopo, primo anniversario, quelli che dovevano solennemente rinnovare l'omaggio al monumento furono ben pochi, come oggi del resto, dove solo alcune chiassose consorterie politico-ideologiche continuano a rinnovarne la memoria, ma solo e sempre per ragioni strumentali.

Un motivo di più per approfondire la conoscenza delle due figure sopra accennate, quella di Giordano Bruno e di Ipazia, anche per vedere se è tutto oro quel che riluce. Per farlo ci serviremo anche di due contributi: uno di Francesco Agnoli, “Giordano Bruno ‘santino’ dei liberi pensatori”, in “Il Foglio”, 18 agosto 2005 (parte I), 25 agosto 2005 (parte II) e 1 settembre 2005 (parte III); uno di Rino Cammilleri, pubblicato su “Il Timone”, nel novembre 2009. Due tracce che approfondiremo servendoci anche di numerose altre fonti, che ci aiuteranno a superare una visione ideologica che di fronte alla storia non ha ragion d’essere, meno che mai oggi.

 

 

 Giordano Bruno

Giordano Bruno

 

 

 

Giordano Bruno il filosofo-mago, “martire” del “libero pensiero” o del "pensiero libero"?

«La terra e i corpi celesti si muovono per virtú propria intorno al sole e agli altri astri come il maschio è attirato dalla femmina e la femmina dal maschio: la calamita muove il ferro, il filo d’erba l’ambra, cosi ogni cosa va alla ricerca del simile e rifugge l’opposto; tutto ha origine da un principio intrinseco per il quale si muove naturalmente, e non da un principio estrinseco come vediamo succedere a quelle cose che sono mosse contro la propria natura. La terra e gli altri corpi celesti si muovono secondo le differenze del proprio principio intrinseco che è la loro anima. "Credete" chiese il dott. Nundinio "che quest’anima sia sensitiva"? "Non soltanto sensitiva" rispose il Nolano "ma anche intellettiva; non solo intellettiva, come la nostra, ma forse anche di piú"» (BRUNO G., Dialogo Terzo, da La cena de le Ceneri, testo italiano trascritto e adattato a cura di Marcella Vasconi, Demetra, Bussolengo (VR) 1995, 77-83).

Il testo proposto sopra non richiede particolari commenti, semmai ci aiuta a comprendere come la fama di Giordano Bruno, piú che alla sua complessa e a dir poco tortuosa produzione culturale sia dovuta in massima parte ad un errore, quello della sua condanna al rogo, quale ribelle impenitente all’autorità civile ed ecclesiastica. Un personaggio e un evento che, piú di tanti altri, si presta ad un uso ideologico qual è quello che ne è stato fatto. Una condanna che fu senza alcun dubbio un errore, come già detto, non tanto dal punto di vista giudiziario, poiché la colpevolezza del Bruno fu ampiamente documentata, quanto dal punto di vista (diremmo oggi) politico e mediatico. Sull’errore mediatico ovviamente non occorrono commenti: quella del 1600 era un’epoca del tutto aliena da simili considerazioni, tipiche di un’era, la nostra, immensamente distante da quella, in tutti i sensi. Sull’errore politico ci sarebbe uno spazio di discussione piú ampio, tuttavia anche in questo caso è estremamente difficile - e sarebbe perfino ingenuo - giudicare con il cosiddetto senno del poi. Le considerazioni che emergeranno anche negli spiriti laici, sulla inaccettabilità della pena di morte, arriveranno molto tempo dopo. Nel 1600, per i delitti commessi dal Bruno (perché anche di questo si tratta e non solo di questioni filosofiche e di pensiero), nessuno metteva in discussione la liceità e perfino l’opportunità della pena capitale.

La produzione culturale di Giordano Bruno, lungi dall’avere un qualche rilievo scientifico, appare intrisa di magia, di astrologia, di vitalismo panteistico, nulla che si avvicini in qualche modo alla concisa ed elegante prosa scientifica di un Galilei o alla profondità matematica di un Keplero. Lo rileva anche la Yates (Cfr. YATES FR. A., Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza, 2006) che in una nuova prospettiva storiografica mette in luce tanti aspetti e motivazioni della drammatica vicenda filosofica e umana del Bruno. Non meno incisivo è il giudizio di Matteo D’Amico nel suo Giordano Bruno. Avventure e misteri del grande mago nell’Europa del Cinquecento, (Piemme, Casale Mon.to, 2000), dove rileva le pratiche magiche cui Bruno si dedicava con crescente intensità e che sviluppavano in lui un senso di onnipotenza materiale e intellettuale abnorme.

Ma è quanto scrive Mircea Eliade che toglie ogni dubbio, se ormai potesse essercene qualcuno:

«Se Giordano Bruno accolse con tanto entusiasmo le scoperte di Copernico, fu anche perché riteneva che l’eliocentrismo avesse un profondo significato religioso e magico; quando si trovava in Inghilterra Bruno profetizzò il ritorno imminente della religione magica degli antichi Egizi quale veniva descritta nell’Asclepius. In effetti Giordano Bruno si sente superiore a Copernico dato che, mentre quest’ultimo non intendeva la sua stessa teoria se non in senso matematico, dal canto suo Bruno poteva interpretare lo schema copernicano come il geroglifico dei misteri divini» (cfr. -, Storia delle credenze e delle idee religiose, BUR, III, 279).

Tutta l’esistenza del Bruno appare consumata in vista di un’affermazione personale contro avversari di tutti i paesi e di tutte le confessioni, che a suo giudizio divengono via via “ignoranti”, “asini”, “porci”, “pedanti”, “barbari e ignobili”. Ecco in sintesi la sua parabola terrena, quale riportata da Giovanni Aquilecchia nel Dizionario Biografico degli Italiani della Treccani, Vol. 14 (1972). Di tale traccia, pure benevola, ci serviremo solo in parte e relativamente ai passi piú salienti.

 

 

Giordano Bruno: un profilo biografico

Giordano Bruno nacque a Nola, nel Regno di Napoli, nel gennaio o febbraio del 1548, figlio di Giovanni Bruno, uomo d’arme, e di Fraulisa Savolino: fu battezzato con il nome Filippo. Nel 1562 si recò a Napoli per studiare lettere, logica e dialettica: in quello Studio ebbe come maestri il Sarnese (Giovan Vincenzo Colle), filosofo di tendenze averroiste, e fra’ Teofilo da Vairano, agostiniano, da lui ricordato in seguito con sincera ammirazione. La lettura di uno scritto di Pietro Ravennate suscitò fin da allora in lui l’interesse per la mnemotecnica.

Il 15 luglio 1565, a diciassette anni compiuti, entrò come chierico nel convento napoletano di S. Domenico Maggiore, dove assunse il nome Giordano. Incompatibile, per carattere, con la regola conventuale, tra il 1566 e il 1567 incorse nelle prime infrazioni per aver spregiato il culto di Maria, nonché quello dei santi (una denuncia contro di lui venne allora cassata dal maestro dei novizi). Va accolta con cautela la notizia da lui in seguito fornita di un invito a Roma per mostrare la propria abilità mnemonica a papa Pio V, viaggio che lo Spampanato pone tra il 1568 e il 1569 (Doc. parigini, V - Per i documenti coevi vedasi SPAMPANATO V., Documenti della vita di G. B., Firenze 1933, suddivisi in sei sezioni: I. Documenti napoletani, II. Documenti ginevrini, III.Documenti parigini, IV. Documenti tedeschi, V. Documenti veneti, VI, Documenti romani).  

Venne ordinato sacerdote dopo aver compiuto i ventiquattro anni e celebrò la prima Messa nella chiesa del convento domenicano di S. Bartolomeo a Campagna, presso Salerno. Nella seconda metà del 1572, dopo aver soggiornato in altri conventi del Napoletano, fece ritorno allo Studio di S. Domenico Maggiore in Napoli come studente di teologia: il curriculum quadriennale comprendeva un corso speculativo (prima e terza parte della Summa tomista) e un corso di morale (seconda parte della Summa, alternabile con il quarto libro delle Sentenze di Pietro Lombardo esposte da fra’ Giovanni Capreolo). È da ritenere che il Bruno abbia superato gli esami annuali, e nel luglio 1575 quelli di licenza, per cui sostenne le tesi “Verum est quicquid dicit D. Thomas in Summa contra Gentiles” e “Verum est quicquid dicit Magister Sententiarum” (Doc. parigini, II). Tali studi, se da una parte suscitarono in lui una non mai smentita ammirazione per l’opera di S. Tommaso, d’altra parte dovettero ingenerargli quel fastidio per... “les subtilitez des scholastiques, des Sacrements et mesmement de l’Eucharistie” (Doc. parigini, II), con il conseguente disinteresse per la problematica teologica manifestato in seguito nelle proprie opere come pure, piú tardi, in sede processuale.

Fin dagli anni conventuali mostrò invece interesse per le opere estranee al corso di studi, oltre che per quelle vietate (Doc. veneti, XIII). Tutto ciò, unitamente all’espressione dei propri dubbi circa il dogma della Trinità durante una discussione sull’eresia ariana, portò all’istruzione di un processo a suo carico da parte del Superiore provinciale. Mentre il processo veniva istruito egli non esitò ad abbandonare il convento e la città, probabilmente nel febbraio 1576, e nello stesso mese giunse a Roma, dove prese alloggio nel convento di S. Maria sopra Minerva, confidando ingenuamente che il proprio caso venisse trascurato, visti i disordini che turbavano la città. Egli stesso però vi rimase coinvolto e gli venne imputato di “aver gettato in Tevere chi l’accusò, o chi credette lui che l’avesse accusato a l’inquisizione” (Doc. veneti, I). L’imputazione pare tuttavia infondata, come dimostra il mancato riferimento ad essa nelle successive vicende processuali.

Dopo i primi mesi di quell’anno, saputo che i propri libri vietati erano stati rintracciati a Napoli, il Bruno, deposto l’abito, abbandonò Roma e raggiunse Genova (circa il 15 aprile) e si trattenne a Noli fino al principio del 1577 insegnandovi la grammatica “a figliuoli e leggendo la Sfera a certi gentilomini” (Doc. veneti, IX). Da Noli passò a Savona e quindi a Torino; di lí, non avendovi trovato “trattenimento a sua satisfazione”, si recò a Venezia, dove si trattenne non piú di due mesi, facendovi stampare, allo scopo di guadagnare qualcosa, “un certo libretto intitolato De’ segni de’ tempi”, da lui fatto esaminare dal domenicano Remigio Nannini: opera anch’essa smarrita. A Padova fu convinto da alcuni domenicani a indossare l’abito pur quando non avesse voluto rientrare nell’Ordine: ciò che il Bruno fece dopo essersi recato a Brescia e a Bergamo. Toccata Milano, nel 1578 lasciò l’Italia attraverso la Savoia, diretto a Lione: giunto a Chambéry e avvertito dai domenicani locali dell’ostilità che avrebbe incontrato nella regione, si trasferí a Ginevra, dove fin dal 1552 una comunità evangelica italiana era stata fondata dal marchese Gian Galeazzo Caracciolo di Vico. A Ginevra, abbandonato nuovamente l’abito, il Bruno si guadagnò da vivere come correttore di bozze tipografiche. Risulta tuttavia che egli aderí formalmente al calvinismo, come provato non tanto dalla immatricolazione universitaria autografa del 20 maggio 1579, quanto da un processo per diffamazione ai danni del titolare di filosofia Antoine de la Faye, istruito contro di lui dal locale concistoro nell’agosto 1579: il giorno 13 il Bruno venne riconosciuto colpevole e scomunicato. Dopo un debole tentativo di difesa, egli fu costretto in ginocchio ad ammettere la propria colpa. Il giorno 27 venne prosciolto dalla scomunica. Tale episodio, che avrebbe lasciato tracce durevoli nelle sue opere mediante la propria polemica anticalvinista, determinò la sua partenza da Ginevra.

Recatosi questa volta a Lione, non avendovi trovato modo di sostentarsi, vi si trattenne solo un mese (forse tra il settembre e l’ottobre 1579) e si recò quindi a Tolosa, che era proprio in quel tempo uno dei baluardi dell’ortodossia cattolica: ciò che dimostra la portata della sua avversione ai calvinisti ginevrini, confermata anche dal tentativo che allora fece di ottenere l’assoluzione da un padre gesuita. La mancata assoluzione, “per esser apostata” (Doc. veneti, XII), non gli impedí di essere invitato “a legger a diversi scolari la Sfera, la qual lesse con altre lezioni de filosofia forse sei mesi” (Doc. veneti, IX), nonché di conseguire il titolo di magister artium ed ottenere per concorso il posto allora vacante di lettore ordinario di filosofia: onde lesse, “doi anni continui, il testo de Aristotele De anima ed altre lezioni de filosofia”. Da accenni fatti piú tardi dallo stesso Bruno.

Nell’estate del 1581 si delineò una ripresa della lotta tra cattolici e ugonotti, e il Bruno dovette lasciare Tolosa “a causa delle guerre civili” (Doc. veneti, IX). Trasferitosi a Parigi, vi intraprese “una lezion straordinaria”, cioè un corso di trenta lezioni su altrettanti “attributi divini, tolti da S. Tommaso dalla prima parte”, che alcuni vogliono costituisse l’operetta inedita e smarrita “di Dio, per la deduzion di certi suoi predicati universali” (Doc. veneti, I). A Parigi non accettò un lettorato ordinario per l’obbligo - che, come apostata, non volle assumersi - di frequentare la Messa; tuttavia conseguí tale rinomanza mediante il lettorato straordinario, che, come ebbe a dichiarare egli stesso, “il re Enrico terzo mi fece chiamare un giorno, ricercandomi se la memoria che avevo e che professava, era naturale o pur per arte magica; al qual diedi sodisfazione; e con quello che li dissi e feci provare a lui medesimo, conobbe che non era per arte magica ma per scienza” (Doc. veneti, IX); episodio che ben si comprende tenendo conto del fatto che la corte francese era frequentata da intellettuali come J. D. du Perron e Pontus de Tyard di cui sono noti gli interessi per il sapere enciclopedico e l’arte della memoria come strumenti per un piano di riforma culturale.

Durante questo primo soggiorno parigino apparvero a stampa le prime operette bruniane a noi pervenute: il De umbris idearum con l’Ars memoriae, opera mnemotecnica stampata da E. Gourbin nel 1582 e dedicata ad Enrico III, il quale “con questa occasione lo fece lettor straordinario e provisionato” (Doc. veneti, IX). La prima parte del De umbris rielabora alcune tesi di Raimondo Lullo e materiale mnemotecnico ai fini di una ricerca gnoseologica che presuppone, platonicamente, una corrispondenza tra mondo fisico e mondo ideale; la seconda e terza parte costituiscono un manuale mnemotecnico. Nell’agosto del 1582 il Bruno terminava la composizione della commedia Candelaio, stampata prima della fine dell’anno (anteriormente forse al De compendiosa architectura). Sul frontespizio l’autore si definiva “Academico di nulla Academia, detto il Fastidito, in tristitia hilaris, in hilaritate tristis”. Il Candelaio, scritto in un volgare popolaresco ricco di napoletanismi plebei, ma non senza echi della tradizione burlesca rinascimentale accanto a moduli parodici della retorica classica, riflette sul piano morale il momento di rottura con l’Ordine domenicano, né è da escludere che la composizione fosse iniziata prima dell’allontanamento dall’Italia.

Il 28 marzo 1583 l’ambasciatore inglese a Parigi, H. Cobham, inviava un preoccupato messaggio al primo segretario del Regno d’Inghilterra, F. Walsingham, informandolo dell’intenzione del Bruno di trasferirsi in Inghilterra: la preoccupazione concerneva l’ambigua posizione bruniana in fatto di religione. L’arrivo del Bruno in Inghilterra, con lettere di raccomandazione di Enrico III per il proprio ambasciatore presso Elisabetta - Michel de Castelnau (cui era affidato il compito delicato di sostenere la causa di Maria di Scozia presso la regina) -, è da porre nell’aprile. Il Bruno poté essere indotto a lasciare Parigi “per li tumulti che nacquero” (Doc. veneti, IX), ma non è certo da trascurare la personale urgenza bruniana di affermarsi sul piano accademico-speculativo dopo i tentativi compiuti a Tolosa e Parigi.

Dopo due anni dunque Bruno finisce a Londra, presso l’ambasciatore francese Castelnau, in Salisbury Court, a Butcher Row, vicino al Tamigi dove “non faceva altro, se non che stava per suo gentilomo” (Doc. veneti, IX). Qui, secondo le indagini di John Bossy (cfr. -, Giordano Bruno e il mistero dell’ambasciata, Garzanti, 1992) svolge un lavoro di spionaggio contro l’ambasciatore francese di cui era ospite, a tutto svantaggio dei cattolici, arrivando addirittura a rivelare i segreti carpiti in confessione. Infatti, pur essendo già da tempo un feroce nemico del cattolicesimo e della Chiesa, da lui considerati la causa della decadenza dell’Europa, Bruno si finge zelante sacerdote e celebra riti in cui non crede, vantando invece la propria apostasia dal cattolicesimo presso la corte inglese.

Tra il 10 e il 13 giugno 1583 fece una prima visita ad Oxford, al seguito del conte palatino polacco Alberto Laski: in tale occasione, pur non facendo parte degli oratori designati, sostenne un pubblico dibattito con i dottori oxoniensi, in particolare con il teologo John Underhill. Rientrato a Londra, pare indirizzasse allora la sua pomposa lettera Ad excellentissimum Oxoniensis Academiae Procancellarium, clarissimos doctores atque celeberrimos magistros (allegata ad alcuni esemplari della Explicatio triginta sigillorum), con la quale faceva istanza per l’ottenimento di una lettura ad Oxford. Nella sua missiva cosí si presenta: “Professore di una sapienza piú pura e innocua, noto nelle migliori accademie europee, filosofo di gran seguito, ricevuto onorevolmente dovunque, straniero in nessun luogo, se non tra barbari e gli ignobili... domatore dell’ignoranza presuntuosa e recalcitrante... ricercato dagli onesti e dagli studiosi, il cui genio è applaudito dai piú nobili...”. Sebbene dai registri universitari non risulti che il Bruno abbia tenuto un corso formale in quella sede, la sua stessa testimonianza di avervi tenuto “pubbliche letture, e quelle de immortalitate animae, e quelle de quintuplici sphaera” (Dialoghi italiani, p. 134: vedansi Doc. parigini, I, e Opera, II, 2, p. 232), risulta confermata dalla ostile testimonianza di George Abbot (cfr. McNulty), il futuro arcivescovo di Canterbury, allora membro del Balliol College, da cui si apprende che, dopo la prima visita ad Oxford, il Bruno vi tornò nel corso della stessa estate e vi iniziò un corso in latino sostenendo, tra l’altro, la teoria copernicana del movimento della Terra e della immobilità dei cieli: anticipando quindi pubblicamente quanto da lui elaborato nei dialoghi londinesi stampati l’anno seguente. Cosí il Bruno come l’Abbot concordano nell’affermare che tale corso venne interrotto per pressioni esterne (stando all’Abbot, il medico Martin Culpepper, guardiano di New College, e Tobie Matthew, decano di Christ Church, avrebbero rilevato un plagio bruniano nei confronti del ficiniano De vita coelitus comparanda). Interrotto il corso dopo la terza lezione, rientrò a Londra, presso il Castelnau, ribadendo il proprio atteggiamento antiaccademico, in senso antiaristotelico e insieme antiumanistico.

A Londra il Bruno condusse la propria polemica culturale e speculativa sia in discussioni nell’ambito dei circoli di corte, sia mediante la divulgazione a stampa delle proprie teorie già respinte dal mondo universitario inglese. La prima opera pubblicata a Londra, nel 1583, è un volumetto contenente l’Ars reminiscendi, l’Explicatio triginta sigillorum (preceduta in alcuni esemplari dalla già citata lettera agli Oxoniensi) e il Sigillus sigillorum. Il 14 febbraio del 1584, mercoledí delle Ceneri, il Bruno venne invitato a illustrare la propria teoria sul moto della Terra nella “onorata stanza” di sir Fulke Greville, a Whitehall, in compagnia di Giovanni Florio e del medico gallese Matthew Gwinne, essendo presenti due dottori oxoniensi sostenitori del sistema geocentrico e un cavaliere di nome Brown (in sede processuale tale riunione venne dichiarata come avvenuta invece in casa del Castelnau). La conversazione degenerò presto in un diverbio. Tramite il resoconto della sfortunata discussione, il Bruno enuncia in questi dialoghi la propria cosmografia: muovendo dall’eliocentrismo copernicano, egli approda intuitivamente a una concezione singolare dell’universo. Suddivisa in cinque dialoghi, dedicati all’ambasciatore francese, la Cena è in sostanza un’opera cosmografica che, se da una parte contrasta il geocentrismo aristotelico e tolemaico, dall’altra parte trascende l’eliocentrismo copernicano con l’affermazione della pluralità dei mondi nell’universo infinito (non senza la suggestione implicita della definizione ermetica di Dio, come sfera infinita il cui centro è ovunque e la cui circonferenza non si trova in alcun luogo).

Nel 1584 Bruno pubblica lo Spaccio, dove espone un piano di riforma morale che implica la critica all’etica cristiana delle Chiese riformate non meno che di quella Cattolica, in nome di un attivismo umanistico contrapposto all’umanesimo mistico. L’ispirazione acristiana dell’etica bruniana sembra trovare conferma nella critica - metaforicamente condotta - della duplice natura della persona del Cristo. Le allusioni politiche contenute nello Spaccio sono compatibili con l’orientamento bruniano e che risale al suo soggiorno parigino: c’è chi pur oggi continua a ritenere che la “bestia trionfante” spodestata nello Spaccio sia da identificare con papa Sisto V. Ma è soprattutto per la Cena e per le sue invettive feroci contro i londinesi che egli decide di tornare imprudentemente a Parigi, al seguito dell’ambasciatore Castelnau. Al suo rientro a Parigi il Bruno veniva a trovare un clima politico mutato, di qui forse il suo tentativo infruttuoso “de ritornar nella religione” cattolica (Doc. veneti, XII) tramite il nunzio apostolico Girolamo Ragazzoni. In realtà, ancora una volta, egli fa il doppio gioco, tessendo rapporti anche con i protestanti, benché nello Spaccio della bestia trionfante del 1584 avesse deprecato violentemente, in mille maniere, la figura di Lutero. Entrò in contatto con gli italiani di Parigi, tra i quali Giovanni Botero, stringendo amicizia con Iacopo Corbinelli che lo definí “piacevol compagnietto, epicuro per la vita” (cfr. gli studi della Yates), e dal 6 dicembre 1585 prese a frequentare l’abbazia di St. Victor.

Due episodi clamorosi vanificarono il residuo appoggio di cui il Bruno ancora godeva a Parigi. Dopo aver assistito ad una pubblica dimostrazione del compasso di riduzione inventato dal geometra salernitano Fabrizio Mordente, uomo illetterato, il Bruno acconsentí a divulgare in latino la scoperta, parendogli atta a dimostrare il limite fisico della divisibilità, conforme alla propria incipiente monadologia. Pubblicò infatti, prima del 14 aprile 1586, i Dialogi duo de Fabricii Mordentis Salernitani prope divina adinventione (seguiti dall’Insomnium), presso P. Chevillot: opera ambiguamente laudatoria che irritò il Mordente, alla cui polemica verbale il Bruno rispose con i sarcastici dialoghi Idiota triumphans e De somnii interpretatione, dedicati al Del Bene e fatti stampare prima del 6 giugno insieme con i due precedenti dialoghi mordentiani. A tale imprudenza si aggiunse una disputa tenuta il 28 maggio al Collège de Cambrai, in presenza dei lecteurs royaux, sulla base del Centum et viginti articuli de natura et mundo adversus peripateticos: programma da lui fatto stampare sotto il nome del discepolo J. Hennequin. Secondo Corbinelli, il Bruno “s’andò con Dio per paura di qualche affronto, tanto haveva lavato il capo al povero Aristotele”, mentre il Mordente decideva di ricorrere contro di lui.

Lasciata per tempo Parigi, il Bruno giunse in Germania nel giugno 1586; toccata Magonza e Wiesbaden, il 25 luglio veniva immatricolato all’università di Marburgo come “theologiae doctor romanensis” (Doc. tedeschi, I). L’insegnamento bruniano si dovette mostrare incompatibile con l’aristotelismo di quella università. Il Bruno entrò in conflitto col rettore, Petrus Nigidius, che lo aveva assunto e che lo licenziò. Ad una protesta formale il Bruno fece seguire le proprie dimissioni. Nella stessa estate passò a Wittenberg, nella cui università venne introdotto da A. Gentili e immatricolato (20 agosto) come “doctor italus” (Doc. tedeschi, II). Per circa due anni poté insegnare indisturbato (lesse, tra l’altro, l’Organon di Aristotele) e fece stampare il De lampade combinatoria lulliana (1587) - commentario dell’Ars magna - cui premise una lettera alle autorità accademiche mostrandosi riconoscente per l’accoglienza. L’8 marzo 1588 il Bruno si accomiatava dall’università con una Oratio valedictoria stampata dal Cratone: va notato che il vecchio duca Augusto era morto prima dell’arrivo del Bruno, e che il successore Cristiano I favorí progressivamente il calvinismo, giungendo a proibire, nel 1588, ogni polemica a questo contraria; di qui la precarietà della posizione del Bruno. Nella sua Oratio il Bruno tracciò un elogio smodato della figura di Lutero, contrapposta a quella del Papa, presentato, secondo le migliori tradizioni del luogo, come un vero anticristo. “Come ha usato Calvino contro la Chiesa, cosí adesso usa Lutero: il cattolicesimo emerge come il vero grande nemico” (cosí precisa Matteo D’Amico nel suo già citato libro Giordano Bruno. Avventure e misteri...). Il gioco riuscirà, poiché evidentemente a Wittenberg non erano a conoscenza del libello antiluterano di soli quattro anni prima, e cioè lo Spaccio. In esso infatti Bruno auspicava che Lutero e i suoi seguaci fossero... “sterminati ed eliminati dalla faccia della terra come locuste, zizzanie, serpenti velenosi”, essendo causa di guerre, disordini e discordie senza fine. Giusto per toccare con mano la “scientificità” del personaggio, Bruno trattò anche della metempsicosi, affermando che coloro i quali abbiano... “viso, volto, voci, gesti, affetti ed inclinazioni, altri cavallini, altri porcini, asinini, aquilini (...), sono stati o sono per essere porci, cavalli, asini, aquile, o altro che mostrano”!

Partito cosí da Wittenberg, il Bruno giunse a Praga nella primavera del 1588 e vi si trattenne fino al principio dell’autunno, attrattovi forse dalla figura dell’imperatore Rodolfo II. Questi stava facendo della città un centro di maghi, alchimisti e occultisti provenienti da tutta Europa. Rodolfo è un tipo a dir poco bizzarro, spesso preda di allucinazioni e crisi depressive. Ancora una volta Bruno cerca il potere, aspira a coniugare le arti magiche, di cui si ritiene in possesso, con alleanze potenti e concrete. C’è ormai in lui il desiderio di non rimanere un teorico, ma di passare all’azione, di essere ispiratore di un rinnovamento del mondo, di una palingenesi, che i segni dei tempi gli dicono vicina, e che lui vuole guidare, con compiti e ruoli primari. Ma, vuoi per il suo carattere, vuoi perché le vantate arti magiche in suo possesso non danno i frutti sperati e promessi, anche Praga viene presto abbandonata.

Al principio d’autunno del 1588 il Bruno si recò a Helmstedt, attrattovi dalla “Academia Iulia” (fondata dal duca protestante Giulio di Brunswick), dove fu registrato il 13 gennaio 1589, e dove il 1º luglio lesse l’Oratio consolatoria per la morte del duca avvenuta il 3 maggio. Per l’ennesima volta egli, fingendosi protestante si scaglia contro la Chiesa cattolica, suo bersaglio preferito. Il Bruno fu remunerato dal nuovo duca, Enrico Giulio, ma non gli mancarono seri fastidi: fu infatti scomunicato dal pastore della locale Chiesa luterana, Gilbert Voët, per motivi che il Bruno definí di natura privata in una lettera di protesta alle autorità accademiche, ma che avranno avuto giustificazione formale per sospetto filocalvinismo (è comunque significativo che alla originaria scomunica cattolica e a quella calvinista ginevrina si aggiungesse ora la scomunica luterana). Il Bruno rimase tuttavia nella città fino all’aprile 1590. Durante l’anno e mezzo ivi trascorso lavorò alle opere poi stampate a Francoforte e compose il gruppo di opere “magiche” stampate postume negli Opera (1891), De magia e Theses de magia (concernenti la magia naturale), De magia mathematica (parzialmente tuttora inedita nel “codice di Mosca”), De rerum principiis et elementis et causis; trattati tutti che tendono a dimostrare la possibilità dell’utilizzazione pratica delle forze occulte. Nonostante le innumerevoli disavventure al Bruno non viene mai a mancare quella disponibilità di denari che gli permette di fare lunghi viaggi, di affittare appartamenti, di tenere a suo servizio diversi segretari, di pubblicare opere corpose, di vivere infine per lunghi periodi senza alcun lavoro fisso; denari, ipotizza il D’Amico, che potrebbero giungere da quell’attività cosí redditizia di informatore segreto che egli aveva appreso a Londra.

Il 10 aprile intervenne ad una disputa tenuta dal dottor Heidenreich e il 13 si accomiatò dall’università con l’intenzione di passare per Magdeburgo allo scopo di farvi stampare qualcosa di suo in onore del duca. La partenza fu ritardata fin oltre il 22, ed è probabile che il Bruno si recasse direttamente a Francoforte sul Meno, dove giunse al piú tardi nel mese di giugno. Il 2 luglio il Senato della città rigettò una sua richiesta di poter alloggiare presso lo stampatore J. Wechel, il quale tuttavia gli procurò alloggio presso il convento dei carmelitani, i quali, o per ignoranza nei suoi riguardi o per bontà d’animo, non gli rifiutarono alloggio. Il Bruno attese soprattutto alla pubblicazione di tre poemi, dedicati al duca di Brunswick, per i quali egli curò la stampa e intagliò i legni, salvo che per l’ultimo, a causa di un repentino allontanamento dalla città. Forse proprio a causa dell’ordine di estradizione del Senato francofortese, poco prima del 13 febbraio 1591, il Bruno riparò a Zurigo, dove tenne lezioni di filosofia scolastica raccolte e pubblicate poi da Raphael Egli. Durante il secondo soggiorno francofortese il Bruno fu raggiunto da alcune lettere del patrizio veneziano Giovanni Mocenigo, il quale, letto il De minimo, lo invitava a Venezia affinché gli “insegnasse l’arte della memoria ed inventiva” (Doc. veneti VIII).

Il Bruno si recò a Padova (1591) dove si trattenne, con brevi interruzioni, per almeno tre mesi. L’attività del Bruno a Padova induce a ritenere che, con l’appoggio del Besler (procuratore degli studenti tedeschi), egli mirasse alla vacante cattedra di matematica, che invece fu assegnata l’anno seguente a Galileo Galilei. Rivelatosi infruttuoso l’insegnamento padovano, al principio dell’inverno il Bruno si trasferí a Venezia, prendendo dimora, almeno dal marzo 1592, in contrada S. Samuele, presso il Mocenigo. Venne cosí accolto con curiosità da una cerchia di nobili da salotto, desiderosi di conoscere i suoi segreti. Ma il Bruno non era incline a fare il precettore privato: il suo desiderio era quello di usare le sue conoscenze magiche, espresse nei testi De magia e De Vinculis, per assoggettare nientemeno che il pontefice Gregorio XIV ai suoi disegni di riforma religiosa e politica universale. Egli riteneva infatti di saper controllare e dominare le “forze demoniche” presenti nella natura e di poter soggiogare il prossimo con messaggi subliminali e formule magiche non percepibili dagli incantati: “Ritmi e canti che racchiudono efficacia grandissima, vincoli magici che si realizzano con un sussurro segreto...” (cfr. De Vinculis). Bruno incominciò a frequentare il “ridotto” Morosini, sul Canal Grande, dove, in un clima di “civile e libera creanza”, si disputava di cose che avevano “per fine la cognizione della verità” (cfr. MICANZIO F., Vita di Paolo Sarpi, Leida 1646). Verso la metà di maggio 1592, nella chiesa dei SS. Giovanni e Paolo, confidò al domenicano fra’ Domenico da Nocera il proprio desiderio di “quetarsi” e di comporre un libro da offrire al neoeletto Clemente VIII, con lo scopo ultimo di trasferirsi a Roma, ed ivi “accapare forsi alcuna lettura” (Doc. veneti, X): programma illusorio, suggeritogli forse dalla politica papale e dalla contemporanea esperienza di Francesco Patrizi.

Il 21 maggio, allo scopo di far stampare a Francoforte alcune sue opere, inedite e smarrite, “delle sette arte liberali e sette altre inventive, e dedicar queste... al Papa” (Doc. veneti, XVII), il Bruno chiese licenza al Mocenigo. Costui, deluso e offeso dall’insegnamento ricevuto, la notte del 22 lo fece arrestare dai suoi servitori e il giorno 23 presentò una denuncia per eresia (allegando tre libri a stampa del Bruno e l’autografo della smarrita operetta “di Dio, per la deduzion di certi suoi predicati universali”, nonché i nomi di due testimoni: i librai G. Bruno Ciotti e G. Britano) all’inquisitore veneto fra’ Gabriele da Saluzzo. La sera stessa il Bruno veniva condotto alle carceri di S. Domenico di Castello. Si apriva cosí la fase veneta del processo, che si concluse nove mesi dopo con la sua estradizione a Roma.

Il Bruno era complessivamente accusato di disprezzare le religioni, di non ammettere la “distinzione in Dio di persone”, di avere opinioni blasfeme sul Cristo, di non credere alla transustanziazione, di sostenere che il mondo è eterno e che vi sono mondi infiniti, di credere alla metempsicosi, di attendere all’arte divinatoria e magica, di negare la verginità di Maria, di disprezzare i dottori della Chiesa, di ritenere che i peccati non vengano puniti e di indulgere infine ai peccati contro il sesto comandamento. Il Bruno era già abituato ai processi, alle abiure, alle fughe, e forse pensava, in cuor suo, di farla nuovamente franca. La sua tattica difensiva consisteva nell’ammettere alcune accuse, nell’attenuarne altre, e nel negare, infine, le piú infamanti. Negare tutto sarebbe stato troppo sciocco, vista la possibilità per il tribunale di venire in possesso dei suoi scritti, e di indagare sul suo passato. Lo scopo era quello di “apparire persona rispettosa della autorità della Chiesa e della sua dottrina, anche se momentaneamente posto al di fuori di essa” (cosí il D’Amico, op. cit.). Il Bruno arriva cosí a rinnegare alcune sue opere, e a presentare i suoi passati riavvicinamenti alla Chiesa, compiuti sempre e solo per convenienza politica, come testimonianza della sua sostanziale “ortodossia”. Il filosofo degli “eroici furori”, in realtà, non ha nulla di eroico: “tutti li errori che io ho commesso... et tutte le heresie... hora io le detesto et abhorrisco...”. Come già coi calvinisti di Ginevra, il ribelle, la spia, l’arrivista in cerca di poltrone universitarie, dopo aver attaccato e inveito, si inginocchia e abiura, con pari teatralità e finta compunzione. Ma a Roma il personaggio è ben noto e nel febbraio 1593 l’Inquisizione avoca a sé il processo. Il 19 febbraio 1593 il Bruno usciva dal carcere veneziano e, fatto salpare per Ancona, il giorno 27 faceva ingresso nel carcere del S. Uffizio di Roma da cui, dopo lungo processo, sarebbe uscito circa otto anni piú tardi per l’esecuzione della sentenza.

Gli episodi noti e salienti del processo romano sono cosí riassumibili: nell’estate del 1593 si ha una nuova e grave denuncia da parte di fra’ Celestino da Verona, incarcerato a Venezia, il quale gli imputa di aver sostenuto che Cristo peccò mortalmente, che l’inferno non esiste, che Caino fu migliore di Abele, che Mosè era un mago e inventò la legge, che i profeti furono uomini astuti e ben meritarono la morte, che i dogmi della Chiesa sono infondati, che il culto dei santi è riprovevole, che il breviario è opera indegna; di aver bestemmiato e di aver intenzioni sovversive ove fosse costretto a rientrare nell’Ordine.

Il Bruno mantenne la linea difensiva già adottata a Venezia: attenuò la portata dei dubbi circa la Trinità, disponendosi ad accettare il dogma; negò le accuse circa l’inferno, Cristo, i propositi sovversivi, l’ateismo, le manifestazioni blasfeme; precisò il significato di “magia” con riferimento a Mosè, e la propria opinione, ritenuta “filosoficamente” e ipoteticamente, circa la metempsicosi; negò l’opinione attribuitagli circa Caino, e precisò quella relativa alla pluralità dei mondi; negò le pratiche superstiziose, precisando il proprio interesse per l’astrologia. Il tribunale inquisitoriale non emette condanne frettolose, ma procede con precisione e scrupolo, convocando testimoni, verificando attentamente le opere scritte, rispettando tutte le procedure, invitando ripetutamente l’imputato a dire la verità e ad abiurare. Dal gennaio al marzo 1594 furono presentate nuove e piú gravi accuse.

 

 

La questione della pluralità dei mondi

Merita a questo punto un commento l’accusa circa la dottrina della “pluralità dei mondi”, una tematica che potrebbe trarre parzialmente in inganno il lettore moderno. Giordano Bruno ipotizzò la presenza di una vita diffusa in tutto l’universo, ma non come crederemmo noi. La sua concezione vitalista gli fece concepire un universo non solo popolato da abitanti su tutte le stelle e i pianeti, ma animato in ogni sua struttura: l’intero universo diventava cosí una struttura vitale. Tale concezione fantastica tuttavia era incompatibile sia con il modello geocentrico, sia con il modello eliocentrico cosí come allora venivano concepiti, con le loro “sfere di cristallo”. In realtà, prima ancora del Bruno, nella cosmologia del De docta ignorantia (1440) il cardinal Nicola Cusano (Nikolaus Krebs von Cues, 1401-1464) pervenne ad un’originale concezione dei rapporti tra Dio e il mondo. Tali concezioni portarono il Cusano alla critica della tradizionale cosmologia aristotelica. Compenetrato da Dio in quanto sua immagine, il mondo non può essere che “infinito”; non si può quindi attribuirgli uno spazio finito e un unico centro. Affermando la relatività delle rappresentazioni fisiche del luogo e del movimento, il Cusano preludeva in certo qual modo alla rivoluzione eliocentrica copernicana.

Egli alluderà anche a possibili abitanti di altri mondi per sistematizzare dal punto di vista filosofico le loro possibili relazioni con la Terra e con le sue perfezioni, oltre che fra la natura dei loro abitanti e la nostra. Con una riflessione ancor oggi condivisibile, il cardinal Cusano che tuttavia era un realista e un autentico filosofo, ben piú del Bruno, concludeva che, nonostante tutto, non possiamo sapere nulla: «Minus autem de habitatoribus alterius regionis improportionabiliter scire poterimus...» (cfr. lib. II, c. 12: cfr. NICCOLÒ CUSANO, De docta ignorantia, Lipsia 1932, 107-108). Prima ancora del Cusano già Tommaso D’Aquino aveva trattato della questione della pluralità dei mondi. Come già accennato, il dibattito medioevale sulla molteplicità dei mondi non ha nulla a che fare con l’attuale significato che daremo oggi a tale espressione. La teologia medioevale era puramente speculativa e il concetto di “pluralità di mondi” va inteso alla luce del concetto di unità del mondo o, per meglio dire, di unità dell’Universo. Nel pensiero di Tommaso e di altri teologi medioevali, essa discendeva dall’unità del suo Creatore e dall’unità della sua causalità finale esercitata su tutto ciò che esiste. L’Aquinate sapeva bene infatti che l’idea di una pluralità dei mondi era tipica dei fautori del caso, i quali - come Democrito - negavano una sapienza divina ordinatrice. Proprio a queste tesi S. Tommaso opponeva l’unità/unicità del mondo.

Da quanto detto si può comprendere come l’apporto bruniano alla tesi della vita su altri mondi sia non solo ben poco significativo ma soprattutto estraneo ad ogni metodo e valore scientifico. Si dice che ogni eresia contenga delle mezze verità. È vero, il problema però sono quelle mezze falsità che stanno alla base di ogni disastro culturale, etico ed esistenziale. Che fine avrebbe fatto la scienza se, per assurdo, anziché seguire Galileo avesse perso tempo dietro le innumerevoli fantasie bruniane?

 

 

La sentenza e la consegna alla giustizia secolare

Il 18 gennaio del 1599, su istanza del Cardinal Roberto Bellarmino, venivano sottoposte al Bruno, per la sua dichiarazione di abiura, otto proposizioni eretiche (ci è nota la prima, de haeresi Novatiana, e la settima, ubi tractat an anima sit in corpore sicut nauta in navi). Il 15 febbraio il Bruno si dichiarò disposto all’abiura incondizionata; ma il 24 agosto tornò a manifestare esitazioni sulla prima e la settima. Il 9 settembre i consultori si dichiararono in favore dell’applicazione della tortura, che tuttavia non fu autorizzata da papa Clemente VIII. Il 10 settembre il Bruno si dichiarò disposto all’abiura, ma il 16, con un memoriale al Papa, rimetteva in discussione le proposizioni incriminate. Intanto al S. Uffizio perveniva un’ulteriore accusa (dovuta, sembra, ad un reduce inglese) in cui il Bruno veniva di nuovo accusato di irriverenza verso il Papa (nella sua opera Spaccio) e di aver lasciato fama di ateo in Inghilterra.

Settembre-ottobre 1599: il tribunale ordinò il termine di quaranta giorni per il riconoscimento degli errori. Il 21dicembre il Bruno rifiutò la ritrattazione nonostante l’intervento del Generale e del Procuratore dei domenicani.

Il 20 gennaio 1600 il Bruno venne dichiarato eretico formale, impenitente e pertinace, e consegnato al braccio secolare, ossia alla giustizia civile. Come eretico, avendo perso lo status clericale il Bruno non godeva piú del privilegio del foro e venne pertanto sottratto alla competenza del tribunale ecclesiastico, rientrando in quella della giustizia secolare. Secondo Yates il processo ebbe nella sua ultima fase un’accelerazione dovuta forse ad un evento contemporaneo: l’arresto di Tommaso Campanella. Non bisogna dimenticare l’epoca difficile in cui versava la Chiesa. La Riforma portò alla ribalta prima Lutero, con le conseguenti guerre dei cavalieri e dei contadini, e le relative mattanze, e poi millenaristi come Matthison di Haarlem, un capo anabattista che si sentiva “incaricato della esecuzione del castigo divino contro gli empi, e mirava semplicemente al massacro universale”, o il “profeta Hofmann” di Strasburgo, “il quale andava dicendo di voler fondare la Nuova Gerusalemme” e si accingeva a preparare la mobilitazione “dei cavalieri della strage che con Elia e Enoch appariranno impugnando la spada e vomitando fiamme per sterminare i nemici del Signore”. Campanella è filosoficamente molto vicino a Bruno. Anch’egli ritiene che stia giungendo l’ora dei “grandi mutamenti, l’avvento dell’età dell’oro”. Organizza cosí una congiura, in Meridione, cercando l’alleanza dei Turchi, e in particolare di spietati pirati come Bassàn Cicala, per realizzare uno Stato magico, dittatoriale, di impostazione collettivista. La congiura venne sventata nel 1599 (cfr. FRANCESCO FORLENZA, La congiura antispagnola di Tommaso Campanella. Da Stilo alla corte di Richelieu l’odissea di un ribelle, le sue sventure, i processi e la pazzia, Temi, 1996).

L’8 febbraio 1600 il Bruno veniva condotto dal carcere del S. Uffizio al palazzo del cardinal Madruzzi, in piazza Navona, dove la sentenza venne letta pubblicamente. Riconosciuto “eretico impenitente pertinace ed ostinato” (Doc. romani, XXVI), il Bruno fu condannato alla degradazione dagli ordini sacri, all’espulsione - come già detto - dal foro ecclesiastico e ad essere consegnato alla giustizia secolare per la debita pena. Trasferito al carcere di Tor di Nona, e visitato ancora nei giorni seguenti da teologi e confortatori, la mattina del giovedí 17 febbraio fu condotto a Campo di Fiori, dove venne condannato al rogo (Doc. romani, XXIX).

Dopo essere stato scacciato da almeno dieci città diverse, condannato da cattolici, calvinisti, protestanti e professori universitari; dopo essere stato spia, aver violato il segreto confessionale, aver ripudiato se stesso, per convenienza, innumerevoli volte, e, infine, dopo aver cercato, attraverso la magia e l’intrigo, di rovesciare l’ordine politico, non solo quello religioso, del suo tempo, spacciarlo per un puro, un eroe coerente sino alla fine, uno scienziato moderno, come cercano di fare gli ideologi delle cause perse, è solo una grossolana ed enorme falsificazione della storia.

 

 Ipazia

Ipazia

 

 

 

Il caso di Ipazia e la persuasione occulta del cinema

Nel febbraio 2010 lo scrittore Rino Cammilleri mise in evidenza che sulla... «Rete è partita una raccolta di firme per far uscire in Italia il film del regista spagnolo Alejandro Amenabar, Agorà, che la solita subdola censura ecclesiastica vorrebbe vietare agli italiani. Sí, perché il film parla di Ipazia, l’affascinante filosofa pagana di Alessandria uccisa dai cristiani per ordine del vescovo s. Cirillo nel 415... Ma la “verità” della pellicola non è la “verità storica”“. I cercatori professionisti di scheletri nell’armadio cristiano ogni tanto tirano fuori l’episodio e, ovviamente, lo adattano al politicamente corretto corrente. Fino all’Illuminismo nessuno sapeva neanche chi fosse, questa Ipazia. Poi, il positivista John Toland nel 1720 e il solito Voltaire nel 1736 aprono le danze sulla progressista Ipazia vittima dell’oscurantismo clericale. Nel 1776 l’inglese Edward Gibbon consolida il mito nella sua celebre opera sulla caduta (per colpa del cristianesimo) dell’Impero romano. Nel secolo seguente tocca ai romantici: Ipazia è bellissima ed è l’ultima rappresentante dei mondo antico (dipinto come un’arcadia tutta ninfe, zefiri, pastorelle e satiri) trucidata dal fanatismo papista. Naturalmente, nel Novecento, Ipazia, vetero-femminista, diventa la preda della misoginia cattolica. L’unica voce un po’ fuori coro è quella di Mario Luzi, che le dedica un dramma nel 1978. Adesso, il film (e il cinema, forma di arte totale, si imprime nelle menti con una forza che la parola scritta neanche si sogna: la scienza contro la religione, la tolleranza contro il fideismo. E indovinate chi sono i buoni e chi i cattivi. Roba da Odifreddi. Dunque, rassegnamoci al solito minestrone politicamente corretto. E non contate su una cinematografia contraria perché non esiste: Martinelli e il suo Barbarossa sono stati presentati come “leghisti” su tutti i media, cosí che il pubblico è rimasto a casa». Cosí scrive Cammilleri, con la sua penna arguta e incisiva. Che poi Ipazia fosse avversa al Cristianesimo è del tutto falso. Si pensi che ciò che si conosce della sua attività lo si deve ad alcuni suoi discepoli, tra i quali c’erano diversi cristiani, come Sinesio di Cirene che divenne perfino vescovo. Ma non solo. Ella era talmente lontana dall’anticristianesimo che arrivò a lodare le virtù tipiche della “nuova religione” come la verginità e la modestia nel vestire; e ai suoi consigli ricorreva spesso Oreste, cristiano e prefetto di Alessandria, come più avanti riporta il Cammilleri, i cui paragrafi che seguono non sono meno vivaci.

«Coi nostri limitati mezzi, dunque, ecco la verità sul “caso, Ipazia”. Innanzitutto bellissima lo sarà stata forse, da giovane, visto che nel 415 la filosofa aveva sui sessant’anni (in un’epoca in cui già a quaranta pochi avevano ancora denti in bocca). Il suo fu un omicidio politico e la religione non c’entrava affatto. lpazia, figlia di un filosofo - Teone - molto addentro nell’ermetismo [cosí caro a Giordano Bruno] e nell’orfismo, era una neoplatonica che teneva scuola ad Alessandria. Una scuola tra le tante, in quella capitale della cultura antica. La parola “scuole” non deve trarre in inganno: si trattava di cenacoli per selezionati adepti. Di lei non è rimasta alcuna opera. Quel che si sa lo si deve ai suoi discepoli. Tra i quali c’erano parecchi cristiani. Uno di questi, Sinesio di Cirene, divenne addirittura vescovo. Secondo il metodo platonico (derivato a sua volta da quello pitagorico) i discepoli apprendevano “misteri” che non dovevano essere divulgati, perché non tutti erano in grado di comprendere».

Come si può vedere dunque una concezione culturale ben lontana da qualsiasi pensiero scientifico, a meno che non si voglia rinunciare alla concezione moderna della scienza, ossia al metodo sperimentale di cui siamo debitori a Galileo Galilei. In caso contrario dovremo qualificare come scienziati anche gli alchimisti del ‘400. Ciò assodato Cammilleri continua...

«Ipazia non era affatto pagana nel senso di adoratrice di Giove, Giunone e Mercurio; anzi, come neoplatonica era piú vicina al cristianesimo che al paganesimo. Infatti, lodava virtú come la verginità (non si sposò mai) e la modestia nel vestire. Ma, come i pitagorici e i platonici, sosteneva che i filosofi, essendo i piú sapienti, dovevano occuparsi di politica, anche solo come consiglieri del principe. Infatti, ai suoi consigli ricorreva spesso il cristiano Oreste, prefetto di Alessandria. Oreste, da buon funzionario bizantino, aveva la classica visione cesaropapista dei rapporti con l’autorità religiosa, mentre il patriarca Cirillo cercava di salvaguardare l’indipendenza della Chiesa rispetto al potere politico. Nel 414 il contrasto tra i due divenne plateale; Cirillo cercò un compromesso ma Oreste rimase fermo sulle sue posizioni. Si formarono, al solito, due partiti (cosa normalissima nell’antichità; S. Ambrogio di Milano ne sapeva qualcosa).

Tra i partigiani del patriarca, però, c’erano i cosiddetti parabolani, cristiani in odore di eresia per la loro ricerca fanatica del martirio: si consacravano con giuramento alla cura degli appestati, sperando in tal modo di morire per Cristo. Li chiamavano cosí in ricordo degli antichi gladiatori (aboliti da Teodosio) che affrontavano i leoni nel circo. Cirillo cercava di tenerli sotto il suo controllo ma la città era turbolenta: nel 361 un vescovo imposto da Costantinopoli, Giorgio di Cappadocia, era stato linciato; sette anni dopo la morte di Ipazia stessa sorte era toccata al nuovo prefetto; nel 457 venne ucciso a furor di popolo un altro vescovo di nomina imperiale, Proterio. Fu in questo ambiente e in questo clima che la colpa dell’intransigenza di Oreste venne attribuita a Ipazia e ai suoi consigli. Si sparse la voce che i “misteri” della sua scuola riguardavano pratiche magiche e negromantiche. La donna venne assalita da un gruppo di esagitati mentre gli schiavi la portavano a passeggio in lettiga, tirata giú e trucidata. Oreste e Cirillo, messi di fronte al fatto compiuto (e impressionati dalla piega che aveva preso la loro disputa), si riconciliarono. Il prefetto lasciò Alessandria, forse per fare rapporto alla capitale; comunque, forse sostituito, non tornò piú. Un’altra cosa da chiarire: Cirillo non aveva niente contro il paganesimo, sia perché ormai minoritario e praticamente ininfluente, sia perché la sua preoccupazione principale era costituita, semmai, dalle eresie cristiane, che a quel tempo spuntavano al ritmo di quasi una al giorno. Solo anni dopo, con l’avvento di Giuliano l’Apostata, prese la penna per contrastare il tentativo - tutto politico - dell’imperatore di ripristinare l’antica religione civile romana. Il neoplatonismo, col suo desiderio di attingere il divino tramite la filosofia e la pratica delle virtú, continuò ad avere la città di Alessandria come suo centro fino all’invasione islamica. Tra l’altro, quest’ultima fu enormemente facilitata dall’astio accumulato dall’Africa romana contro Bisanzio, la sua gravosa tassazione (in parte giustificata dalle guerre quasi continue contro i persiani, i bulgari, gli avari e infine gli arabi) e la sua politica della mano pesante contro le eresie (che in quelle zone avevano sempre trovato terreno fertile)».

Dunque riassumendo occorre sottolineare che le notizie su Ipazia sono scarsissime e non è possibile dire molto di piú. C’è un’unica fonte, che è quella di Socrate Scolastico, e pochi altri riferimenti che giungono da altri autori contemporanei o di poco posteriori. Ne emerge una figura di donna di grande cultura e versata nell’astronomia e nella geometria. Scrisse vari commentari ad alcuni trattati fondamentali di quelle discipline, tutti andati perduti. Occupando il posto che fu del padre tenne insegnamenti pubblici e privati che attiravano il pubblico. Seguace delle dottrine neoplatoniche, allora molto diffuse, non fu tuttavia riconosciuta come filosofa nel senso stretto del termine. Rispetto a un filosofo suo contemporaneo, Isidoro di Pelusio, Ipazia era differente... “come un matematico è differente da un vero filosofo”, cosí afferma un autore antico (Damascio) con chiarezza e incisività. Astronoma, geometra e matematica, tuttavia anche nel suo caso non si può registrare alcun contributo reale per la scienza cosí come viene intesa in senso moderno. Ipazia, vittima del fanatismo politico piú che religioso è stata anche vittima - suo malgrado - del fanatismo ideologico moderno che ha tentato di strumentalizzarla in senso anticristiano, come giustamente rileva il Cammilleri:

«Naturalmente, ai cantori del politicamente corretto (il quale, come abbiamo visto, varia di epoca in epoca) tutto questo non interessa. Cosí, il mondo pagano viene immaginato (e rappresentato) come un’epoca d’oro di scienza e tolleranza, dove la gente viveva in armonia con la natura, un mondo che, ahimè, è stato distrutto dalle religioni monoteistiche, in particolare l’odiato cristianesimo. Quel mondo in realtà disperato in cui pochi campavano alle spalle di milioni di schiavi, sconvolto continuamente da guerre scatenate dalla personale ambizione di uno, quel mondo che accolse con sollievo la religione dell’amore del prossimo e della dignità umana, non è mai esistito per gli intellettuali, gli artisti, i registi e gli scrittori che, fiutato dove tira il vento, si allineano supini al Potere del momento. I milioni di martiri cristiani? Se la sono cercata e se la cercano. I cristiani sono cattivi perché hanno ucciso Ipazia, cosí come gli statunitensi fanno schifo perché hanno ammazzato Toro Seduto. In effetti, Hitler e Stalin erano battezzati, non si può negarlo. Anche Robespierre. È strano che non siano stati ancora messi tra gli scheletri nell’armadio della Chiesa cattolica. Eh, il Papa dovrebbe chiedere scusa...».

 

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