Venerati Fratelli nell'Episcopato Salute e Apostolica Benedizione!

 

Lo splendore della verità rifulge in tutte le opere del Creatore e, in modo particolare, nell'uomo creato a immagine e somiglianza di Dio (cf. Gn 1,26): la verità illumina l'intelligenza e informa la libertà dell'uomo, che in tal modo viene guidato a conoscere e ad amare il Signore. Per questo il salmista prega: «Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto» (Sal 4,7).

 

 

 

INTRODUZIONE

 

Gesù Cristo, luce vera che illumina ogni uomo

1. Chiamati alla salvezza mediante la fede in Gesù Cristo, «luce vera che illumina ogni uomo» (Gv 1,9), gli uomini diventano «luce nel Signore» e «figli della luce» (Ef 5,8) e si santificano con «l'obbedienza alla verità» (1 Pt 1,22).

Questa obbedienza non è sempre facile. In seguito a quel misterioso peccato d'origine, commesso per istigazione di Satana, che è «menzognero e padre della menzogna» (Gv 8,44), l'uomo è permanentemente tentato di distogliere il suo sguardo dal Dio vivo e vero per volgerlo agli idoli (cf. 1 Ts 1,9), cambiando «la verità di Dio con la menzogna» (Rm 1,25); viene allora offuscata anche la sua capacità di conoscere la verità e indebolita la sua volontà di sottomettersi ad essa. E così, abbandonandosi al relativismo e allo scetticismo (cf. Gv 18,38), egli va alla ricerca di una illusoria libertà al di fuori della stessa verità.

Ma nessuna tenebra di errore e di peccato può eliminare totalmente nell'uomo la luce di Dio Creatore. Nella profondità del suo cuore permane sempre la nostalgia della verità assoluta e la sete di giungere alla pienezza della sua conoscenza. Ne è prova eloquente l'inesausta ricerca dell'uomo in ogni campo e in ogni settore. Lo prova ancor più la sua ricerca sul senso della vita. Lo sviluppo della scienza e della tecnica, splendida testimonianza delle capacità dell'intelligenza e della tenacia degli uomini, non dispensa dagli interrogativi religiosi ultimi l'umanità, ma piuttosto la stimola ad affrontare le lotte più dolorose e decisive, quelle del cuore e della coscienza morale.

2. Ogni uomo non può sfuggire alle domande fondamentali: Che cosa devo fare? Come discernere il bene dal male? La risposta è possibile solo grazie allo splendore della verità che rifulge nell'intimo dello spirito umano, come attesta il salmista: «Molti dicono: "Chi ci farà vedere il bene?". Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto» (Sal 4,7).

La luce del volto di Dio splende in tutta la sua bellezza sul volto di Gesù Cristo, «immagine del Dio invisibile» (Col 1,15), «irradiazione della sua gloria» (Eb 1,3), «pieno di grazia e di verità» (Gv 1,14): Egli è «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Per questo la risposta decisiva ad ogni interrogativo dell'uomo, in particolare ai suoi interrogativi religiosi e morali, è data da Gesù Cristo, anzi è Gesù Cristo stesso, come ricorda il Concilio Vaticano II: «In realtà, solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro, e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione».

Gesù Cristo, «la luce delle genti», illumina il volto della sua Chiesa, che Egli manda in tutto il mondo ad annunciare il Vangelo ad ogni creatura (cf. Mc 16,15). Così la Chiesa, Popolo di Dio in mezzo alle nazioni, mentre è attenta alle nuove sfide della storia e agli sforzi che gli uomini compiono nella ricerca del senso della vita, offre a tutti la risposta che viene dalla verità di Gesù Cristo e del suo Vangelo. È sempre viva nella Chiesa la coscienza del suo «dovere permanente di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in un modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sul loro reciproco rapporto».

3. I Pastori della Chiesa, in comunione col Successore di Pietro, sono vicini ai fedeli in questo sforzo, li accompagnano e li guidano con il loro magistero, trovando accenti sempre nuovi di amore e di misericordia per rivolgersi non solo ai credenti, ma a tutti gli uomini di buona volontà. Il Concilio Vaticano II rimane una testimonianza straordinaria di questo atteggiamento della Chiesa che, «esperta in umanità», si pone al servizio di ogni uomo e di tutto il mondo.

La Chiesa sa che l'istanza morale raggiunge in profondità ogni uomo, coinvolge tutti, anche coloro che non conoscono Cristo e il suo Vangelo e neppure Dio. Sa che proprio sulla strada della vita morale è aperta a tutti la via della salvezza, come ha chiaramente ricordato il Concilio Vaticano II, che così scrive: «Quelli che senza colpa ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa, e tuttavia cercano sinceramente Dio, e sotto l'influsso della grazia si sforzano di compiere con le opere la volontà di Dio, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire la salvezza eterna». Ed aggiunge: «Né la divina Provvidenza nega gli aiuti necessari alla salvezza a coloro che senza colpa da parte loro non sono ancora arrivati a una conoscenza esplicita di Dio, e si sforzano, non senza la grazia divina, di condurre una vita retta. Poiché tutto ciò che di buono e di vero si trova in loro, è ritenuto dalla Chiesa come una preparazione al Vangelo, e come dato da Colui che illumina ogni uomo, affinché abbia finalmente la vita».

 

L'oggetto della presente Enciclica

4. Sempre, ma soprattutto nel corso degli ultimi due secoli, i Sommi Pontefici sia personalmente che insieme al Collegio episcopale hanno sviluppato e proposto un insegnamento morale relativo ai molteplici e differenti ambiti della vita umana. In nome e con l'autorità di Gesù Cristo, essi hanno esortato, denunciato, spiegato; in fedeltà alla loro missione, nelle lotte in favore dell'uomo, hanno confermato, sostenuto, consolato; con la garanzia dell'assistenza dello Spirito di verità hanno contribuito ad una migliore comprensione delle esigenze morali negli ambiti della sessualità umana, della famiglia, della vita sociale, economica e politica. Il loro insegnamento costituisce, all'interno della tradizione della Chiesa e della storia dell'umanità, un continuo approfondimento della conoscenza morale.

Oggi, però, sembra necessario riflettere sull'insieme dell'insegnamento morale della Chiesa, con lo scopo preciso di richiamare alcune verità fondamentali della dottrina cattolica che nell'attuale contesto rischiano di essere deformate o negate. Si è determinata, infatti, una nuova situazione entro la stessa comunità cristiana, che ha conosciuto il diffondersi di molteplici dubbi ed obiezioni, di ordine umano e psicologico, sociale e culturale, religioso ed anche propriamente teologico, in merito agli insegnamenti morali della Chiesa. Non si tratta più di contestazioni parziali e occasionali, ma di una messa in discussione globale e sistematica del patrimonio morale, basata su determinate concezioni antropologiche ed etiche. Alla loro radice sta l'influsso più o meno nascosto di correnti di pensiero che finiscono per sradicare la libertà umana dal suo essenziale e costitutivo rapporto con la verità. Così si respinge la dottrina tradizionale sulla legge naturale, sull'universalità e sulla permanente validità dei suoi precetti; si considerano semplicemente inaccettabili alcuni insegnamenti morali della Chiesa; si ritiene che lo stesso Magistero possa intervenire in materia morale solo per «esortare le coscienze» e per «proporre i valori», ai quali ciascuno ispirerà poi autonomamente le decisioni e le scelte della vita.

È da rilevare, in special modo, la dissonanza tra la risposta tradizionale della Chiesa e alcune posizioni teologiche, diffuse anche in Seminari e Facoltà teologiche, circa questioni della massima importanza per la Chiesa e la vita di fede dei cristiani, nonché per la stessa convivenza umana. In particolare ci si chiede: i comandamenti di Dio, che sono scritti nel cuore dell'uomo e fanno parte dell'Alleanza, hanno davvero la capacità di illuminare le scelte quotidiane delle singole persone e delle società intere? È possibile obbedire a Dio e quindi amare Dio e il prossimo, senza rispettare in tutte le circostanze questi comandamenti? È anche diffusa l'opinione che mette in dubbio il nesso intrinseco e inscindibile che unisce tra loro la fede e la morale, quasi che solo in rapporto alla fede si debbano decidere l'appartenenza alla Chiesa e la sua unità interna, mentre si potrebbe tollerare nell'ambito morale un pluralismo di opinioni e di comportamenti, lasciati al giudizio della coscienza soggettiva individuale o alla diversità dei contesti sociali e culturali.

5. In un tale contesto, tuttora attuale, è maturata in me la decisione di scrivere - come già annunciai nella Lettera apostolica Spiritus Domini, pubblicata il 1º agosto 1987 in occasione del secondo centenario della morte di sant'Alfonso Maria de' Liguori - un'Enciclica destinata a trattare «più ampiamente e più profondamente le questioni riguardanti i fondamenti stessi della teologia morale», fondamenti che vengono intaccati da alcune tendenze odierne.

Mi rivolgo a voi, venerati Fratelli nell'Episcopato, che condividete con me la responsabilità di custodire la «sana dottrina» (2 Tm 4,3), con l'intenzione di precisare taluni aspetti dottrinali che risultano decisivi per far fronte a quella che è senza dubbio una vera crisi, tanto gravi sono le difficoltà che ne conseguono per la vita morale dei fedeli e per la comunione nella Chiesa, come pure per un'esistenza sociale giusta e solidale.

Se questa Enciclica, da tanto tempo attesa, viene pubblicata solo ora, lo è anche perché è apparso conveniente farla precedere dal Catechismo della Chiesa Cattolica, il quale contiene un'esposizione completa e sistematica della dottrina morale cristiana. Il Catechismo presenta la vita morale dei credenti nei suoi fondamenti e nei suoi molteplici contenuti come vita dei «figli di Dio»: «Riconoscendo nella fede la loro nuova dignità, i cristiani sono chiamati a comportarsi ormai "da cittadini degni del Vangelo" (Fil 1,27). Mediante i sacramenti e la preghiera, essi ricevono la grazia di Cristo e i doni del suo Spirito, che li rendono capaci di questa vita nuova». Nel rimandare pertanto al Catechismo «come testo di riferimento sicuro ed autorevole per l'insegnamento della dottrina cattolica», l'Enciclica si limiterà ad affrontare alcune questioni fondamentali dell'insegnamento morale della Chiesa, sotto forma di un necessario discernimento su problemi controversi tra gli studiosi dell'etica e della teologia morale. È questo l'oggetto specifico della presente Enciclica, che intende esporre, sui problemi discussi, le ragioni di un insegnamento morale fondato nella Sacra Scrittura e nella viva Tradizione apostolica mettendo in luce, nello stesso tempo, i presupposti e le conseguenze delle contestazioni di cui tale insegnamento è fatto segno.  

 

 

 

CAPITOLO I

«MAESTRO, CHE COSA DEVO FARE DI BUONO...?» (MT 19,16)

Cristo e la risposta alla domanda di morale

 

«Un tale gli si avvicinò...» (Mt 19,16)

6. Il dialogo di Gesù con il giovane ricco, riferito nel capitolo 19 del Vangelo di san Matteo, può costituire un'utile traccia per riascoltare in modo vivo e incisivo il suo insegnamento morale: «Ed ecco un tale gli si avvicinò e gli disse: "Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?". Egli rispose: "Perché mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono. Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti". Ed egli chiese: "Quali?". Gesù rispose: "Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, onora il padre e la madre, ama il prossimo tuo come te stesso. Il giovane gli disse: "Ho sempre osservato tutte queste cose; che mi manca ancora?". Gli disse Gesù: "Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi"» (Mt 19,16-21).

7. «Ed ecco un tale...». Nel giovane, che il Vangelo di Matteo non nomina, possiamo riconoscere ogni uomo che, coscientemente o no, si avvicina a Cristo, Redentore dell'uomo, e gli pone la domanda morale. Per il giovane, prima che una domanda sulle regole da osservare, è una domanda di pienezza di significato per la vita. E, in effetti, è questa l'aspirazione che sta al cuore di ogni decisione e di ogni azione umana, la segreta ricerca e l'intimo impulso che muove la libertà. Questa domanda è ultimamente un appello al Bene assoluto che ci attrae e ci chiama a sé, è l'eco di una vocazione di Dio, origine e fine della vita dell'uomo. Proprio in questa prospettiva il Concilio Vaticano II ha invitato a perfezionare la teologia morale in modo che la sua esposizione illustri l'altissima vocazione che i fedeli hanno ricevuto in Cristo, unica risposta che appaga pienamente il desiderio del cuore umano.

Perché gli uomini possano realizzare questo «incontro» con Cristo, Dio ha voluto la sua Chiesa. Essa, infatti, «desidera servire quest'unico fine: che ogni uomo possa ritrovare Cristo, perché Cristo possa, con ciascuno, percorrere la strada della vita».

 

«Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?» (Mt 19,16)

8. Dalla profondità del cuore sorge la domanda che il giovane ricco rivolge a Gesù di Nazaret, una domanda essenziale e ineludibile per la vita di ogni uomo: essa riguarda, infatti, il bene morale da praticare e la vita eterna. L'interlocutore di Gesù intuisce che esiste una connessione tra il bene morale e il pieno compimento del proprio destino. Egli è un pio israelita, cresciuto per così dire all'ombra della Legge del Signore. Se pone questa domanda a Gesù, possiamo immaginare che non lo faccia perché ignora la risposta contenuta nella Legge. È più probabile che il fascino della persona di Gesù abbia fatto sorgere in lui nuovi interrogativi intorno al bene morale. Egli sente l'esigenza di confrontarsi con Colui che aveva iniziato la sua predicazione con questo nuovo e decisivo annuncio: «Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo» (Mc 1,15).

Occorre che l'uomo di oggi si volga nuovamente verso Cristo per avere da Lui la risposta su ciò che è bene e ciò che è male. Egli è il Maestro, il Risorto che ha in sé la vita e che è sempre presente nella sua Chiesa e nel mondo. È Lui che schiude ai fedeli il libro delle Scritture e, rivelando pienamente la volontà del Padre, insegna la verità sull'agire morale. Alla sorgente e al vertice dell'economia della salvezza, Alfa e Omega della storia umana (cf. Ap 1,8; 21,6; 22,13), Cristo rivela la condizione dell'uomo e la sua vocazione integrale. Per questo, «l'uomo che vuol comprendere se stesso fino in fondo non soltanto secondo immediati, parziali, spesso superficiali, e perfino apparenti criteri e misure del proprio essere deve, con la sua inquietudine e incertezza ed anche con la sua debolezza e peccaminosità, con la sua vita e morte, avvicinarsi a Cristo. Egli deve, per così dire, entrare in Lui con tutto se stesso, deve "appropriarsi" ed assimilare tutta la realtà dell'Incarnazione e della Redenzione per ritrovare se stesso. Se in lui si attua questo profondo processo, allora egli produce frutti non soltanto di adorazione di Dio, ma anche di profonda meraviglia di se stesso».

Se vogliamo dunque penetrare nel cuore della morale evangelica e coglierne il contenuto profondo e immutabile, dobbiamo ricercare accuratamente il senso dell'interrogativo posto dal giovane ricco del Vangelo e, più ancora, il senso della risposta di Gesù, lasciandoci guidare da Lui. Gesù, infatti, con delicata attenzione pedagogica, risponde conducendo il giovane quasi per mano, passo dopo passo, verso la verità piena.  

 

«Uno solo è buono» (Mt 19,17)

9. Gesù dice: «Perché mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono. Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti» (Mt 19, 17). Nella versione degli evangelisti Marco e Luca la domanda viene così formulata: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo» (Mc 10,18; cf. Lc 18,19).

Prima di rispondere alla domanda, Gesù vuole che il giovane chiarisca a se stesso il motivo per cui lo interroga. Il «Maestro buono» indica al suo interlocutore - e a tutti noi - che la risposta all'interrogativo: «Che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?», può essere trovata soltanto rivolgendo la mente e il cuore a Colui che «solo è buono»: «Nessuno è buono, se non Dio solo» (Mc 10,18; cf. Lc 18,19). Solo Dio può rispondere alla domanda sul bene, perché Egli è il Bene.

Interrogarsi sul bene, in effetti, significa rivolgersi in ultima analisi verso Dio, pienezza della bontà. Gesù mostra che la domanda del giovane è in realtà una domanda religiosa e che la bontà, che attrae e al tempo stesso vincola l'uomo, ha la sua fonte in Dio, anzi è Dio stesso, Colui che solo è degno di essere amato «con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la mente» (Mt 22,37), Colui che è la sorgente della felicità dell'uomo. Gesù riporta la questione dell'azione moralmente buona alle sue radici religiose, al riconoscimento di Dio, unica bontà, pienezza della vita, termine ultimo dell'agire umano, felicità perfetta.

10. La Chiesa, istruita dalle parole del Maestro, crede che l'uomo, fatto a immagine del Creatore, redento con il sangue di Cristo e santificato dalla presenza dello Spirito Santo, ha come fine ultimo della sua vita l'essere «a lode della gloria» di Dio (cf. Ef 1,12), facendo sì che ognuna delle sue azioni ne rifletta lo splendore. «Conosci dunque te stessa, o anima bella: tu sei l'immagine di Dio - scrive sant'Ambrogio -. Conosci te stesso, o uomo: tu sei la gloria di Dio (1 Cor 11,7). Ascolta in che modo ne sei la gloria. Dice il profeta: La tua scienza è divenuta mirabile provenendo da me (Sal 138,6), cioè: nella mia opera la tua maestà è più ammirabile, la tua sapienza viene esaltata nella mente dell'uomo. Mentre considero me stesso, che tu scruti nei segreti pensieri e negli intimi sentimenti, io riconosco i misteri della tua scienza. Conosci dunque te stesso, o uomo, quanto grande tu sei e vigila su di te...».

Ciò che l'uomo è e deve fare si manifesta nel momento in cui Dio rivela se stesso. Il Decalogo, infatti, si fonda su queste parole: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dèi di fronte a me» (Es 20,2-3). Nelle «dieci parole» dell'Alleanza con Israele, e in tutta la Legge, Dio si fa conoscere e riconoscere come Colui che «solo è buono»; come Colui che, nonostante il peccato dell'uomo, continua a rimanere il «modello» dell'agire morale, secondo la sua stessa chiamata: «Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo» (Lv 19,2); come Colui che, fedele al suo amore per l'uomo, gli dona la sua Legge (cf. Es 19,9-24 e 20, 18-21), per ristabilire l'originaria armonia col Creatore e con tutto il creato, ed ancor più per introdurlo nel suo amore: «Camminerò in mezzo a voi, sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo» (Lv 26,12).

La vita morale si presenta come risposta dovuta alle iniziative gratuite che l'amore di Dio moltiplica nei confronti dell'uomo. È una risposta d'amore, secondo l'enunciato che del comandamento fondamentale fa il Deuteronomio: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo: Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze. Questi precetti, che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore; li ripeterai ai tuoi figli» (Dt 6,47). Così, la vita morale, coinvolta nella gratuità dell'amore di Dio, è chiamata a rifletterne la gloria: «Per chi ama Dio è sufficiente piacere a Colui che egli ama: poiché non deve ricercarsi nessun'altra ricompensa maggiore dello stesso amore; la carità, infatti, proviene da Dio in maniera tale che Dio stesso è carità».

11. L'affermazione che «uno solo è buono» ci rimanda così alla «prima tavola» dei comandamenti, che chiama a riconoscere Dio come Signore unico e assoluto e a rendere culto a Lui solo a motivo della sua infinita santità (cf. Es 20,2-11). Il bene è appartenere a Dio, obbedire a Lui, camminare umilmente con Lui praticando la giustizia e amando la pietà (cf. Mic 6,8). Riconoscere il Signore come Dio è il nucleo fondamentale, il cuore della Legge, da cui discendono e a cui sono ordinati i precetti particolari. Mediante la morale dei comandamenti si manifesta l'appartenenza del popolo di Israele al Signore, perché Dio solo è Colui che è buono. Questa è la testimonianza della Sacra Scrittura, in ogni sua pagina permeata dalla viva percezione dell'assoluta santità di Dio: «Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti» (Is 6,3).

Ma se Dio solo è il Bene, nessuno sforzo umano, neppure l'osservanza più rigorosa dei comandamenti, riesce a «compiere» la Legge, cioè a riconoscere il Signore come Dio e a rendergli l'adorazione che a Lui solo è dovuta (cf. Mt 4,10). Il «compimento» può venire solo da un dono di Dio: è l'offerta di una partecipazione alla Bontà divina che si rivela e si comunica in Gesù, colui che il giovane ricco chiama con le parole «Maestro buono» (Mc 10,17; Lc 18,18). Ciò che ora il giovane riesce forse solo a intuire, verrà alla fine pienamente rivelato da Gesù stesso nell'invito: «Vieni e seguimi» (Mt 19,21).

 

«Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti» (Mt 19,17)

12. Solo Dio può rispondere alla domanda sul bene, perché Egli è il Bene. Ma Dio ha già dato risposta a questa domanda: lo ha fatto creando l'uomo e ordinandolo con sapienza e con amore al suo fine, mediante la legge inscritta nel suo cuore (cf. Rm 2,15), la «legge naturale». Questa «altro non è che la luce dell'intelligenza infusa in noi da Dio. Grazie ad essa conosciamo ciò che si deve compiere e ciò che si deve evitare. Questa luce e questa legge Dio l'ha donata nella creazione». Lo ha fatto poi nella storia di Israele, in particolare con le «dieci parole», ossia con i comandamenti del Sinai, mediante i quali Egli ha fondato l'esistenza del popolo dell'Alleanza (cf. Es 24) e l'ha chiamato ad essere la sua «proprietà tra tutti i popoli», «una nazione santa» (Es 19,56), che facesse risplendere la sua santità tra tutte le genti (cf. Sap 18,4; Ez 20,41). Il dono del Decalogo è promessa e segno dell'Alleanza Nuova, quando la legge sarà nuovamente e definitivamente scritta nel cuore dell'uomo (cf. Ger 31, 31-34), sostituendosi alla legge del peccato, che quel cuore aveva deturpato (cf. Ger 17,1). Allora verrà donato «un cuore nuovo» perché in esso abiterà «uno spirito nuovo», lo Spirito di Dio (cf. Ez 36,24-28).

Per questo, dopo l'importante precisazione: «Uno solo è buono», Gesù risponde al giovane: «Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti» (Mt 19,17). Viene in tal modo enunciato uno stretto legame tra la vita eterna e l'obbedienza ai comandamenti di Dio: sono i comandamenti di Dio che indicano all'uomo la via della vita e ad essa conducono. Dalla bocca stessa di Gesù, nuovo Mosè, vengono ridonati agli uomini i comandamenti del Decalogo; egli stesso li conferma definitivamente e li propone a noi come via e condizione di salvezza. Il comandamento si lega a una promessa: nella Alleanza Antica oggetto della promessa era il possesso di una terra in cui il popolo avrebbe potuto condurre un'esistenza nella libertà e secondo giustizia (cf. Dt 6,20-25); nella Alleanza Nuova oggetto della promessa è il «Regno dei cieli», come Gesù afferma all'inizio del «Discorso della Montagna» - discorso che contiene la formulazione più ampia e completa della Legge Nuova (cf. Mt 5-7) -, in evidente connessione con il Decalogo affidato da Dio a Mosè sul monte Sinai. Alla medesima realtà del Regno fa riferimento l'espressione «vita eterna», che è partecipazione alla vita stessa di Dio: essa si realizza nella sua perfezione solo dopo la morte, ma nella fede è già fin d'ora luce di verità, sorgente di senso per la vita, incipiente partecipazione ad una pienezza nella sequela di Cristo. Dice, infatti, Gesù ai discepoli dopo l'incontro con il giovane ricco: «Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna» (Mt 19,29).

13. La risposta di Gesù non basta al giovane, che insiste interrogando il Maestro circa i comandamenti da osservare: «Ed egli chiese: "Quali?"» (Mt 19,18). Chiede che cosa deve fare nella vita per rendere manifesto il riconoscimento della santità di Dio. Dopo aver orientato lo sguardo del giovane verso Dio, Gesù gli ricorda i comandamenti del Decalogo che riguardano il prossimo: «Gesù rispose: "Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, onora il padre e la madre, ama il prossimo tuo come te stesso» (Mt 19,18-19).

Dal contesto del colloquio e, specialmente, dal confronto del testo di Matteo con i passi paralleli di Marco e di Luca, risulta che Gesù non intende elencare tutti e singoli i comandamenti necessari per «entrare nella vita», ma, piuttosto, rimandare il giovane alla centralità del Decalogo rispetto ad ogni altro precetto, quale interpretazione di ciò che per l'uomo significa «Io sono il Signore, Dio tuo». Non può sfuggire, comunque, alla nostra attenzione quali comandamenti della Legge il Signore Gesù ricorda al giovane: sono alcuni comandamenti che appartengono alla cosiddetta «seconda tavola» del Decalogo, di cui compendio (cf. Rm 13,8-10) e fondamento è il comandamento dell'amore del prossimo: «Ama il prossimo tuo come te stesso» (Mt 19,19; cf. Mc 12,31). In questo comandamento si esprime precisamente la singolare dignità della persona umana, la quale è «la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa». I diversi comandamenti del Decalogo non sono in effetti che la rifrazione dell'unico comandamento riguardante il bene della persona, a livello dei molteplici beni che connotano la sua identità di essere spirituale e corporeo, in relazione con Dio, col prossimo e col mondo delle cose. Come leggiamo nel Catechismo della Chiesa Cattolica, «i dieci comandamenti appartengono alla rivelazione di Dio. Al tempo stesso ci insegnano la vera umanità dell'uomo. Mettono in luce i doveri essenziali e, quindi, indirettamente, i diritti fondamentali inerenti alla natura della persona umana».

I comandamenti, ricordati da Gesù al giovane interlocutore, sono destinati a tutelare il bene della persona, immagine di Dio, mediante la protezione dei suoi beni. «Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso» sono regole morali formulate in termini di divieto. I precetti negativi esprimono con particolare forza l'esigenza insopprimibile di proteggere la vita umana, la comunione delle persone nel matrimonio, la proprietà privata, la veridicità e la buona fama.

I comandamenti rappresentano, quindi, la condizione di base per l'amore del prossimo; essi ne sono al contempo la verifica. Sono la prima tappa necessaria nel cammino verso la libertà, il suo inizio: «La prima libertà - scrive sant'Agostino - consiste nell'essere esenti da crimini... come sarebbero l'omicidio, l'adulterio, la fornicazione, il furto, la frode, il sacrilegio e così via. Quando uno comincia a non avere questi crimini (e nessun cristiano deve averli), comincia a levare il capo verso la libertà, ma questo non è che l'inizio della libertà, non la libertà perfetta...».

14. Ciò non significa, certo, che Gesù intenda dare la precedenza all'amore del prossimo o addirittura separarlo dall'amore di Dio. Lo testimonia il suo dialogo col dottore della Legge: questi, che pone una domanda molto simile a quella del giovane, si sente rimandato da Gesù ai due comandamenti dell'amore di Dio e dell'amore del prossimo (cf. Lc 10, 25-27) e invitato a ricordare che solo la loro osservanza conduce alla vita eterna: «Fa' questo e vivrai» (Lc 10,28). È comunque significativo che sia proprio il secondo di questi comandamenti a suscitare la curiosità e l'interrogativo del dottore della Legge: «Chi è il mio prossimo?» (Lc 10,29). Il Maestro risponde con la parabola del buon Samaritano, la parabola-chiave per la piena comprensione del comandamento dell'amore del prossimo (cf. Lc 10,30-37).

I due comandamenti, dai quali «dipende tutta la Legge e i Profeti» (Mt 22,40), sono profondamente uniti tra loro e si compenetrano reciprocamente. La loro unità inscindibile è testimoniata da Gesù con le parole e con la vita: la sua missione culmina nella Croce che redime (cf. Gv 3,14-15), segno del suo indivisibile amore al Padre e all'umanità (cf. Gv 13,1).

Sia l'Antico che il Nuovo Testamento sono espliciti nell'affermare che senza l'amore per il prossimo, che si concretizza nell'osservanza dei comandamenti, non è possibile l'autentico amore per Dio. Lo scrive con vigore straordinario san Giovanni: «Se uno dicesse: "Io amo Dio", e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi, infatti, non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1 Gv 4,20). L'evangelista fa eco alla predicazione morale di Cristo, espressa in modo mirabile e inequivocabile nella parabola del buon Samaritano (cf. Lc 10, 19-37) e nel «discorso» sul giudizio finale (cf. Mt 25,31-46).

15. Nel «Discorso della Montagna», che costituisce la magna charta della morale evangelica, Gesù dice: «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento» (Mt 5,17). Cristo è la chiave delle Scritture: «Voi scrutate le Scritture: esse parlano di me» (cf. Gv 5,39); è il centro dell'economia della salvezza, la ricapitolazione dell'Antico e del Nuovo Testamento, delle promesse della Legge e del loro compimento nel Vangelo; è il legame vivente ed eterno tra l'Antica e la Nuova Alleanza. Commentando l'affermazione di Paolo «Il termine della legge è Cristo» (Rm 10,4), sant'Ambrogio scrive: «Fine non in quanto mancanza, ma in quanto pienezza della legge: questa si compie in Cristo (plenitudo legis in Christo est), dal momento che Egli è venuto non a dissolvere la legge, ma a portarla a compimento. Allo stesso modo in cui c'è un Testamento Antico, ma ogni verità sta all'interno del Nuovo Testamento, così avviene per la legge: quella che è stata data per mezzo di Mosè è figura della vera legge. Dunque, quella legge mosaica è copia della verità».

Gesù porta a compimento i comandamenti di Dio, in particolare il comandamento dell'amore del prossimo, interiorizzando e radicalizzando le sue esigenze: l'amore del prossimo scaturisce da un cuore che ama, e che, proprio perché ama, è disposto a vivere le esigenze più alte. Gesù mostra che i comandamenti non devono essere intesi come un limite minimo da non oltrepassare, ma piuttosto come una strada aperta per un cammino morale e spirituale di perfezione, la cui anima è l'amore (cf. Col 3,14). Così il comandamento «Non uccidere» diventa l'appello ad un amore sollecito che tutela e promuove la vita del prossimo; il precetto che vieta l'adulterio diventa l'invito ad uno sguardo puro, capace di rispettare il significato sponsale del corpo: «Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio... Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda ad una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore» (Mt 5,21-22.27-28). È Gesù stesso il «compimento» vivo della Legge in quanto egli ne realizza il significato autentico con il dono totale di sé: diventa Lui stesso Legge vivente e personale, che invita alla sua sequela, dà mediante lo Spirito la grazia di condividere la sua stessa vita e il suo stesso amore e offre l'energia per testimoniarlo nelle scelte e nelle opere (cf. Gv 13,34-35).  

 

«Se vuoi essere perfetto» (Mt 19,21)

16. La risposta sui comandamenti non soddisfa il giovane, che interroga Gesù: «Ho sempre osservato tutte queste cose; che cosa mi manca ancora?» (Mt 19,20). Non è facile dire con buona coscienza: «ho sempre osservato tutte queste cose», se appena si comprende l'effettiva portata delle esigenze racchiuse nella Legge di Dio. E tuttavia, se anche gli è possibile dare una simile risposta, se anche ha seguito l'ideale morale con serietà e generosità fin dalla fanciullezza, il giovane ricco sa di essere ancora lontano dalla meta: davanti alla persona di Gesù avverte che qualcosa ancora gli manca. È alla consapevolezza di questa insufficienza che si rivolge Gesù nella sua ultima risposta: cogliendo la nostalgia per una pienezza che superi l'interpretazione legalistica dei comandamenti, il Maestro buono invita il giovane ad entrare nella strada della perfezione: «Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi» (Mt 19,21).

Come già il precedente passo della risposta di Gesù, così anche questo deve essere letto e interpretato nel contesto di tutto il messaggio morale del Vangelo e, specialmente, nel contesto del Discorso della Montagna, delle beatitudini (cf. Mt 5,3-12), la prima delle quali è proprio la beatitudine dei poveri, dei «poveri in spirito», come precisa san Matteo (Mt 5,3), ossia degli umili. In tal senso si può dire che anche le beatitudini rientrano nello spazio aperto dalla risposta che Gesù dà all'interrogativo del giovane: «Che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?». Infatti, ogni beatitudine promette, secondo una particolare prospettiva, proprio quel «bene» che apre l'uomo alla vita eterna, anzi che è la stessa vita eterna.

Le beatitudini non hanno propriamente come oggetto delle norme particolari di comportamento, ma parlano di atteggiamenti e di disposizioni di fondo dell'esistenza e quindi non coincidono esattamente con i comandamenti. D'altra parte, non c'è separazione o estraneità tra le beatitudini e i comandamenti: ambedue si riferiscono al bene, alla vita eterna. Il Discorso della Montagna inizia con l'annuncio delle beatitudini, ma contiene anche il riferimento ai comandamenti (cf. Mt 5,20-48). Nello stesso tempo, tale Discorso mostra l'apertura e l'orientamento dei comandamenti alla prospettiva della perfezione che è propria delle beatitudini. Queste sono, anzitutto, promesse, da cui derivano in forma indiretta anche indicazioni normative per la vita morale. Nella loro profondità originale sono una specie di autoritratto di Cristo e, proprio per questo, sono inviti alla sua sequela e alla comunione di vita con Lui.

17. Non sappiamo quanto il giovane del Vangelo abbia compreso il profondo ed esigente contenuto della prima risposta data da Gesù: «Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti»; è certo, però, che l'impegno manifestato dal giovane nel rispetto di tutte le esigenze morali dei comandamenti costituisce l'indispensabile terreno sul quale può germogliare e maturare il desiderio della perfezione, cioè della realizzazione del loro significato compiuto nella sequela di Cristo. Il colloquio di Gesù con il giovane ci aiuta a cogliere le condizioni per la crescita morale dell'uomo chiamato alla perfezione: il giovane, che ha osservato tutti i comandamenti, si dimostra incapace con le sole sue forze di fare il passo successivo. Per farlo occorrono una libertà umana matura: «Se vuoi», e il dono divino della grazia: «Vieni e seguimi».

La perfezione esige quella maturità nel dono di sé, a cui è chiamata la libertà dell'uomo. Gesù indica al giovane i comandamenti come la prima condizione irrinunciabile per avere la vita eterna; l'abbandono di tutto ciò che il giovane possiede e la sequela del Signore assumono invece il carattere di una proposta: «Se vuoi...». La parola di Gesù rivela la particolare dinamica della crescita della libertà verso la sua maturità e, nello stesso tempo, attesta il fondamentale rapporto della libertà con la legge divina. La libertà dell'uomo e la legge di Dio non si oppongono, ma, al contrario, si richiamano a vicenda. Il discepolo di Cristo sa che la sua è una vocazione alla libertà. «Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà» (Gal 5,13), proclama con gioia e fierezza l'apostolo Paolo. Subito però precisa: «Purché questa libertà non divenga pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri» (ibid.). La fermezza con la quale l'Apostolo si oppone a chi affida la propria giustificazione alla Legge, non ha nulla da spartire con la «liberazione» dell'uomo dai precetti, i quali al contrario sono al servizio della pratica dell'amore: «Perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge. Infatti il precetto: Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Rm 13,8-9). Lo stesso sant'Agostino, dopo aver parlato dell'osservanza dei comandamenti come della prima imperfetta libertà, così prosegue: «Perché, domanderà qualcuno, non ancora perfetta? Perché "sento nelle mie membra un'altra legge in conflitto con la legge della mia ragione"... Libertà parziale, parziale schiavitù: non ancora completa, non ancora pura, non ancora piena è la libertà, perché ancora non siamo nell'eternità. In parte conserviamo la debolezza, e in parte abbiamo raggiunto la libertà. Tutti i nostri peccati nel battesimo sono stati distrutti, ma è forse scomparsa la debolezza, dopo che è stata distrutta l'iniquità? Se essa fosse scomparsa, si vivrebbe in terra senza peccato. Chi oserà affermare questo se non chi è superbo, se non chi è indegno della misericordia del liberatore?... Ora siccome è rimasta in noi qualche debolezza, oso dire che nella misura in cui serviamo Dio siamo liberi, mentre nella misura in cui seguiamo la legge del peccato siamo schiavi».

18. Chi vive «secondo la carne» sente la legge di Dio come un peso, anzi come una negazione o comunque una restrizione della propria libertà. Chi, invece, è animato dall'amore e «cammina secondo lo Spirito» (Gal 5,16) e desidera servire gli altri trova nella legge di Dio la via fondamentale e necessaria per praticare l'amore liberamente scelto e vissuto. Anzi, egli avverte l'urgenza interiore - una vera e propria «necessità», e non già una costrizione - di non fermarsi alle esigenze minime della legge, ma di viverle nella loro «pienezza». È un cammino ancora incerto e fragile fin che siamo sulla terra, ma reso possibile dalla grazia che ci dona di possedere la piena libertà dei figli di Dio (cf. Rm 8, 21) e quindi di rispondere nella vita morale alla sublime vocazione di essere «figli nel Figlio».

Questa vocazione all'amore perfetto non è riservata solo ad una cerchia di persone. L'invito «va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri» con la promessa «avrai un tesoro nel cielo»riguarda tutti, perché è una radicalizzazione del comandamento dell'amore del prossimo, come il successivo invito «vieni e seguimi» è la nuova forma concreta del comandamento dell'amore di Dio. I comandamenti e l'invito di Gesù al giovane ricco sono al servizio di un'unica e indivisibile carità, che spontaneamente tende alla perfezione, la cui misura è Dio solo: «Siate voi dunque perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48). Nel Vangelo di Luca Gesù precisa ulteriormente il senso di questa perfezione: «Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro» (Lc 6,36).

 

«Vieni e seguimi» (Mt 19,21)

19. La via e, nello stesso tempo, il contenuto di questa perfezione consiste nella sequela Christi, nel seguire Gesù, dopo aver rinunciato ai propri beni e a se stessi. Proprio questa è la conclusione del colloquio di Gesù con il giovane: «Poi vieni e seguimi» (Mt 19,21). È un invito la cui meravigliosa profondità sarà pienamente percepita dai discepoli dopo la risurrezione di Cristo, quando lo Spirito Santo li guiderà alla verità tutta intera (cf. Gv 16,13).

È Gesù stesso che prende l'iniziativa e chiama a seguirlo. L'appello è rivolto innanzi tutto a coloro ai quali egli affida una particolare missione, a cominciare dai Dodici; ma appare anche chiaro che essere discepoli di Cristo è la condizione di ogni credente (cf. At 6,1). Per questo, seguire Cristo è il fondamento essenziale e originale della morale cristiana: come il popolo d'Israele seguiva Dio che lo conduceva nel deserto verso la Terra promessa (cf. Es 13,21), così il discepolo deve seguire Gesù, verso il quale il Padre stesso lo attira (cf. Gv 6,44).

Non si tratta qui soltanto di mettersi in ascolto di un insegnamento e di accogliere nell'obbedienza un comandamento. Si tratta, più radicalmente, di aderire alla persona stessa di Gesù, di condividere la sua vita e il suo destino, di partecipare alla sua obbedienza libera e amorosa alla volontà del Padre. Seguendo, mediante la risposta della fede, colui che è la Sapienza incarnata, il discepolo di Gesù diventa veramente discepolo di Dio (cf. Gv 6,45). Gesù, infatti, è la luce del mondo, la luce della vita (cf. Gv 8,12); è il pastore che guida e nutre le pecore (cf. Gv 10,11-16), è la via, la verità e la vita (cf. Gv 14,6), è colui che conduce al Padre, al punto che vedere lui, il Figlio, è vedere il Padre (cf. Gv 14,6-10). Pertanto imitare il Figlio, «l'immagine del Dio invisibile» (Col 1,15), significa imitare il Padre.

20. Gesù chiede di seguirlo e di imitarlo sulla strada dell'amore, di un amore che si dona totalmente ai fratelli per amore di Dio: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati» (Gv 15,12). Questo «come» esige l'imitazione di Gesù, del suo amore di cui la lavanda dei piedi è segno: «Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l'esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13,14-15). L'agire di Gesù e la sua parola, le sue azioni e i suoi precetti costituiscono la regola morale della vita cristiana. Infatti, queste sue azioni e, in modo particolare, la passione e la morte in croce, sono la viva rivelazione del suo amore per il Padre e per gli uomini. Proprio questo amore Gesù chiede che sia imitato da quanti lo seguono. Esso è il comandamento «nuovo»: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,34-35).

Questo «come» indica anche la misura con la quale Gesù ha amato, e con la quale devono amarsi tra loro i suoi discepoli. Dopo aver detto: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati» (Gv 15,12), Gesù prosegue con le parole che indicano il dono sacrificale della sua vita sulla croce, quale testimonianza di un amore «sino alla fine» (Gv 13,1): «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13).

Chiamando il giovane a seguirlo sulla strada della perfezione, Gesù gli chiede di essere perfetto nel comandamento dell'amore, nel «suo» comandamento: di inserirsi nel movimento della sua donazione totale, di imitare e di rivivere l'amore stesso del Maestro «buono», di colui che ha amato «sino alla fine». È quanto Gesù chiede ad ogni uomo che vuole mettersi alla sua sequela: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mt 16,24).

21. Seguire Cristo non è una imitazione esteriore, perché tocca l'uomo nella sua profonda interiorità. Essere discepoli di Gesù significa essere resi conformi a Lui, che si è fatto servo fino al dono di sé sulla croce (cf. Fil 2,5-8). Mediante la fede, Cristo abita nel cuore del credente (cf. Ef 3,17), e così il discepolo è assimilato al suo Signore e a Lui configurato. Questo è frutto della grazia, della presenza operante dello Spirito Santo in noi.

Inserito in Cristo, il cristiano diventa membro del suo Corpo, che è la Chiesa (cf. 1 Cor 12,13.27). Sotto l'impulso dello Spirito, il Battesimo configura radicalmente il fedele a Cristo nel mistero pasquale della morte e risurrezione, lo «riveste» di Cristo (cf. Gal 3,27): «Rallegriamoci e ringraziamo - esclama sant'Agostino rivolgendosi ai battezzati -: siamo diventati non solo cristiani, ma Cristo (...). Stupite e gioite: Cristo siamo diventati!». Morto al peccato, il battezzato riceve la vita nuova (cf. Rm 6,3-11): vivente per Dio in Cristo Gesù, è chiamato a camminare secondo lo Spirito e a manifestarne nella vita i frutti (cf. Gal 5,16-25). La partecipazione poi all'Eucaristia, sacramento della Nuova Alleanza (cf. 1 Cor 11,23-29), è vertice dell'assimilazione a Cristo, fonte di «vita eterna» (cf. Gv 6,51-58), principio e forza del dono totale di sé, di cui Gesù secondo la testimonianza tramandata da Paolo comanda di far memoria nella celebrazione e nella vita: «Ogni volta che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga» (1 Cor 11,26).  

 

«A Dio tutto è possibile» (Mt 19,26)

22. Amara è la conclusione del colloquio di Gesù con il giovane ricco: «Udito questo, il giovane se ne andò triste; poiché aveva molte ricchezze» (Mt 19,22). Non solo l'uomo ricco, ma anche gli stessi discepoli sono spaventati dall'appello di Gesù alla sequela, le cui esigenze superano le aspirazioni e le forze umane: «A queste parole i discepoli rimasero costernati e chiesero: "Chi si potrà dunque salvare?"» (Mt 19,25). Ma il Maestro rimanda alla potenza di Dio: «Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile» (Mt 19,26).

Nel medesimo capitolo del Vangelo di Matteo (19,3-10), Gesù, interpretando la Legge mosaica sul matrimonio, rifiuta il diritto al ripudio, richiamando ad un «principio» più originario e più autorevole rispetto alla Legge di Mosè: il disegno nativo di Dio sull'uomo, un disegno al quale l'uomo dopo il peccato è diventato inadeguato: «Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così» (Mt 19,8). Il richiamo al «principio» sgomenta i discepoli, che commentano con queste parole: «Se questa è la condizione dell'uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi» (Mt 19,10). E Gesù, riferendosi in modo specifico al carisma del celibato «per il Regno dei cieli» (Mt 19,12), ma enunciando una regola generale, rimanda alla nuova e sorprendente possibilità aperta all'uomo dalla grazia di Dio: «Egli rispose loro: "Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso"» (Mt 19,11).

Imitare e rivivere l'amore di Cristo non è possibile all'uomo con le sole sue forze. Egli diventa capace di questo amore soltanto in virtù di un dono ricevuto. Come il Signore Gesù riceve l'amore del Padre suo, così egli a sua volta lo comunica gratuitamente ai discepoli: «Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi. Rimanete nel mio amore» (Gv 15,9). Il dono di Cristo è il suo Spirito, il cui primo «frutto» (cf. Gal 5,22) è la carità: «L'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci è stato dato» (Rm 5,5). Sant'Agostino si chiede: «È l'amore che ci fa osservare i comandamenti, oppure è l'osservanza dei comandamenti che fa nascere l'amore?». E risponde: «Ma chi può mettere in dubbio che l'amore precede l'osservanza? Chi infatti non ama è privo di motivazioni per osservare i comandamenti».

23. «La legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte» (Rm 8,2). Con queste parole l'apostolo Paolo ci introduce a considerare nella prospettiva della storia della Salvezza che si compie in Cristo il rapporto tra la Legge (antica) e la grazia (Legge nuova). Egli riconosce il ruolo pedagogico della Legge, la quale, permettendo all'uomo peccatore di misurare la sua impotenza e togliendogli la presunzione dell'autosufficienza, lo apre all'invocazione e all'accoglienza della «vita nello Spirito». Solo in questa vita nuova è possibile la pratica dei comandamenti di Dio. Infatti, è per la fede in Cristo che noi siamo resi giusti (cf. Rm 3,28): la «giustizia» che la Legge esige, ma non può dare a nessuno, ogni credente la trova manifestata e concessa dal Signore Gesù. Così mirabilmente ancora sant'Agostino sintetizza la dialettica paolina di legge e grazia: «La legge, perciò, è stata data perché si invocasse la grazia; la grazia è stata data perché si osservasse la legge».

L'amore e la vita secondo il Vangelo non possono essere pensati prima di tutto nella forma del precetto, perché ciò che essi domandano va al di là delle forze dell'uomo: essi sono possibili solo come frutto di un dono di Dio, che risana e guarisce e trasforma il cuore dell'uomo per mezzo della sua grazia: «Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo» (Gv 1,17). Per questo la promessa della vita eterna è legata al dono della grazia, e il dono dello Spirito che abbiamo ricevuto è già «caparra della nostra eredità» (Ef 1,14).

24. Si rivela così il volto autentico e originale del comandamento dell'amore e della perfezione alla quale esso è ordinato: si tratta di una possibilità aperta all'uomo esclusivamente dalla grazia, dal dono di Dio, dal suo amore. D'altra parte, proprio la coscienza di aver ricevuto il dono, di possedere in Gesù Cristo l'amore di Dio, genera e sostiene la risposta responsabile di un amore pieno verso Dio e tra i fratelli, come con insistenza ricorda l'apostolo Giovanni nella sua prima Lettera: «Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l'amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore... Carissimi, se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri... Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo» (1 Gv 4,7-8.11.19).

Questa connessione inscindibile tra la grazia del Signore e la libertà dell'uomo, tra il dono e il compito, è stata espressa in termini semplici e profondi da sant'Agostino, che così prega: «Da quod iubes et iube quod vis» (dona ciò che comandi e comanda ciò che vuoi).

Il dono non diminuisce, ma rafforza l'esigenza morale dell'amore: «Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato» (1 Gv 3,23). Si può «rimanere» nell'amore solo a condizione di osservare i comandamenti, come afferma Gesù: «Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore» (Gv 15,10).

Raccogliendo quanto è al cuore del messaggio morale di Gesù e della predicazione degli Apostoli, e riproponendo in una sintesi mirabile la grande tradizione dei Padri d'Oriente e d'Occidente - in particolare di sant'Agostino - san Tommaso ha potuto scrivere che la Legge Nuova è la grazia dello Spirito Santo donata mediante la fede in Cristo. I precetti esterni, di cui pure il Vangelo parla, dispongono a questa grazia o ne dispiegano gli effetti nella vita. Infatti, la Legge Nuova non si contenta di dire ciò che si deve fare, ma dona anche la forza di «fare la verità» (cf. Gv 3,21). Nello stesso tempo san Giovanni Crisostomo ha osservato che la Legge Nuova fu promulgata proprio quando lo Spirito Santo discese dal cielo nel giorno di Pentecoste e che gli Apostoli «non discesero dal monte portando, come Mosè, delle tavole di pietra nelle loro mani; ma se ne venivano portando lo Spirito Santo nei loro cuori..., divenuti mediante la sua grazia una legge viva, un libro animato».  

 

«Ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo» (Mt 28,20)

25. Il colloquio di Gesù con il giovane ricco continua, in un certo senso, in ogni epoca della storia, anche oggi. La domanda: «Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?» sboccia nel cuore di ogni uomo, ed è sempre e solo Cristo a offrire la risposta piena e risolutiva. Il Maestro, che insegna i comandamenti di Dio, che invita alla sequela e dà la grazia per una vita nuova, è sempre presente e operante in mezzo a noi, secondo la promessa: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo» (Mt 28,20). La contemporaneità di Cristo all'uomo di ogni tempo si realizza nel suo corpo, che è la Chiesa. Per questo il Signore promise ai suoi discepoli lo Spirito Santo, che avrebbe loro «ricordato» e fatto comprendere i suoi comandamenti (cf. Gv 14,26) e sarebbe stato il principio sorgivo di una vita nuova nel mondo (cf. Gv 3,5-8; Rm 8,1-13).

Le prescrizioni morali, impartite da Dio nell'Antica Alleanza e giunte alla loro perfezione in quella Nuova ed Eterna nella persona stessa del Figlio di Dio fatto uomo, devono essere fedelmente custodite e permanentemente attualizzate nelle differenti culture lungo il corso della storia. Il compito della loro interpretazione è stato affidato da Gesù agli Apostoli e ai loro successori, con l'assistenza speciale dello Spirito di verità: «Chi ascolta voi ascolta me» (Lc 10,16). Con la luce e la forza di questo Spirito gli Apostoli hanno adempiuto la missione di predicare il Vangelo e di indicare la «via» del Signore (cf. At 18,25), insegnando anzitutto la sequela e l'imitazione di Cristo: «Per me il vivere è Cristo» (Fil 1,21).

26. Nella catechesi morale degli Apostoli, accanto ad esortazioni e ad indicazioni legate al contesto storico e culturale, c'è un insegnamento etico con precise norme di comportamento. È quanto emerge nelle loro Lettere, che contengono l'interpretazione, guidata dallo Spirito Santo, dei precetti del Signore da vivere nelle diverse circostanze culturali (cf. Rm 12-15; 1 Cor 11-14; Gal 5-6; Ef 4-6; Col 3-4; 1 Pt e Gc). Incaricati di predicare il Vangelo, gli Apostoli fin dalle origini della Chiesa, in virtù della loro responsabilità pastorale, hanno vegliato sulla rettitudine della condotta dei cristiani, allo stesso modo in cui hanno vegliato sulla purezza della fede e sulla trasmissione dei doni divini mediante i Sacramenti. I primi cristiani, provenienti sia dal popolo giudaico sia dalle nazioni, differivano dai pagani non solo per la loro fede e per la loro liturgia, ma anche per la testimonianza della loro condotta morale, ispirata alla Legge Nuova. La Chiesa, infatti, è insieme comunione di fede e di vita; la sua norma è «la fede che opera per mezzo della carità» (Gal 5,6).

Nessuna lacerazione deve attentare all'armonia tra la fede e la vita: l'unità della Chiesa è ferita non solo dai cristiani che rifiutano o stravolgono le verità della fede, ma anche da quelli che misconoscono gli obblighi morali a cui li chiama il Vangelo (cf. 1 Cor 5,9-13). Con decisione gli Apostoli hanno rifiutato ogni dissociazione tra l'impegno del cuore e i gesti che lo esprimono e verificano (cf. 1 Gv 2,3-6). E fin dai tempi apostolici i Pastori della Chiesa hanno denunciato con chiarezza i modi di agire di coloro che erano fautori di divisione con i loro insegnamenti o con i loro comportamenti.

27. Promuovere e custodire, nell'unità della Chiesa, la fede e la vita morale è il compito affidato da Gesù agli Apostoli (cf. Mt 28,19-20), che prosegue nel ministero dei loro successori. È quanto si ritrova nella viva Tradizione, mediante la quale - come insegna il Concilio Vaticano II - «la Chiesa, nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede. Questa Tradizione, che trae origine dagli Apostoli, progredisce nella Chiesa sotto l'assistenza dello Spirito Santo». Nello Spirito la Chiesa accoglie e trasmette la Scrittura come testimonianza delle «grandi cose» che Dio opera nella storia (cf. Lc 1,49), confessa per bocca dei Padri e dei Dottori la verità del Verbo fatto carne, ne mette in pratica i precetti e la carità nella vita dei Santi e delle Sante e nel sacrificio dei Martiri, ne celebra la speranza nella Liturgia: mediante la stessa Tradizione i cristiani ricevono «la viva voce del Vangelo», come espressione fedele della sapienza e della volontà divina.

All'interno della Tradizione si sviluppa, con l'assistenza dello Spirito Santo, l'interpretazione autentica della legge del Signore. Lo stesso Spirito, che è all'origine della Rivelazione dei comandamenti e degli insegnamenti di Gesù, garantisce che vengano santamente custoditi, fedelmente esposti e correttamente applicati nel variare dei tempi e delle circostanze. Questa «attualizzazione» dei comandamenti è segno e frutto di una più profonda penetrazione della Rivelazione e di una comprensione alla luce della fede delle nuove situazioni storiche e culturali. Essa, tuttavia, non può che confermare la permanente validità della Rivelazione e inserirsi nel solco dell'interpretazione che ne dà la grande Tradizione di insegnamento e di vita della Chiesa, di cui sono testimoni la dottrina dei Padri, la vita dei Santi, la liturgia della Chiesa e l'insegnamento del Magistero.

In particolare, poi, come afferma il Concilio, «l'ufficio d'interpretare autenticamente la parola di Dio scritta o trasmessa è stato affidato al solo Magistero vivo della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo». In tal modo la Chiesa, nella sua vita e nel suo insegnamento, si presenta come «colonna e sostegno della verità» (1 Tm 3,15), anche della verità circa l'agire morale. Infatti, «è compito della Chiesa annunziare sempre e dovunque i principi morali anche circa l'ordine sociale, e così pure pronunciare il giudizio su qualsiasi realtà umana, in quanto lo esigano i diritti fondamentali della persona umana o la salvezza delle anime».

Proprio sulle domande che caratterizzano oggi la discussione morale e intorno alle quali si sono sviluppate nuove tendenze e teorie, il Magistero, in fedeltà a Gesù Cristo e in continuità con la tradizione della Chiesa, sente più urgente il dovere di offrire il proprio discernimento e insegnamento, per aiutare l'uomo nel suo cammino verso la verità e la libertà.

 

 

 

CAPITOLO II

«NON CONFORMATEVI ALLA MENTALITÀ DI QUESTO MONDO» (Rm 12,2)

La Chiesa e il discernimento di alcune tendenze della teologia morale odierna

 

Insegnare ciò che è secondo la sana dottrina (cf. Tt 2,1)

28. La meditazione del dialogo tra Gesù e il giovane ricco ci ha permesso di raccogliere i contenuti essenziali della Rivelazione dell'Antico e del Nuovo Testamento circa l'agire morale. Essi sono: la subordinazione dell'uomo e del suo agire a Dio, Colui che «solo è buono»; il rapporto tra il bene morale degli atti umani e la vita eterna; la sequela di Cristo, che apre all'uomo la prospettiva dell'amore perfetto; ed infine il dono dello Spirito Santo, fonte e risorsa della vita morale della «creatura nuova» (cf. 2 Cor 5,17).

Nella sua riflessione morale la Chiesa ha sempre avuto presenti le parole che Gesù ha rivolto al giovane ricco. La Sacra Scrittura, infatti, rimane la sorgente viva e feconda della dottrina morale della Chiesa, come ha ricordato il Concilio Vaticano II: «Il Vangelo [è]... fonte di ogni verità salutare e di ogni regola morale». Essa ha custodito fedelmente ciò che la parola di Dio insegna, non solo circa le verità da credere, ma anche circa l'agire morale, cioè l'agire che piace a Dio (cf. 1 Ts 4,1), realizzando uno sviluppo dottrinale analogo a quello che si è avuto nell'ambito delle verità della fede. Assistita dallo Spirito Santo che la guida alla verità tutta intera (cf. Gv 16,13), la Chiesa non ha cessato, e non può mai cessare, di scrutare il «mistero del Verbo incarnato», nel quale «trova vera luce il mistero dell'uomo».

29. La riflessione morale della Chiesa, operata sempre nella luce di Cristo, il «Maestro buono», si è sviluppata anche nella forma specifica della scienza teologica, detta «teologia morale», una scienza che accoglie e interroga la rivelazione divina e insieme risponde alle esigenze della ragione umana. La teologia morale è una riflessione che riguarda la «moralità», ossia il bene e il male degli atti umani e della persona che li compie, e in tal senso è aperta a tutti gli uomini; ma è anche «teologia», in quanto riconosce il principio e il fine dell'agire morale in Colui che «solo è buono» e che, donandosi all'uomo in Cristo, gli offre la beatitudine della vita divina.

Il Concilio Vaticano II ha invitato gli studiosi a porre «speciale cura nel perfezionare la teologia morale in modo che la sua esposizione scientifica, maggiormente fondata sulla Sacra Scrittura, illustri l'altezza della vocazione dei fedeli in Cristo e il loro obbligo di apportare frutto nella carità per la vita del mondo». Lo stesso Concilio ha invitato i teologi, «nel rispetto dei metodi e delle esigenze proprie della scienza teologica, a ricercare modi sempre più adatti di comunicare la dottrina agli uomini della loro epoca, perché altro è il deposito o le verità della fede, altro è il modo con cui vengono enunciate, rimanendo pur sempre lo stesso il significato e il senso profondo». 46 Di qui l'ulteriore invito, esteso a tutti i fedeli, ma rivolto in particolare ai teologi: «I fedeli dunque vivano in strettissima unione con gli uomini del loro tempo, e si sforzino di penetrare perfettamente il loro modo di pensare e di sentire, di cui la cultura è espressione».

Lo sforzo di molti teologi, sostenuti dall'incoraggiamento del Concilio, ha già dato i suoi frutti con interessanti e utili riflessioni intorno alle verità della fede da credere e da applicare nella vita, presentate in forma più corrispondente alla sensibilità e agli interrogativi degli uomini del nostro tempo. La Chiesa e, in particolare, i Vescovi, ai quali Gesù Cristo ha affidato innanzitutto il servizio dell'insegnamento, accolgono con gratitudine tale sforzo ed incoraggiano i teologi a un ulteriore lavoro, animato da un profondo e autentico timore del Signore, che è il principio della sapienza (cf. Prv 1,7).

Nello stesso tempo, nell'ambito delle discussioni teologiche postconciliari si sono sviluppate però alcune interpretazioni della morale cristiana che non sono compatibili con la «sana dottrina» (2 Tm 4,3). Certamente il Magistero della Chiesa non intende imporre ai fedeli nessun particolare sistema teologico né tanto meno filosofico, ma, per «custodire santamente ed esporre fedelmente» la Parola di Dio, esso ha il dovere di dichiarare l'incompatibilità di certi orientamenti del pensiero teologico o di talune affermazioni filosofiche con la verità rivelata.

30. Rivolgendomi con questa Enciclica a voi, Confratelli nell'Episcopato, intendo enunciare i principi necessari per il discernimento di ciò che è contrario alla «sana dottrina», richiamando quegli elementi dell'insegnamento morale della Chiesa che sembrano oggi particolarmente esposti all'errore, all'ambiguità o alla dimenticanza. Sono, peraltro, gli elementi dai quali dipende «la risposta agli oscuri enigmi della condizione umana che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell'uomo: la natura dell'uomo, il senso e il fine della nostra vita, il bene e il peccato, l'origine e il fine del dolore, la via per raggiungere la vera felicità, la morte, il giudizio e la sanzione dopo la morte, infine l'ultimo e ineffabile mistero che circonda la nostra esistenza, dal quale noi traiamo origine e verso il quale tendiamo».

Questi e altri interrogativi, come: cosa è la libertà e qual è la sua relazione con la verità contenuta nella legge di Dio? qual è il ruolo della coscienza nella formazione del profilo morale dell'uomo? come discernere, in conformità con la verità sul bene, i diritti e i doveri concreti della persona umana?, si possono riassumere nella fondamentale domanda che il giovane del Vangelo pose a Gesù: «Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?». Inviata da Gesù a predicare il Vangelo e ad «ammaestrare tutte le nazioni..., insegnando loro ad osservare tutto ciò» che egli ha comandato (cf. Mt 28,19-20), la Chiesa ripropone, ancora oggi, la risposta del Maestro: questa possiede una luce e una forza capaci di risolvere anche le questioni più discusse e complesse. Questa stessa luce e forza sollecitano la Chiesa a sviluppare costantemente la riflessione non solo dogmatica, ma anche morale in un ambito interdisciplinare, così com'è necessario specialmente per i nuovi problemi.

È sempre in questa medesima luce e forza che il Magistero della Chiesa compie la sua opera di discernimento, accogliendo e rivivendo il monito che l'apostolo Paolo rivolgeva a Timoteo: «Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina. Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole. Tu però vigila attentamente, sappi sopportare le sofferenze, compi la tua opera di annunziatore del Vangelo, adempi il tuo ministero» (2 Tm 4,1-5; cf. Tt 1,10.13-14).

 

«Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,32)

31. I problemi umani più dibattuti e diversamente risolti nella riflessione morale contemporanea si ricollegano, sia pure in vari modi, ad un problema cruciale: quello della libertà dell'uomo.

Non c' è dubbio che il nostro tempo ha acquisito una percezione particolarmente viva della libertà. «In questa nostra età gli uomini diventano sempre più consapevoli della dignità della persona umana», come costatava già la dichiarazione conciliare Dignitatis humanae sulla libertà religiosa. Da qui l'esigenza che «gli uomini nell'agire seguano la loro iniziativa e godano di una libertà responsabile, non mossi da coercizione bensì guidati dalla coscienza del dovere». In particolare il diritto alla libertà religiosa e al rispetto della coscienza nel suo cammino verso la verità è sentito sempre più come fondamento dei diritti della persona, considerati nel loro insieme.

Così, il senso più acuto della dignità della persona umana e della sua unicità, come anche del rispetto dovuto al cammino della coscienza, costituisce certamente un'acquisizione positiva della cultura moderna. Questa percezione, in se stessa autentica, ha trovato molteplici espressioni, più o meno adeguate, di cui alcune però si discostano dalla verità sull'uomo come creatura e immagine di Dio ed esigono pertanto di essere corrette o purificate alla luce della fede.

32. In alcune correnti del pensiero moderno si è giunti ad esaltare la libertà al punto da farne un assoluto, che sarebbe la sorgente dei valori. In questa direzione si muovono le dottrine che perdono il senso della trascendenza o quelle che sono esplicitamente atee. Si sono attribuite alla coscienza individuale le prerogative di un'istanza suprema del giudizio morale, che decide categoricamente e infallibilmente del bene e del male. All'affermazione del dovere di seguire la propria coscienza si è indebitamente aggiunta l'affermazione che il giudizio morale è vero per il fatto stesso che proviene dalla coscienza. Ma, in tal modo, l'imprescindibile esigenza di verità è scomparsa, in favore di un criterio di sincerità, di autenticità, di «accordo con se stessi», tanto che si è giunti ad una concezione radicalmente soggettivista del giudizio morale.

Come si può immediatamente comprendere, non è estranea a questa evoluzione la crisi intorno alla verità. Persa l'idea di una verità universale sul bene, conoscibile dalla ragione umana, è inevitabilmente cambiata anche la concezione della coscienza: questa non è più considerata nella sua realtà originaria, ossia un atto dell'intelligenza della persona, cui spetta di applicare la conoscenza universale del bene in una determinata situazione e di esprimere così un giudizio sulla condotta giusta da scegliere qui e ora; ci si è orientati a concedere alla coscienza dell'individuo il privilegio di fissare, in modo autonomo, i criteri del bene e del male e agire di conseguenza. Tale visione fa tutt'uno con un'etica individualista, per la quale ciascuno si trova confrontato con la sua verità, differente dalla verità degli altri. Spinto alle estreme conseguenze, l'individualismo sfocia nella negazione dell'idea stessa di natura umana. Queste differenti concezioni sono all'origine degli orientamenti di pensiero che sostengono l'antinomia tra legge morale e coscienza, tra natura e libertà.

33. Parallelamente all'esaltazione della libertà, e paradossalmente in contrasto con essa, la cultura moderna mette radicalmente in questione questa medesima libertà. Un insieme di discipline, raggruppate sotto il nome di «scienze umane», hanno giustamente attirato l'attenzione sui condizionamenti di ordine psicologico e sociale, che pesano sull'esercizio della libertà umana. La conoscenza di tali condizionamenti e l'attenzione che viene loro prestata sono acquisizioni importanti, che hanno trovato applicazione in diversi ambiti dell'esistenza, come per esempio nella pedagogia o nell'amministrazione della giustizia. Ma alcuni, superando le conclusioni che si possono legittimamente trarre da queste osservazioni, sono arrivati al punto di mettere in dubbio o di negare la realtà stessa della libertà umana.

Si devono anche ricordare alcune interpretazioni abusive dell'indagine scientifica a livello antropologico. Traendo argomento dalla grande varietà dei costumi, delle abitudini e delle istituzioni presenti nell'umanità, si conclude, se non sempre con la negazione di valori umani universali, almeno con una concezione relativistica della morale.

34. «Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?». La domanda morale, alla quale Cristo risponde, non può prescindere dalla questione della libertà, anzi la colloca al suo centro, perché non si dà morale senza libertà: «L'uomo può volgersi al bene soltanto nella libertà». Ma quale libertà? Il Concilio, di fronte ai nostri contemporanei che «tanto tengono» alla libertà e che la «cercano ardentemente» ma che «spesso la coltivano in malo modo, quasi sia lecito tutto purché piaccia, compreso il male», presenta la «vera» libertà: «La vera libertà è nell'uomo segno altissimo dell'immagine divina. Dio volle, infatti, lasciare l'uomo "in mano al suo consiglio" (cf. Sir 15,14), così che esso cerchi spontaneamente il suo Creatore, e giunga liberamente, con la adesione a lui, alla piena e beata perfezione». Se esiste il diritto di essere rispettati nel proprio cammino di ricerca della verità, esiste ancor prima l'obbligo morale grave per ciascuno di cercare la verità e di aderirvi una volta conosciuta. In tal senso il Card. J. H. Newman, eminente assertore dei diritti della coscienza, affermava con decisione: «La coscienza ha dei diritti perché ha dei doveri».

Alcune tendenze della teologia morale odierna, sotto l'influsso delle correnti soggettiviste ed individualiste ora ricordate, interpretano in modo nuovo il rapporto della libertà con la legge morale, con la natura umana e con la coscienza, e propongono criteri innovativi di valutazione morale degli atti: sono tendenze che, pur nella loro varietà, si ritrovano nel fatto di indebolire o addirittura di negare la dipendenza della libertà dalla verità.

Se vogliamo operare un discernimento critico di queste tendenze, capace di riconoscere quanto in esse vi è di legittimo, utile e prezioso e di indicarne, al tempo stesso, le ambiguità, i pericoli e gli errori, dobbiamo esaminarle alla luce della fondamentale dipendenza della libertà dalla verità, dipendenza che è stata espressa nel modo più limpido e autorevole dalle parole di Cristo: «Conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi» (Gv 8,32).  

 

 

 

I. La libertà e la legge

«Dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare» (Gn 2,17)

 

35. Leggiamo nel libro della Genesi: «Il Signore Dio diede questo comando all'uomo: "Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti"» (Gn 2,16-17).

Con questa immagine, la Rivelazione insegna che il potere di decidere del bene e del male non appartiene all'uomo, ma a Dio solo. L'uomo è certamente libero, dal momento che può comprendere ed accogliere i comandi di Dio. Ed è in possesso d'una libertà quanto mai ampia, perché può mangiare «di tutti gli alberi del giardino». Ma questa libertà non è illimitata: deve arrestarsi di fronte all'«albero della conoscenza del bene e del male», essendo chiamata ad accettare la legge morale che Dio dà all'uomo. In realtà, proprio in questa accettazione la libertà dell'uomo trova la sua vera e piena realizzazione. Dio, che solo è buono, conosce perfettamente ciò che è buono per l'uomo, e in forza del suo stesso amore glielo propone nei comandamenti.

La legge di Dio, dunque, non attenua né tanto meno elimina la libertà dell'uomo, al contrario la garantisce e la promuove. Ben diversamente però, alcune tendenze culturali odierne sono all'origine di non pochi orientamenti etici che pongono al centro del loro pensiero un presunto conflitto tra la libertà e la legge. Tali sono le dottrine che attribuiscono ai singoli individui o ai gruppi sociali la facoltà di decidere del bene e del male: la libertà umana potrebbe «creare i valori» e godrebbe di un primato sulla verità, al punto che la verità stessa sarebbe considerata una creazione della libertà. Questa, dunque, rivendicherebbe una tale autonomia morale che praticamente significherebbe la sua sovranità assoluta.

36. L'istanza moderna di autonomia non ha mancato di esercitare un suo influsso anche nell'ambito della teologia morale cattolica. Se questa, certamente, non ha mai inteso contrapporre la libertà umana alla legge divina, né mettere in questione l'esistenza di un fondamento religioso ultimo delle norme morali, è stata però provocata ad un profondo ripensamento del ruolo della ragione e della fede nell'individuazione delle norme morali che si riferiscono a specifici comportamenti «intramondani», ossia verso se stessi, gli altri e il mondo delle cose.

Si deve riconoscere che all'origine di questo sforzo di ripensamento si ritrovano alcune istanze positive, che peraltro appartengono, in buona parte, alla miglior tradizione del pensiero cattolico. Sollecitati dal Concilio Vaticano II, si è voluto favorire il dialogo con la cultura moderna, mettendo in luce il carattere razionale - quindi universalmente comprensibile e comunicabile - delle norme morali appartenenti all'ambito della legge morale naturale. Si è inteso, inoltre, ribadire il carattere interiore delle esigenze etiche che da essa derivano e che non si impongono alla volontà come un obbligo, se non in forza del riconoscimento previo della ragione umana e, in concreto, della coscienza personale.

Dimenticando però la dipendenza della ragione umana dalla Sapienza divina e la necessità, nel presente stato di natura decaduta, nonché l'effettiva realtà della divina rivelazione per la conoscenza di verità morali anche di ordine naturale, alcuni sono giunti a teorizzare una completa sovranità della ragione nell'ambito delle norme morali relative al retto ordinamento della vita in questo mondo: tali norme costituirebbero l'ambito di una morale solamente «umana», sarebbero cioè l'espressione di una legge che l'uomo autonomamente dà a se stesso e che ha la sua sorgente esclusivamente nella ragione umana. Di questa legge Dio non potrebbe essere considerato in nessun modo Autore, se non nel senso che la ragione umana esercita la sua autonomia legislativa in forza di un originario e totale mandato di Dio all'uomo. Ora queste tendenze di pensiero hanno condotto a negare, contro la Sacra Scrittura e la dottrina costante della Chiesa, che la legge morale naturale abbia Dio come autore e che l'uomo, mediante la sua ragione, partecipi alla legge eterna, che non è lui a stabilire.

37. Volendo però mantenere la vita morale in un contesto cristiano, è stata introdotta da alcuni teologi moralisti una netta distinzione, contraria alla dottrina cattolica, tra un ordine etico, che avrebbe origine umana e valore solo mondano, e un ordine della salvezza, per il quale avrebbero rilevanza solo alcune intenzioni ed atteggiamenti interiori circa Dio e il prossimo. Si è giunti conseguentemente al punto di negare l'esistenza, nella rivelazione divina, di un contenuto morale specifico e determinato, universalmente valido e permanente: la Parola di Dio si limiterebbe a proporre un'esortazione, una generica parenesi, che poi solo la ragione autonoma avrebbe il compito di riempire di determinazioni normative veramente «oggettive», ossia adeguate alla situazione storica concreta. Naturalmente un'autonomia così concepita comporta anche la negazione di una competenza dottrinale specifica da parte della Chiesa e del suo Magistero circa norme morali determinate riguardanti il cosiddetto «bene umano»: esse non apparterrebbero al contenuto proprio della Rivelazione e non sarebbero in se stesse rilevanti in ordine alla salvezza.

Non vi è chi non veda che una simile interpretazione dell'autonomia della ragione umana comporta tesi incompatibili con la dottrina cattolica.

In un tale contesto è assolutamente necessario chiarire, alla luce della Parola di Dio e della viva tradizione della Chiesa, le fondamentali nozioni della libertà umana e della legge morale, nonché i loro profondi e interiori rapporti. Solo così sarà possibile corrispondere alle giuste istanze della razionalità umana, integrando gli elementi validi di alcune correnti dell'odierna teologia morale, senza pregiudicare il patrimonio morale della Chiesa con tesi derivanti da un erroneo concetto di autonomia.

 

Dio volle lasciare l'uomo «in mano al suo consiglio» (Sir 15,14)

38. Riprendendo le parole del Siracide, il Concilio Vaticano II così spiega la «vera libertà» che nell'uomo è «segno altissimo dell'immagine divina»: «Dio volle lasciare l'uomo "in mano al suo consiglio", così che egli cerchi spontaneamente il suo Creatore, e giunga liberamente, con l'adesione a Lui, alla piena e beata perfezione». Queste parole indicano la meravigliosa profondità della partecipazione alla signoria divina, cui l'uomo è stato chiamato: indicano che il dominio dell'uomo si estende, in un certo senso, sull'uomo stesso. È questo un aspetto costantemente accentuato nella riflessione teologica sulla libertà umana, interpretata nei termini di una forma di regalità. Scrive, ad esempio, san Gregorio Nisseno: «L'animo manifesta la sua regalità ed eccellenza... nel suo essere senza padrone e libero, governandosi autocraticamente con il suo volere. Di chi altro questo è proprio, se non del re?... Così la natura umana, creata per essere padrona delle altre creature, per la somiglianza con il sovrano dell'universo fu stabilita come una viva immagine, partecipe della dignità e del nome dell'Archetipo».

Già il governare il mondo costituisce per l'uomo un compito grande e colmo di responsabilità, che impegna la sua libertà in obbedienza al Creatore: «Riempite la terra; soggiogatela» (Gn 1,28). Sotto questo aspetto al singolo uomo, come pure alla comunità umana, spetta una giusta autonomia, alla quale la Costituzione conciliare Gaudium et spes dedica una speciale attenzione. È l'autonomia delle realtà terrene, che significa che «le cose create e le stesse società hanno leggi e valori propri, che l'uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare».

39. Non solo il mondo però, ma anche l'uomo stesso è stato affidato alla sua propria cura e responsabilità. Dio l'ha lasciato «in mano al suo consiglio» (Sir 15,14), perché cercasse il suo Creatore e giungesse liberamente alla perfezione. Giungere significa edificare personalmente in sé tale perfezione. Infatti, come governando il mondo l'uomo lo forma secondo la sua intelligenza e volontà, così compiendo atti moralmente buoni l'uomo conferma, sviluppa e consolida in se stesso la somiglianza di Dio.

Il Concilio, tuttavia, chiede vigilanza di fronte a un falso concetto dell'autonomia delle realtà terrene, quello di ritenere che «le cose create non dipendono da Dio, e che l'uomo può adoperarle senza riferirle al Creatore». Nei riguardi dell'uomo poi simile concetto di autonomia produce effetti particolarmente dannosi, assumendo in ultima istanza un carattere ateo: «La creatura, infatti, senza il Creatore svanisce... Anzi, l'oblio di Dio priva di luce la creatura stessa».

40. L'insegnamento del Concilio sottolinea, da un lato, l'attività della ragione umana nel rinvenimento e nella applicazione della legge morale: la vita morale esige la creatività e l'ingegnosità proprie della persona, sorgente e causa dei suoi atti deliberati. D'altro lato, la ragione trae la sua verità e la sua autorità dalla legge eterna, che non è altro che la stessa sapienza divina. Alla base della vita morale sta dunque il principio di una «giusta autonomia» dell'uomo, soggetto personale dei suoi atti. La legge morale proviene da Dio e trova sempre in lui la sua sorgente: in forza della ragione naturale, che deriva dalla sapienza divina, essa è, al tempo stesso, la legge propria dell'uomo. La legge naturale infatti, come si è visto, «altro non è che la luce dell'intelligenza infusa in noi da Dio. Grazie ad essa conosciamo ciò che si deve compiere e ciò che si deve evitare. Questa luce e questa legge Dio l'ha donata nella creazione». La giusta autonomia della ragione pratica significa che l'uomo possiede in se stesso la propria legge, ricevuta dal Creatore. Tuttavia, l'autonomia della ragione non può significare la creazione, da parte della stessa ragione, dei valori e delle norme morali. Se questa autonomia implicasse una negazione della partecipazione della ragione pratica alla sapienza del Creatore e Legislatore divino, oppure se suggerisse una libertà creatrice delle norme morali, a seconda delle contingenze storiche o delle diverse società e culture, una tale pretesa autonomia contraddirebbe l'insegnamento della Chiesa sulla verità dell'uomo. Sarebbe la morte della vera libertà: «Ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti» (Gn 2,17).

41. La vera autonomia morale dell'uomo non significa affatto il rifiuto, bensì l'accoglienza della legge morale, del comando di Dio: «Il Signore Dio diede questo comando all'uomo...» (Gn 2,16). La libertà dell'uomo e la legge di Dio s'incontrano e sono chiamate a compenetrarsi tra loro, nel senso della libera obbedienza dell'uomo a Dio e della gratuita benevolenza di Dio all'uomo. E pertanto l'obbedienza a Dio non è, come taluni credono, un'eteronomia, come se la vita morale fosse sottomessa alla volontà di un'onnipotenza assoluta, esterna all'uomo e contraria all'affermazione della sua libertà. In realtà, se eteronomia della morale significasse negazione dell'autodeterminazione dell'uomo o imposizione di norme estranee al suo bene, essa sarebbe in contraddizione con la rivelazione dell'Alleanza e dell'Incarnazione redentrice. Una simile eteronomia non sarebbe che una forma di alienazione, contraria alla sapienza divina ed alla dignità della persona umana.

Alcuni parlano, a giusto titolo, di teonomia, o di teonomia partecipata, perché la libera obbedienza dell'uomo alla legge di Dio implica effettivamente la partecipazione della ragione e della volontà umane alla sapienza e alla provvidenza di Dio. Proibendo all'uomo di mangiare «dell'albero della conoscenza del bene e del male», Dio afferma che l'uomo non possiede originariamente in proprio questa «conoscenza», ma solamente vi partecipa mediante la luce della ragione naturale e della rivelazione divina, che gli manifestano le esigenze e gli appelli della sapienza eterna. La legge quindi deve dirsi un'espressione della sapienza divina: sottomettendosi ad essa, la libertà si sottomette alla verità della creazione. Per questo occorre riconoscere nella libertà della persona umana l'immagine e la vicinanza di Dio, che è «presente in tutti» (cf. Ef 4,6); allo stesso modo, bisogna confessare la maestà del Dio dell'universo e venerare la santità della legge di Dio infinitamente trascendente. Deus semper maior.

 

Beato l'uomo che si compiace della legge del Signore (cf. Sal 1,1-2)

42. Modellata su quella di Dio, la libertà dell'uomo non solo non è negata dalla sua obbedienza alla legge divina, ma soltanto mediante questa obbedienza essa permane nella verità ed è conforme alla dignità dell'uomo, come scrive apertamente il Concilio: «La dignità dell'uomo richiede che egli agisca secondo scelte consapevoli e libere, mosso cioè e indotto da convinzioni personali e non per un cieco impulso interno e per mera coazione esterna. Ma tale dignità l'uomo la ottiene quando, liberandosi da ogni schiavitù di passioni, tende al suo fine con scelta libera del bene, e si procura da sé e con la sua diligente iniziativa i mezzi convenienti».

Nel suo tendere a Dio, a Colui che «solo è buono», l'uomo deve liberamente compiere il bene ed evitare il male. Ma per questo l'uomo deve poter distinguere il bene dal male. Ed è quanto avviene, anzitutto, grazie alla luce della ragione naturale, riflesso nell'uomo dello splendore del volto di Dio. In questo senso, commentando un versetto del Salmo 4, san Tommaso scrive: «Dopo aver detto: Offrite sacrifici di giustizia (Sal 4,6), come se alcuni gli chiedessero quali sono le opere della giustizia, il Salmista soggiunge: Molti dicono: Chi ci farà vedere il bene? E, rispondendo alla domanda, dice: La luce del tuo volto, Signore, è stata impressa su di noi. Come se volesse dire che la luce della ragione naturale con la quale distinguiamo il bene dal male - il che è di competenza della legge naturale - non è altro che un'impronta in noi della luce divina». Da ciò segue anche per quale motivo questa legge è chiamata legge naturale: viene detta così non in rapporto alla natura degli esseri irrazionali, ma perché la ragione che la promulga è propria della natura umana.

43. Il Concilio Vaticano II ricorda che «norma suprema della vita umana è la legge divina, eterna, oggettiva e universale, per mezzo della quale Dio con un disegno di sapienza e di amore ordina, dirige e governa tutto il mondo e le vie della comunità umana. E Dio rende partecipe l'uomo della sua legge, cosicché l'uomo, per soave disposizione della provvidenza divina, possa sempre più conoscere l'immutabile verità».

Il Concilio rimanda alla dottrina classica sulla legge eterna di Dio. Sant'Agostino la definisce come «la ragione o la volontà di Dio che comanda di conservare l'ordine naturale e proibisce di turbarlo»; san Tommaso la identifica con «la ragione della divina sapienza che muove tutto al fine dovuto». E la sapienza di Dio è provvidenza, amore che si prende cura. È Dio stesso, dunque, ad amare e a prendersi cura, nel senso più letterale e fondamentale, di tutta la creazione (cf. Sap 7,22; 8,11). Ma Dio provvede agli uomini in modo diverso rispetto agli esseri che non sono persone: non «dall'esterno», attraverso le leggi della natura fisica, ma «dal di dentro», mediante la ragione che, conoscendo col lume naturale la legge eterna di Dio, è perciò stesso in grado di indicare all'uomo la giusta direzione del suo libero agire. In questo modo Dio chiama l'uomo a partecipare alla sua provvidenza, volendo per mezzo dell'uomo stesso, ossia attraverso la sua ragionevole e responsabile cura, guidare il mondo: non soltanto il mondo della natura, ma anche quello delle persone umane. In questo contesto, come espressione umana della legge eterna di Dio, si pone la legge naturale: «Rispetto alle altre creature - scrive san Tommaso - la creatura razionale è soggetta in un modo più eccellente alla divina provvidenza, in quanto anche essa diventa partecipe della provvidenza, provvedendo a se stessa e agli altri: perciò si ha in essa una partecipazione della ragione eterna, grazie alla quale ha una naturale inclinazione all'atto ed al fine dovuti: tale partecipazione della legge eterna nella creatura razionale è chiamata legge naturale».

44. La Chiesa ha fatto spesso riferimento alla dottrina tomistica di legge naturale, assumendola nel proprio insegnamento morale. Così il mio venerato predecessore Leone XIII ha sottolineato l'essenziale subordinazione della ragione e della legge umana alla Sapienza di Dio e alla sua legge. Dopo aver detto che «la legge naturale è scritta e scolpita nell'animo di tutti e di ciascun uomo, poiché essa non è altro che la stessa ragione umana che ci comanda di fare il bene e ci intima di non peccare», Leone XIII rimanda alla «ragione più alta» del Legislatore divino: «Ma tale prescrizione della ragione umana non potrebbe aver forza di legge, se non fosse la voce e l'interprete di una ragione più alta, a cui il nostro spirito e la nostra libertà devono essere sottomessi». Infatti, la forza della legge risiede nella sua autorità di imporre dei doveri, di conferire dei diritti e di dare la sanzione a certi comportamenti: «Ora tutto ciò non potrebbe esistere nell'uomo, se fosse egli stesso a darsi, quale legislatore supremo, la norma delle sue azioni». E conclude: «Ne consegue che la legge naturale è la stessa legge eterna, insita negli esseri dotati di ragione, che li inclina all'atto e al fine che loro convengono; essa è la stessa ragione eterna del Creatore e governatore dell'universo».

L'uomo può riconoscere il bene e il male grazie a quel discernimento del bene dal male che egli stesso opera mediante la sua ragione, in particolare mediante la sua ragione illuminata dalla rivelazione divina e dalla fede, in forza della legge che Dio ha donato al popolo eletto, a cominciare dai comandamenti del Sinai. Israele è stato chiamato a ricevere e a vivere la legge di Dio come particolare dono e segno dell'elezione e dell'Alleanza divina, ed insieme come garanzia della benedizione di Dio. Così Mosè poteva rivolgersi ai figli di Israele e chiedere loro: «Quale grande nazione ha la divinità così vicina a sé, come il Signore nostro Dio è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo? E quale grande nazione ha leggi e norme giuste, come è tutta questa legislazione che io oggi vi espongo?» (Dt 4,7-8). È nei Salmi che incontriamo i sentimenti di lode, gratitudine e venerazione che il popolo eletto è chiamato a nutrire verso la legge di Dio, insieme all'esortazione a conoscerla, meditarla e tradurla nella vita: «Beato l'uomo che non segue il consiglio degli empi, non indugia nella via dei peccatori e non siede in compagnia degli stolti; ma si compiace della legge del Signore, la sua legge medita giorno e notte» (Sal 1,1-2); «La legge del Signore è perfetta, rinfranca l'anima; la testimonianza del Signore è verace, rende saggio il semplice. Gli ordini del Signore sono giusti, fanno gioire il cuore; i comandi del Signore sono limpidi, danno luce agli occhi» (Sal 181,8-9).

45. La Chiesa accoglie con riconoscenza e custodisce con amore l'intero deposito della Rivelazione, trattandolo con religioso rispetto e adempiendo alla sua missione di interpretare la legge di Dio in modo autentico alla luce del Vangelo. La Chiesa, inoltre, riceve in dono la Legge nuova, che è il «compimento» della legge di Dio in Gesù Cristo e nel suo Spirito: è una legge «interiore» (cf. Ger 31,31-33), «scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei vostri cuori» (2 Cor 3,3); una legge di perfezione e di libertà (cf. 2 Cor 3,17); è «la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù» (Rm 8,2). Di questa legge scrive san Tommaso: «Questa può essere detta legge in un duplice senso. In un primo senso, legge dello spirito è lo Spirito Santo... che, inabitante nell'anima, non solo insegna che cosa è necessario compiere illuminando l'intelletto sulle cose da farsi, ma anche inclina ad agire con rettitudine... In un secondo senso, legge dello spirito può dirsi l'effetto proprio dello Spirito Santo, e cioè la fede che opera per mezzo della carità (Gal 5,6), la quale pertanto ammaestra interiormente circa le cose da farsi... e inclina l'affetto ad agire».

Anche se nella riflessione teologico-morale si è soliti distinguere la legge di Dio positiva o rivelata da quella naturale, e nell'economia della salvezza la legge «antica» da quella «nuova», non si può dimenticare che queste e altre utili distinzioni si riferiscono sempre alla legge il cui autore è lo stesso unico Dio, e il cui destinatario è l'uomo. I diversi modi secondo cui nella storia Dio ha cura del mondo e dell'uomo, non solo non si escludono tra loro, ma al contrario si sostengono e si compenetrano a vicenda. Tutti scaturiscono e concludono all'eterno disegno sapiente e amoroso con il quale Dio predestina gli uomini «ad essere conformi all'immagine del Figlio suo» (Rm 8,29). In questo disegno non c'è nessuna minaccia per la vera libertà dell'uomo; al contrario l'accoglienza di questo disegno è l'unica via per l'affermazione della libertà.  

 

«Quanto la legge esige è scritto nei loro cuori» (Rm 2,15)

46. Il presunto conflitto tra la libertà e la legge si ripropone oggi con una singolare forza in rapporto alla legge naturale, e in particolare in rapporto alla natura. In realtà i dibattiti su natura e libertà hanno sempre accompagnato la storia della riflessione morale, assumendo toni accesi con il Rinascimento e la Riforma, come si può rilevare dagli insegnamenti del Concilio di Trento. Di una tensione analoga resta segnata, anche se in un senso differente, l'epoca contemporanea: il gusto dell'osservazione empirica, i procedimenti dell'oggettivazione scientifica, il progresso tecnico, alcune forme di liberalismo hanno portato a contrapporre i due termini, come se la dialettica - se non addirittura il conflitto - tra libertà e natura fosse caratteristica strutturale della storia umana. In altre epoche, è sembrato che la «natura» sottomettesse totalmente l'uomo ai suoi dinamismi e persino ai suoi determinismi. Ancor oggi le coordinate spazio-temporali del mondo sensibile, le costanti fisico-chimiche, i dinamismi corporei, le pulsioni psichiche, i condizionamenti sociali appaiono a molti come gli unici fattori realmente decisivi delle realtà umane. In questo contesto, anche i fatti morali, a dispetto della loro specificità, sono spesso trattati come se fossero dati statisticamente accertabili, come comportamenti osservabili o spiegabili solo con le categorie dei meccanismi psico-sociali. E così alcuni studiosi di etica, tenuti per professione a esaminare i fatti e i gesti dell'uomo, possono essere tentati di misurare il loro sapere, se non le loro prescrizioni, sulla base di un riscontro statistico circa i comportamenti umani concreti e le opinioni morali della maggioranza.

Altri moralisti, invece, preoccupati di educare ai valori, si mantengono sensibili al prestigio della libertà, ma spesso la concepiscono in opposizione, o in contrasto, con la natura materiale e biologica, sulla quale dovrebbe progressivamente affermarsi. A questo proposito differenti concezioni convergono nel dimenticare la dimensione creaturale della natura e nel misconoscere la sua integralità. Per alcuni, la natura si trova ridotta a materiale per l'agire umano e per il suo potere: essa dovrebbe essere profondamente trasformata, anzi superata dalla libertà, dal momento che ne costituirebbe un limite e una negazione. Per altri, è nella promozione senza misura del potere dell'uomo, o della sua libertà, che si costituiscono i valori economici, sociali, culturali ed anche morali: la natura starebbe a significare tutto ciò che nell'uomo e nel mondo si colloca al di fuori della libertà. Tale natura comprenderebbe in primo luogo il corpo umano, la sua costituzione e i suoi dinamismi: a questo dato fisico si opporrebbe quanto è «costruito» cioè la «cultura», quale opera e prodotto della libertà. La natura umana, così intesa, potrebbe essere ridotta e trattata come materiale biologico o sociale sempre disponibile. Ciò significa ultimamente definire la libertà mediante se stessa e farne un'istanza creatrice di sé e dei suoi valori. È così che al limite l'uomo non avrebbe neppure natura, e sarebbe per se stesso il proprio progetto di esistenza. L'uomo non sarebbe nient'altro che la sua libertà!

47. In questo contesto sono sorte le obiezioni di fisicismo e naturalismo contro la concezione tradizionale della legge naturale: questa presenterebbe come leggi morali quelle che in se stesse sarebbero solo leggi biologiche. Così, troppo superficialmente, si sarebbe attribuito ad alcuni comportamenti umani un carattere permanente ed immutabile e, in base ad esso, si sarebbe preteso di formulare norme morali universalmente valide. Secondo alcuni teologi, una simile «argomentazione biologista o naturalista» sarebbe presente anche in taluni documenti del Magistero della Chiesa, specialmente in quelli riguardanti l'ambito dell'etica sessuale e matrimoniale. In base ad una concezione naturalistica dell'atto sessuale, sarebbero state condannate come moralmente inammissibili la contraccezione, la sterilizzazione diretta, l'autoerotismo, i rapporti prematrimoniali, le relazioni omosessuali, nonché la fecondazione artificiale. Ora, secondo il parere di questi teologi, la valutazione moralmente negativa di tali atti non prenderebbe in adeguata considerazione il carattere razionale e libero dell'uomo, né il condizionamento culturale di ogni norma morale. Essi dicono che l'uomo, come essere razionale, non solo può, ma addirittura deve decidere liberamente il senso dei suoi comportamenti. Questo «decidere il senso» dovrà tener conto, ovviamente, dei molteplici limiti dell'essere umano, che ha una condizione corporea e storica. Dovrà, inoltre, prendere in considerazione i modelli comportamentali ed i significati che questi assumono in una determinata cultura. E, soprattutto, dovrà rispettare il comandamento fondamentale dell'amore di Dio e del prossimo. Dio però - asseriscono poi - ha fatto l'uomo come essere razionalmente libero, lo ha lasciato «in mano al suo consiglio» e da lui attende una propria, razionale formazione della sua vita. L'amore del prossimo significherebbe soprattutto o esclusivamente rispetto per il suo libero decidere di se stesso. I meccanismi dei comportamenti propri dell'uomo, nonché le cosiddette «inclinazioni naturali», stabilirebbero al massimo - come dicono - un orientamento generale del comportamento corretto, ma non potrebbero determinare la valutazione morale dei singoli atti umani, tanto complessi dal punto di vista delle situazioni.

48. Di fronte ad una tale interpretazione occorre considerare con attenzione il retto rapporto che esiste tra la libertà e la natura umana, e in particolare il posto che ha il corpo umano nelle questioni della legge naturale.

Una libertà che pretende di essere assoluta finisce per trattare il corpo umano come un dato bruto, sprovvisto di significati e di valori morali finché essa non l'abbia investito del suo progetto. Di conseguenza, la natura umana e il corpo appaiono come dei presupposti o preliminari, materialmente necessari alla scelta della libertà, ma estrinseci alla persona, al soggetto e all'atto umano. I loro dinamismi non potrebbero costituire punti di riferimento per la scelta morale, dal momento che le finalità di queste inclinazioni sarebbero solo beni «fisici», detti da taluni «pre-morali». Farvi riferimento, per cercarvi indicazioni razionali circa l'ordine della moralità, dovrebbe essere tacciato di fisicismo o di biologismo. In un simile contesto la tensione tra la libertà e una natura concepita in senso riduttivo si risolve in una divisione nell'uomo stesso.

Questa teoria morale non è conforme alla verità sull'uomo e sulla sua libertà. Essa contraddice agli insegnamenti della Chiesa sull'unità dell'essere umano, la cui anima razionale è per se et essentialiter la forma del corpo. L'anima spirituale e immortale è il principio di unità dell'essere umano, è ciò per cui esso esiste come un tutto - «corpore et anima unus» - in quanto persona. Queste definizioni non indicano solo che anche il corpo, al quale è promessa la risurrezione, sarà partecipe della gloria; esse ricordano altresì il legame della ragione e della libera volontà con tutte le facoltà corporee e sensibili. La persona, incluso il corpo, è affidata interamente a se stessa, ed è nell'unità dell'anima e del corpo che essa è il soggetto dei propri atti morali. La persona, mediante la luce della ragione e il sostegno della virtù, scopre nel suo corpo i segni anticipatori, l'espressione e la promessa del dono di sé, in conformità con il sapiente disegno del Creatore. È alla luce della dignità della persona umana - da affermarsi per se stessa - che la ragione coglie il valore morale specifico di alcuni beni, cui la persona è naturalmente inclinata. E dal momento che la persona umana non è riducibile ad una libertà che si autoprogetta, ma comporta una struttura spirituale e corporea determinata, l'esigenza morale originaria di amare e rispettare la persona come un fine e mai come un semplice mezzo, implica anche, intrinsecamente, il rispetto di alcuni beni fondamentali, senza del quale si cade nel relativismo e nell'arbitrio.

49. Una dottrina che dissoci l'atto morale dalle dimensioni corporee del suo esercizio è contraria agli insegnamenti della Sacra Scrittura e della Tradizione: tale dottrina fa rivivere, sotto forme nuove, alcuni vecchi errori sempre combattuti dalla Chiesa, in quanto riducono la persona umana a una libertà «spirituale», puramente formale. Questa riduzione misconosce il significato morale del corpo e dei comportamenti che ad esso si riferiscono (cf. 1 Cor 6,19). L'apostolo Paolo dichiara esclusi dal Regno dei cieli «immorali, idolatri, adulteri, effeminati, sodomiti, ladri, avari, ubriaconi, maldicenti e rapaci» (cf. 1 Cor 6,9-10). Tale condanna - fatta propria dal Concilio di Trento - enumera come «peccati mortali», o «pratiche infami», alcuni comportamenti specifici la cui volontaria accettazione impedisce ai credenti di avere parte all'eredità promessa. Infatti, corpo e anima sono indissociabili: nella persona, nell'agente volontario e nell'atto deliberato, essi stanno o si perdono insieme.

50. Si può ora comprendere il vero significato della legge naturale: essa si riferisce alla natura propria e originale dell'uomo, alla «natura della persona umana», che è la persona stessa nell'unità di anima e di corpo, nell'unità delle sue inclinazioni di ordine sia spirituale che biologico e di tutte le altre caratteristiche specifiche necessarie al perseguimento del suo fine. «La legge morale naturale esprime e prescrive le finalità, i diritti e i doveri che si fondano sulla natura corporale e spirituale della persona umana. Pertanto essa non può essere concepita come normatività semplicemente biologica, ma deve essere definita come l'ordine razionale secondo il quale l'uomo è chiamato dal Creatore a dirigere e a regolare la sua vita e i suoi atti e, in particolare, a usare e disporre del proprio corpo». Ad esempio, l'origine e il fondamento del dovere di rispettare assolutamente la vita umana sono da trovare nella dignità propria della persona e non semplicemente nell'inclinazione naturale a conservare la propria vita fisica. Così la vita umana, pur essendo un bene fondamentale dell'uomo, acquista un significato morale in riferimento al bene della persona che deve essere sempre affermata per se stessa: mentre è sempre moralmente illecito uccidere un essere umano innocente, può essere lecito, lodevole o persino doveroso dare la propria vita (cf. Gv 15, 13) per amore del prossimo o per testimonianza verso la verità. In realtà solo in riferimento alla persona umana nella sua «totalità unificata», cioè «anima che si esprime nel corpo e corpo informato da uno spirito immortale», si può leggere il significato specificamente umano del corpo. In effetti le inclinazioni naturali acquistano rilevanza morale solo in quanto esse si riferiscono alla persona umana e alla sua realizzazione autentica, la quale d'altra parte può verificarsi sempre e solo nella natura umana. Rifiutando le manipolazioni della corporeità che ne alterano il significato umano, la Chiesa serve l'uomo e gli indica la via del vero amore, sulla quale soltanto egli può trovare il vero Dio.

La legge naturale così intesa non lascia spazio alla divisione tra libertà e natura. Queste, infatti, sono armonicamente collegate tra loro e intimamente alleate l'una con l'altra.  

 

«Ma da principio non fu così» (Mt 19,8)

51. Il presunto conflitto tra la libertà e la natura si ripercuote anche sull'interpretazione di alcuni aspetti specifici della legge naturale, soprattutto sulla sua universalità e immutabilità. «Dove dunque sono iscritte queste regole - si chiedeva sant'Agostino - se non nel libro di quella luce che si chiama verità? Di qui, dunque, è dettata ogni legge giusta e si trasferisce retta nel cuore dell'uomo che opera la giustizia, non emigrando in lui, ma quasi imprimendosi in lui, come l'immagine passa dall'anello nella cera, ma senza abbandonare l'anello».

Proprio grazie a questa «verità» la legge naturale implica l'universalità. Essa, in quanto iscritta nella natura razionale della persona, si impone ad ogni essere dotato di ragione e vivente nella storia. Per perfezionarsi nel suo ordine specifico, la persona deve compiere il bene ed evitare il male, vegliare alla trasmissione e alla conservazione della vita, affinare e sviluppare le ricchezze del mondo sensibile, coltivare la vita sociale, cercare il vero, praticare il bene, contemplare la bellezza.

La scissione posta da alcuni tra la libertà degli individui e la natura comune a tutti, come emerge da alcune teorie filosofiche di grande risonanza nella cultura contemporanea, oscura la percezione dell'universalità della legge morale da parte della ragione. Ma, in quanto esprime la dignità della persona umana e pone la base dei suoi diritti e doveri fondamentali, la legge naturale è universale nei suoi precetti e la sua autorità si estende a tutti gli uomini. Questa universalità non prescinde dalla singolarità degli esseri umani, né si oppone all'unicità e all'irripetibilità di ciascuna persona: al contrario, essa abbraccia in radice ciascuno dei suoi atti liberi, che devono attestare l'universalità del vero bene. Sottomettendosi alla legge comune, i nostri atti edificano la vera comunione delle persone e, con la grazia di Dio, esercitano la carità, «vincolo della perfezione» (Col 3,14). Quando invece misconoscono o anche solo ignorano la legge, in maniera imputabile o no, i nostri atti feriscono la comunione delle persone, con pregiudizio di ciascuno.

52. È giusto e buono, sempre e per tutti, servire Dio, rendergli il culto dovuto ed onorare secondo verità i genitori. Simili precetti positivi, che prescrivono di compiere talune azioni e di coltivare certi atteggiamenti, obbligano universalmente; essi sono immutabili; uniscono nel medesimo bene comune tutti gli uomini di ogni epoca della storia, creati per «la stessa vocazione e lo stesso destino divino». Queste leggi universali e permanenti corrispondono a conoscenze della ragione pratica e vengono applicate agli atti particolari mediante il giudizio della coscienza. Il soggetto che agisce assimila personalmente la verità contenuta nella legge: egli si appropria, fa sua questa verità del suo essere mediante gli atti e le relative virtù. I precetti negativi della legge naturale sono universalmente validi: essi obbligano tutti e ciascuno, sempre e in ogni circostanza. Si tratta infatti di proibizioni che vietano una determinata azione semper et pro semper, senza eccezioni, perché la scelta di un tale comportamento non è in nessun caso compatibile con la bontà della volontà della persona che agisce, con la sua vocazione alla vita con Dio e alla comunione col prossimo. È proibito ad ognuno e sempre di infrangere precetti che vincolano, tutti e a qualunque costo, a non offendere in alcuno e, prima di tutto, in se stessi la dignità personale e comune a tutti.

D'altra parte, il fatto che solo i comandamenti negativi obbligano sempre e in ogni circostanza, non significa che nella vita morale le proibizioni siano più importanti dell'impegno a fare il bene indicato dai comandamenti positivi. Il motivo è piuttosto il seguente: il comandamento dell'amore di Dio e del prossimo non ha nella sua dinamica positiva nessun limite superiore, bensì ha un limite inferiore, scendendo sotto il quale si viola il comandamento. Inoltre, ciò che si deve fare in una determinata situazione dipende dalle circostanze, che non si possono tutte quante prevedere in anticipo; al contrario ci sono comportamenti che non possono mai essere, in nessuna situazione, una risposta adeguata - ossia conforme alla dignità della persona. Infine, è sempre possibile che l'uomo, in seguito a costrizione o ad altre circostanze, sia impedito di portare a termine determinate buone azioni; mai però può essere impedito di non fare determinate azioni, soprattutto se egli è disposto a morire piuttosto che a fare il male.

La Chiesa ha sempre insegnato che non si devono mai scegliere comportamenti proibiti dai comandamenti morali, espressi in forma negativa nell'Antico e nel Nuovo Testamento. Come si è visto, Gesù stesso ribadisce l'inderogabilità di queste proibizioni: «Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti...: non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso» (Mt 19,17-18).

53. La grande sensibilità che l'uomo contemporaneo testimonia per la storicità e per la cultura conduce taluni a dubitare dell'immutabilità della stessa legge naturale, e quindi dell'esistenza di «norme oggettive di moralità» 96 valide per tutti gli uomini del presente e del futuro, come già per quelli del passato: è mai possibile affermare come valide universalmente per tutti e sempre permanenti certe determinazioni razionali stabilite nel passato, quando si ignorava il progresso che l'umanità avrebbe fatto successivamente?

Non si può negare che l'uomo si dà sempre in una cultura particolare, ma pure non si può negare che l'uomo non si esaurisce in questa stessa cultura. Del resto, il progresso stesso delle culture dimostra che nell'uomo esiste qualcosa che trascende le culture. Questo «qualcosa» è precisamente la natura dell'uomo: proprio questa natura è la misura della cultura ed è la condizione perché l'uomo non sia prigioniero di nessuna delle sue culture, ma affermi la sua dignità personale nel vivere conformemente alla verità profonda del suo essere. Mettere in discussione gli elementi strutturali permanenti dell'uomo, connessi anche con la stessa dimensione corporea, non solo sarebbe in conflitto con l'esperienza comune, ma renderebbe incomprensibile il riferimento che Gesù ha fatto al «principio», proprio là dove il contesto sociale e culturale del tempo aveva deformato il senso originario e il ruolo di alcune norme morali (cf. Mt 19,1-9). In tal senso «la Chiesa afferma che al di sotto di tutti i mutamenti ci sono molte cose che non cambiano; esse trovano il loro ultimo fondamento in Cristo, che è sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli». È lui il «Principio» che, avendo assunto la natura umana, la illumina definitivamente nei suoi elementi costitutivi e nel suo dinamismo di carità verso Dio e il prossimo.

Certamente occorre cercare e trovare delle norme morali universali e permanenti la formulazione più adeguata ai diversi contesti culturali, più capace di esprimerne incessantemente l'attualità storica, di farne comprendere e interpretare autenticamente la verità. Questa verità della legge morale - come quella del «deposito della fede» - si dispiega attraverso i secoli: le norme che la esprimono restano valide nella loro sostanza, ma devono essere precisate e determinate «eodem sensu eademque sententia» secondo le circostanze storiche dal Magistero della Chiesa, la cui decisione è preceduta e accompagnata dallo sforzo di lettura e di formulazione proprio della ragione dei credenti e della riflessione teologica.

 

 

 

[ Continua... ]