Introduzione

1. Esistono valori morali oggettivi in grado di unire gli uomini e di procurare ad essi pace e felicità? Quali sono? Come riconoscerli? Come attuarli nella vita delle persone e delle comunità? Questi interrogativi di sempre intorno al bene e al male oggi sono piú urgenti che mai, nella misura in cui gli uomini hanno preso maggiormente coscienza di formare una sola comunità mondiale. I grandi problemi che si pongono agli esseri umani hanno ormai una dimensione internazionale, planetaria, poiché lo sviluppo delle tecniche di comunicazione favorisce una crescente interazione tra le persone, le società e le culture. Un avvenimento locale può avere una risonanza planetaria quasi immediata. Emerge cosí la consapevolezza di una solidarietà globale, che trova il suo ultimo fondamento nell’unità del genere umano. Questa si traduce in una responsabilità planetaria. Cosí il problema dell’equilibrio ecologico, della protezione dell’ambiente, delle risorse e del clima è divenuta una preoccupazione pressante, che interpella tutta l’umanità e la cui soluzione va ampiamente oltre gli ambiti nazionali. Anche le minacce che il terrorismo, il crimine organizzato e le nuove forme di violenza e di oppressione fanno pesare sulle società hanno una dimensione planetaria. I rapidi sviluppi delle biotecnologie, che a volte minacciano la stessa identità dell’essere umano (manipolazioni genetiche, clonazioni...), reclamano urgentemente una riflessione etica e politica di ampiezza universale. In tale contesto, la ricerca di valori etici comuni conosce un ritorno di attualità.

2. Con la loro saggezza, la loro generosità e talvolta il loro eroismo, uomini e donne sono testimoni viventi di tali valori etici comuni. L’ammirazione che essi suscitano in noi è il segno di una prima acquisizione spontanea di valori morali. La riflessione dei cattedratici e degli scienziati sulle dimensioni culturali, politiche, economiche, morali e religiose della nostra esistenza sociale nutre tale determinazione sul bene comune dell’umanità. Ci sono pure gli artisti che, con la manifestazione della bellezza, reagiscono contro la perdita di senso e rinnovano la speranza degli esseri umani. Anche uomini politici lavorano con energia e creatività per attuare programmi di rimozione della povertà e di protezione delle libertà fondamentali. Molto importante è inoltre la costante testimonianza dei rappresentanti delle religioni e delle tradizioni spirituali che vogliono vivere alla luce delle verità ultime e del bene assoluto. Tutti contribuiscono, ciascuno a suo modo e in un reciproco scambio, a promuovere la pace, un ordine politico piú giusto, il senso della comune responsabilità, un’equa ripartizione delle ricchezze, il rispetto dell’ambiente, la dignità della persona umana e i suoi diritti fondamentali. Tuttavia questi sforzi possono avere successo soltanto se le buone intenzioni si fondano su un valido accordo di base circa i beni e i valori che rappresentano le aspirazioni piú profonde dell’essere umano, a titolo individuale e comunitario. Soltanto il riconoscimento e la promozione di questi valori etici possono contribuire alla costruzione di un mondo piú umano.

3. La ricerca di questo linguaggio etico comune riguarda tutti gli uomini. Per i cristiani, si accorda misteriosamente con l’opera del Verbo di Dio, «la luce vera, quella che illumina ogni uomo» (Gv 1,9), e con l’opera dello Spirito Santo che fa nascere nei cuori «amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5,22-23). La comunità dei cristiani, che condivide «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi» e «perciò si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia» (1), non può assolutamente sottrarsi a tale comune responsabilità. Illuminati dal Vangelo, impegnati in un dialogo paziente e rispettoso con tutti gli uomini di buona volontà, i cristiani partecipano alla ricerca comune dei valori umani da promuovere: «Quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, ciò che è virtú e ciò che merita lode, questo sia oggetto dei vostri pensieri» (Fil 4,8). Essi sanno che Gesú Cristo, «nostra pace» (Ef 2,14), che ha riconciliato tutti gli uomini con Dio per mezzo della croce, è il principio di unità piú profondo verso il quale il genere umano è chiamato a convergere.

4. La ricerca di un linguaggio etico comune è inseparabile da un’esperienza di conversione, con la quale persone e comunità si allontanano dalle forze che cercano di imprigionare l’essere umano nell’indifferenza o lo spingono a innalzare muri contro l’altro o contro lo straniero. Il cuore di pietra - freddo, inerte e indifferente alla sorte del prossimo e del genere umano - deve trasformarsi, sotto l’azione dello Spirito, in un cuore di carne (2), sensibile ai richiami della saggezza, alla compassione, al desiderio della pace e alla speranza per tutti. Questa conversione è la condizione di un vero dialogo.

5. Non mancano i tentativi contemporanei per definire un’etica universale. Dopo la fine della seconda guerra mondiale, la comunità delle nazioni, traendo le conseguenze delle strette complicità che il totalitarismo aveva mantenuto con il puro positivismo giuridico, ha definito nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948) alcuni diritti inalienabili della persona umana che trascendono le leggi positive degli Stati e devono servire loro come riferimento e norma. Tali diritti non sono semplicemente concessi dal legislatore: essi sono dichiarati, cioè la loro esistenza oggettiva, anteriore alla decisione del legislatore, è resa manifesta. Derivano infatti dal «riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana» (Preambolo).

La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo costituisce uno dei piú bei successi della storia moderna. Essa «rimane una delle espressioni piú alte della coscienza umana nel nostro tempo» (3) e offre una solida base per la promozione di un mondo piú giusto. Tuttavia i risultati non sono stati sempre all’altezza delle speranze. Alcuni Paesi hanno contestato l’universalità di tali diritti, giudicati troppo occidentali, e questo spinge a cercare una loro formulazione piú comprensiva. Inoltre, una certa propensione a moltiplicare i diritti dell’uomo, in funzione piú dei desideri disordinati dell’individuo consumista o di rivendicazioni settoriali che non di esigenze oggettive del bene comune dell’umanità, ha contribuito non poco a svalutarli. Separata dal senso morale dei valori che trascendono gli interessi particolari, la moltiplicazione delle procedure e delle regolamentazioni giuridiche conduce soltanto a un affossamento, che in definitiva serve soltanto gli interessi dei piú forti. Soprattutto, si manifesta una tendenza a reinterpretare i diritti dell’uomo separandoli dalla dimensione etica e razionale, che costituisce il loro fondamento e il loro fine, a profitto di un puro legalismo utilitarista (4).

6. Per spiegare il fondamento etico dei diritti dell’uomo, alcuni hanno cercato di elaborare un’«etica mondiale» nell’ambito di un dialogo tra le culture e le religioni. L’«etica mondiale» indica l’insieme dei valori obbligatori fondamentali che da secoli formano il tesoro dell’esperienza umana. Essa si trova in tutte le grandi tradizioni religiose e filosofiche (5). Tale progetto, degno di interesse, è espressione del bisogno attuale di un’etica che abbia validità universale e globale. Ma la ricerca puramente induttiva, sul modello parlamentare, di un consenso minimo già esistente può soddisfare le esigenze di fondare il diritto sull’assoluto? Inoltre, tale etica minima non conduce forse a relativizzare le esigenze etiche forti di ogni religione o sapienza particolare?

7. Da molti decenni la questione dei fondamenti etici del diritto e della politica è stata messa da parte in alcuni settori della cultura contemporanea. Con il pretesto che ogni pretesa di una verità oggettiva e universale sarebbe fonte di intolleranza e di violenza, e che soltanto il relativismo potrebbe salvaguardare il pluralismo dei valori e la democrazia, si fa l’apologia del positivismo giuridico che rifiuta di riferirsi a un criterio oggettivo, ontologico, di ciò che è giusto. In tale prospettiva, l’ultimo orizzonte del diritto e della norma morale è la legge in vigore, che è considerata giusta per definizione, poiché è espressione della volontà del legislatore. Ma questo significa aprire la via all’arbitrio del potere, alla dittatura della maggioranza aritmetica e alla manipolazione ideologica, a detrimento del bene comune. «Nell’etica e nella filosofia attuale del diritto, i postulati del positivismo giuridico sono largamente presenti. La conseguenza è che la legislazione diventa spesso soltanto un compromesso tra interessi diversi; si tenta di trasformare in diritti interessi o desideri privati che si oppongono ai doveri derivanti dalla responsabilità sociale» (6). Ma il positivismo giuridico è notoriamente insufficiente, poiché il legislatore può agire legittimamente soltanto all’interno di determinati limiti che derivano dalla dignità della persona umana e al servizio dello sviluppo di ciò che è autenticamente umano. Ora, il legislatore non può abbandonare la determinazione di ciò che è umano a criteri estrinseci e superficiali, come farebbe, ad esempio, se legittimasse da sé tutto ciò che è realizzabile nell’ambito delle biotecnologie. Insomma, deve agire in modo eticamente responsabile. La politica non può prescindere dall’etica né la legge civile e l’ordine giuridico possono prescindere da una legge morale superiore.

8. In tale contesto nel quale il riferimento a valori oggettivi assoluti universalmente riconosciuti è diventato problematico, alcuni, desiderosi di dare comunque una base razionale alle decisioni etiche comuni, raccomandano un’«etica della discussione» nella linea di una comprensione «dialogica» della morale. L’etica della discussione consiste nell’usare, nel corso di un dibattito etico, soltanto le norme a cui tutti i partecipanti interessati, rinunciando a comportamenti «strategici» per imporre i propri punti di vista, possano dare il loro assenso. Cosí si può determinare se una regola di condotta e di azione o un comportamento sono morali, poiché, lasciando da parte i condizionamenti culturali e storici, il principio di discussione offre una garanzia di universalità e di razionalità. L’etica della discussione si interessa soprattutto del metodo con cui, grazie al dibattito, i princípi e le norme etiche possono essere messe alla prova e divenire obbligatori per tutti i partecipanti. È essenzialmente un procedimento per saggiare il valore delle norme proposte, ma non può produrre nuovi contenuti sostanziali. L’etica della discussione è dunque un’etica puramente formale che non riguarda gli orientamenti morali di fondo. Corre anche il rischio di limitarsi a una ricerca di compromesso. Certo, il dialogo e il dibattito sono sempre necessari per ottenere un accordo realizzabile sull’applicazione concreta delle norme morali in una data situazione, ma non potrebbero emarginare la coscienza morale. Un vero dibattito non sostituisce la convinzioni morali personali, ma le suppone e le arricchisce.

9. Consapevoli delle attuali poste in gioco della questione, in questo documento intendiamo invitare tutti coloro che si interrogano sui fondamenti ultimi dell’etica, come pure dell’ordine giuridico e politico, a considerare le risorse che contiene una presentazione rinnovata della dottrina della legge naturale. Questa afferma in sostanza che le persone e le comunità umane sono capaci, alla luce della ragione, di riconoscere gli orientamenti fondamentali di un agire morale conforme alla natura stessa del soggetto umano e di esprimerlo in modo normativo sotto forma di precetti o di comandamenti. Tali precetti fondamentali, oggettivi e universali, sono chiamati a fondare e ad ispirare l’insieme delle determinazioni morali, giuridiche e politiche che regolano la vita degli uomini e delle società. Essi ne costituiscono un’istanza critica permanente e assicurano la dignità della persona umana di fronte alla fluttuazione delle ideologie. Nel corso della sua storia, nell’elaborazione della propria tradizione etica, la comunità cristiana, guidata dallo Spirito di Gesú Cristo e in dialogo critico con le tradizioni di sapienza che ha incontrato, ha assunto, purificato e sviluppato tale insegnamento sulla legge naturale come norma etica fondamentale. Ma il cristianesimo non ha il monopolio della legge naturale. Infatti essa, fondata sulla ragione comune a tutti gli esseri umani, è la base di collaborazione fra tutti gli uomini di buona volontà, al di là delle loro convinzioni religiose.

10. È vero che l’espressione «legge naturale» è fonte di molti malintesi nel contesto attuale. A volte richiama semplicemente una sottomissione rassegnata e del tutto passiva alle leggi fisiche della natura, mentre l’essere umano, giustamente, cerca piuttosto di dominare e orientare questi determinismi per il suo bene. A volte, presentata come un dato oggettivo che si imporrebbe dall’esterno alla coscienza personale, indipendentemente dal lavoro della ragione e della soggettività, è sospettata di introdurre una forma di eteronomia insopportabile alla dignità della persona umana libera. Altre volte, nel corso della sua storia, la teologia cristiana ha giustificato troppo facilmente con la legge naturale posizioni antropologiche che, in seguito, sono apparse condizionate dal contesto storico e culturale. Ma una comprensione piú profonda dei rapporti tra il soggetto morale, la natura e Dio come pure una migliore considerazione della storicità che riguarda le applicazioni concrete della legge naturale consentono di dissipare tali malintesi. Oggi è importante anche proporre la dottrina tradizionale della legge naturale in termini che manifestino meglio la dimensione personale ed esistenziale della vita morale. Bisogna anche insistere maggiormente sul fatto che l’espressione delle esigenze della legge naturale è inseparabile dallo sforzo di tutta la comunità umana per superare le tendenze egoistiche e faziose e sviluppare un approccio globale con l’«ecologia dei valori», senza la quale la vita umana rischia di perdere la propria integrità e il proprio senso di responsabilità per il bene di tutti.

11. L’idea della legge morale naturale assume numerosi elementi comuni alle grandi sapienze religiose e filosofiche dell’umanità. Perciò il nostro documento, nel capitolo 1, inizia col ricordare tali «convergenze». Senza pretendere di essere esauriente, indica che queste grandi sapienze religiose e filosofiche sono testimoni dell’esistenza di un patrimonio morale largamente comune, che forma la base di ogni dialogo sulle questioni morali. Ancor piú, esse suggeriscono, in un modo o in un altro, che questo patrimonio esplicita un messaggio etico universale immanente alla natura delle cose e che gli uomini sono in grado di decifrare. Il documento ricorda poi alcuni punti di riferimento essenziali dello sviluppo storico dell’idea di legge naturale e cita alcune interpretazioni moderne che sono parzialmente all’origine delle difficoltà che i nostri contemporanei provano dinanzi a tale nozione. Nel capitolo 2 («La percezione dei valori morali comuni»), il nostro documento descrive come, a partire dai dati piú semplici dell’esperienza morale, la persona umana coglie immediatamente alcuni beni morali fondamentali e formula di conseguenza i precetti della legge naturale. Questi non costituiscono un codice completo di prescrizioni intangibili, ma un principio permanente e normativo di ispirazione al servizio della vita morale concreta della persona. Il capitolo 3 («I fondamenti della legge naturale»), passando dall’esperienza comune alla teoria, approfondisce i fondamenti filosofici, metafisici e religiosi della legge naturale. Per rispondere ad alcune obiezioni contemporanee, precisa il ruolo della natura nell’agire personale e si interroga sulla possibilità per la natura di costituire una norma morale. Il capitolo 4 («La legge naturale e la Città») esplicita il ruolo regolatore dei precetti della legge naturale nella vita politica. La dottrina della legge naturale possiede già coerenza e validità sul piano filosofico della ragione comune a tutti gli uomini, ma il capitolo 5 («Gesú Cristo, compimento della legge naturale») mostra che essa acquista il suo senso pieno all’interno della storia della salvezza: infatti Gesú Cristo, inviato dal Padre, è, con il suo Spirito, la pienezza di ogni legge.

 

 

Capitolo primo: convergenze

1.1. Le sapienze e le religioni del mondo

12. Nelle diverse culture, gli uomini hanno progressivamente elaborato e sviluppato tradizioni di sapienza nelle quali esprimono e trasmettono la loro visione del mondo, come pure la loro percezione riflessa del posto che l’essere umano occupa nella società e nel cosmo. Prima di ogni teorizzazione concettuale, queste sapienze, che sono spesso di natura religiosa, trasmettono un’esperienza che identifica ciò che favorisce o ciò che impedisce il pieno manifestarsi della vita personale e il buon andamento della vita sociale. Esse costituiscono una sorta di «capitale culturale» disponibile per la ricerca di una sapienza comune necessaria per rispondere alle sfide etiche contemporanee. Secondo la fede cristiana, queste tradizioni di sapienza, nonostante i loro limiti e talvolta i loro errori, colgono un riflesso della sapienza divina che opera nel cuore degli uomini. Esse richiedono attenzione e rispetto, e possono aver valore di praeparatio evangelica.

La forma e l’estensione di queste tradizioni possono variare considerevolmente. Tuttavia sono testimoni dell’esistenza di un patrimonio di valori morali comuni a tutti gli uomini, al di là del modo in cui tali valori sono giustificati all’interno di una particolare visione del mondo. Ad esempio, la «regola d’oro» («Non fare a nessuno ciò che non vuoi che sia fatto a te» [Tb 4,15]) si ritrova, sotto una forma o un’altra, nella maggior parte delle tradizioni di sapienza (7). Inoltre, sono generalmente concordi nel riconoscere che le grandi regole etiche non solo si impongono a un determinato gruppo umano, ma valgono universalmente per ogni individuo e per tutti i popoli. Infine molte tradizioni riconoscono che questi comportamenti morali universali sono richiesti dalla natura stessa dell’essere umano: essi esprimono la maniera in cui l’uomo deve inserirsi, in modo creativo e insieme armonioso, in un ordine cosmico o metafisico che lo supera e che dà senso alla sua vita. Infatti tale ordine è impregnato da una sapienza immanente. È portatore di un messaggio morale che gli uomini sono in grado di decifrare.

13. Nelle tradizioni indú il mondo - il cosmo, come pure le società umane - è regolato da un ordine o da una legge fondamentale (dharma) che bisogna rispettare per non provocare gravi squilibri. Il dharma definisce perciò gli obblighi socio-religiosi dell’uomo. Nella sua specificità, l’insegnamento morale dell’induismo si comprende alla luce delle dottrine fondamentali delle Upanishads: la credenza in un ciclo indefinito di trasmigrazioni (samsāra), con l’idea che le azioni buone o cattive compiute nella vita presente (karman) hanno influenza sulle rinascite successive. Tali dottrine hanno importanti conseguenze sul comportamento nei confronti degli altri: implicano un alto grado di bontà e di tolleranza, il senso dell’azione disinteressata a beneficio degli altri, come pure la pratica della non-violenza (ahimsā). La principale corrente dell’induismo distingue due corpi di testi: šruti («ciò che è inteso», cioè la rivelazione) e smrti («ciò che si ricorda», cioè la tradizione). Le prescrizioni etiche si trovano soprattutto nella smrti, piú in particolare nei dharmaśāstra (i piú importanti dei quali sono i mānava dharmaśāstra o leggi di Manu, del 200-100 a.C.). Oltre al principio di base, secondo il quale «il costume immemorabile è la legge trascendente approvata dalla sacra scrittura e dai codici dei divini legislatori; perciò ogni uomo delle tre classi principali, che rispetta lo spirito supremo che è in lui, deve sempre conformarsi diligentemente al costume immemorabile» (8), vi si trova un equivalente pratico della regola d’oro: «Ti dirò ciò che è l’essenza del piú grande bene dell’essere umano. L’uomo che pratica la religione (dharma) del non-nuocere (ahimsā) universale acquista il piú grande Bene. Quest’uomo che si domina nelle tre passioni, la cupidigia, la collera e l’avarizia, rinunciandovi in rapporto agli esseri, acquisisce il successo. [...] Quest’uomo che considera tutte le creature come il proprio “se stesso” e li tratta come il proprio “sé”, deponendo la verga punitiva e dominando completamente la sua collera, si assicurerà il possesso della felicità. [...] Non farà all’altro ciò che si considera nocivo per se stesso. È insomma la regola della virtú. [...] Nel fatto di rifiutare e di dare, nell’abbondanza e nell’infelicità, nel gradevole e nello sgradevole, si giudicherà di tutte le conseguenze considerando il proprio “sé”» (9). Diversi precetti della tradizione indú si possono mettere in parallelo con le esigenze del Decalogo (10).

14. Generalmente si definisce il buddismo con le quattro «nobili verità» insegnate da Buddha dopo la sua illuminazione: 1) la realtà è sofferenza e insoddisfazione; 2) l’origine della sofferenza è il desiderio; 3) la cessazione della sofferenza è possibile (con l’estinzione del desiderio); 4) c’è una via che conduce alla cessazione della sofferenza. Questa via è il «nobile ottuplice sentiero» che consiste nella pratica della disciplina, della concentrazione e della sapienza. Sul piano etico le azioni favorevoli si possono riassumere nei cinque precetti (śīla, sīla): 1) non nuocere agli esseri viventi e non togliere la vita; 2) non prendere ciò che non è dato; 3) non avere una condotta sessuale scorretta; 4) non usare parole false o menzognere; 5) non ingerire prodotti intossicanti che diminuiscono il dominio di sé. Il profondo altruismo della tradizione buddista, che si traduce in un atteggiamento deliberato di non-violenza, con la benevolenza amichevole e la compassione, raggiunge cosí la regola d’oro.

15. La civiltà cinese è profondamente segnata dal taoismo di Laozi o Lao-Tse (VI sec. a.C.). Secondo Lao-Tse, la Via o Dào è il principio primordiale, immanente a tutto l’universo. È un principio inafferrabile di cambiamento permanente sotto l’azione di due poli contrari e complementari: lo yīn e lo yáng. Spetta all’uomo sposare tale processo naturale di trasformazione, lasciarsi andare al flusso del tempo, grazie all’atteggiamento di non-azione (wú-wéi). La ricerca dell’armonia con la natura, indissociabilmente materiale e spirituale, è dunque al cuore dell’etica taoista. Quanto a Confucio (571-479 a.C.), («Maestro Kong»), in occasione di un periodo di crisi profonda egli tenta di restaurare l’ordine con il rispetto dei riti, fondato sulla pietà filiale che dev’essere al cuore di ogni vita sociale. Infatti le relazioni sociali si modellano sulle relazioni familiari. L’armonia si ottiene con un’etica della giusta misura, in cui la relazione ritualizzata (il li), che inserisce l’essere umano nell’ordine naturale, è la misura di tutte le cose. L’ideale da raggiungere è il ren, virtú perfetta di umanità, fatta di dominio di sé e di benevolenza verso gli altri. «“Mansuetudine” (shú) non è forse la parola chiave? Ciò che tu non vorresti fosse fatto a te, non infliggerlo agli altri» (11). La pratica di questa regola indica la via del Cielo (Tiān Dào).

16. Nelle tradizioni africane, la realtà fondamentale è la stessa vita. Essa è il bene piú prezioso, e l’ideale dell’uomo consiste non solo nel vivere al riparo delle preoccupazioni fino alla vecchiaia, ma soprattutto nel rimanere, anche dopo la morte, una forza vitale continuamente rafforzata nella e con la sua progenie. Infatti la vita è un’esperienza drammatica. L’essere umano, microcosmo all’interno del macrocosmo, vive intensamente il dramma dello scontro fra la vita e la morte. La missione che gli compete, di assicurare la vittoria della vita sulla morte, orienta e determina il suo agire etico. Cosí l’uomo deve identificare, in un orizzonte etico conseguente, gli alleati della vita, guadagnarli alla sua causa e cosí assicurare la propria sopravvivenza che è al tempo stesso la vittoria della vita. Questo è il significato profondo delle religioni tradizionali africane. L’etica africana si rivela cosí come un’etica antropocentrica e vitale: gli atti ritenuti suscettibili di favorire lo schiudersi della vita, di conservarla, di proteggerla, di svilupparla o di accrescere il potenziale vitale della comunità sono perciò considerati buoni; ogni atto considerato dannoso alla vita degli individui o della comunità è giudicato cattivo. Le religioni tradizionali africane appaiono cosí essenzialmente antropocentriche, ma un’osservazione attenta unita alla riflessione mostra che né il posto riconosciuto all’uomo vivo né il culto degli antenati costituiscono qualche cosa di chiuso. Le religioni tradizionali africane raggiungono il loro vertice in Dio, fonte della vita, creatore di tutto ciò che esiste.

17. L’islàm si considera la restaurazione della religione naturale originale. Vede in Maometto l’ultimo profeta inviato da Dio per ricondurre definitivamente gli uomini sulla retta via. Maometto però è stato preceduto da altri: «Non c’è comunità nella quale non sia passato un ammonitore» (12). L’islàm si attribuisce dunque una vocazione universale e si rivolge a tutti gli uomini, che sono considerati «naturalmente» musulmani. La legge islamica, indissolubilmente comunitaria, morale e religiosa, è intesa come una legge data direttamente da Dio. L’etica musulmana è dunque fondamentalmente una morale dell’obbedienza. Fare il bene significa obbedire ai comandamenti; fare il male significa disobbedire ad essi. La ragione umana interviene per riconoscere il carattere rivelato della Legge e ricavarne le implicazioni giuridiche concrete. Certo, nel IX secolo, la scuola mou’tazilita ha proclamato l’idea secondo la quale «il bene e il male sono nelle cose», cioè alcuni comportamenti sono buoni o cattivi in se stessi, anteriormente alla legge divina che li comanda o li proibisce. I mou’taziliti ritenevano che l’essere umano potesse conoscere con la ragione ciò che è buono o cattivo. Secondo loro, l’uomo sa spontaneamente che l’ingiustizia o la menzogna sono cattive, e che è obbligatorio restituire un prestito, allontanare da sé un danno, o mostrarsi riconoscenti verso i propri benefattori, il primo dei quali è Dio. Ma gli ach’ariti, che dominano nell’ortodossia sunnita, hanno sostenuto una teoria contraria. Fautori di un occasionalismo che non riconosce alcuna consistenza alla natura, ritengono che soltanto la rivelazione positiva di Dio definisca il bene e il male, il giusto e l’ingiusto. Tra le prescrizioni di questa legge divina positiva, molte riprendono i grandi elementi del patrimonio morale dell’umanità e si possono mettere in relazione con il Decalogo (13).

 

 

1.2. Le fonti greco-romane della legge naturale

18. L’idea che esista un diritto naturale anteriore alle determinazioni giuridiche positive si trova già nella cultura greca classica con la figura esemplare di Antigone, la figlia di Edipo. I suoi due fratelli, Eteocle e Polinice, si sono affrontati per il potere e si sono reciprocamente uccisi. Polinice, il ribelle, è condannato a rimanere insepolto e ad essere bruciato sul rogo. Ma Antigone, per adempiere al dovere della pietà verso il fratello morto, si appella contro il divieto di sepoltura pronunciato dal re Creonte, «alle leggi non scritte e immutabili».

 

Creonte: E cosí, tu hai osato violare le mie leggi?

Antigone: Sí, perché non le ha proclamate Zeus

Né la Giustizia che abita con gli dèi di quaggiú;

Né l’uno né l’altra le hanno stabilite tra gli uomini.

Io non ritengo che i tuoi decreti siano tanto forti

Che tu, mortale, possa passare oltre

Alle leggi non scritte e immutabili degli dèi.

Esse esistono non da oggi né da ieri, ma da sempre:

Nessuno sa quando sono apparse.

Per il timore delle volontà di un uomo

Non dovevo rischiare che gli dèi mi punissero (14).

 

19. Platone e Aristotele riprendono la distinzione operata dai sofisti tra le leggi che hanno origine in una convenzione, cioè una pura decisione positiva (thesis), e quelle che sono valide «per natura». Le prime non sono né eterne né valide in modo generale e non obbligano tutti. Le seconde obbligano tutti, sempre e dovunque (15). Alcuni sofisti, come Càllicle del Gorgia di Platone, ricorrevano a questa distinzione per contestare la legittimità delle leggi istituite dalle città umane. A tali leggi opponevano la loro idea, stretta ed erronea, della natura, ridotta alla sola componente fisica. Cosí, contro l’uguaglianza politica e giuridica dei cittadini nella Città, sostenevano ciò che sembrava loro la piú evidente delle «leggi naturali»: il piú forte deve spuntarla sul piú debole (16).

20. Niente di questo in Platone e Aristotele. Essi non oppongono diritto naturale e leggi positive della Città. Sono convinti che le leggi della Città sono generalmente buone e costituiscono l’attuazione, piú o meno riuscita, di un diritto naturale conforme alla natura delle cose. Per Platone il diritto naturale è un diritto ideale, una norma per i legislatori e per i cittadini, una regola che consente di fondare e di valutare le leggi positive (17). Per Aristotele questa norma suprema della moralità corrisponde alla realizzazione della forma essenziale della natura. È morale ciò che è naturale. Il diritto naturale è immutabile; il diritto positivo cambia secondo i popoli e le diverse epoche. Ma il diritto naturale non si colloca al di là del diritto positivo. Esso si incarna nel diritto positivo, che è l’applicazione dell’idea generale della giustizia alla vita sociale nella sua varietà.

21. Nello stoicismo la legge naturale diviene il concetto chiave di un’etica universalista. È buono e dev’essere compiuto ciò che corrisponde alla natura, compresa in un senso psico-biologico e insieme razionale. Ogni uomo, qualunque sia la nazione alla quale appartiene, deve integrarsi come una parte nel Tutto dell’universo. Deve vivere secondo la natura (18). Questo imperativo presuppone che esista una legge eterna, un Logos divino, il quale è presente sia nel cosmo, che essa impregna di razionalità, sia nella ragione umana. Cosí, per Cicerone la legge è «la ragione suprema inserita nella natura che ci comanda ciò che bisogna fare e ci proibisce il contrario» (19). Natura e ragione costituiscono le due fonti della nostra conoscenza della legge etica fondamentale, che è di origine divina.

 

 

1.3. L’insegnamento della Sacra Scrittura

22. Il dono della Legge sul Sinai, di cui le «Dieci Parole» costituiscono il centro, è un elemento essenziale dell’esperienza religiosa di Israele. Questa Legge di alleanza comporta precetti etici fondamentali. Essi definiscono il modo in cui il popolo eletto deve rispondere con la santità della vita alla scelta di Dio: «Parla a tutta la comunità degli israeliti dicendo loro: “Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo”» (Lv 19,2). Ma questi comportamenti etici valgono anche per gli altri popoli, tanto che Dio chiede conto alle nazioni straniere che violano la giustizia e il diritto (20). Infatti Dio aveva già stabilito nella persona di Noè un’alleanza con la totalità del genere umano, che implicava in particolare il rispetto della vita (Gn 9) (21). Piú fondamentalmente, la creazione stessa appare come l’atto con cui Dio struttura l’insieme dell’universo dandogli una legge. «Lodino [gli astri] il nome del Signore, perché al suo comando sono stati creati. Li ha resi stabili per sempre; ha fissato un decreto che non passerà» (Sal 148,5-6). Tale obbedienza delle creature alla legge di Dio è un modello per gli esseri umani.

23. Insieme ai testi che si riferiscono alla storia della salvezza, con i maggiori temi teologici dell’elezione, della promessa, della Legge e dell’alleanza, la Bibbia contiene anche una letteratura di sapienza che non tratta direttamente della storia nazionale di Israele, ma che si interessa del posto dell’uomo nel mondo. Essa sviluppa la convinzione che c’è un modo corretto, «sapiente», di fare le cose e di condurre la vita. L’essere umano deve impegnarsi a cercarlo e poi sforzarsi di metterlo in pratica. Questa sapienza non si trova sia nella storia sia nella natura e nella vita di tutti i giorni (22). In tale letteratura, la Sapienza è spesso presentata come una perfezione divina, talvolta ipostatizzata. Essa si manifesta in modo sorprendente nella creazione, di cui essa è «l’artefice» (Sap 7,21). L’armonia che regna tra le creature le rende testimonianza. Di tale sapienza che viene da Dio l’uomo è reso partecipe in diversi modi. Questa partecipazione è un dono di Dio, che bisogna chiedere nella preghiera: «Pregai e mi fu elargita la prudenza, implorai e venne a me lo spirito di sapienza» (Sap 7,7). Essa è ancora frutto dell’obbedienza alla Legge rivelata. Infatti la Torah è come l’incarnazione della sapienza. «Se desideri la sapienza, osserva i comandamenti e il Signore te la concederà. Il timore del Signore è sapienza e istruzione» (Sir 1,26-27). Ma la sapienza è anche il risultato di una sagace osservazione della natura e dei costumi umani al fine di scoprire la loro intelligibilità immanente e il loro valore esemplare (23).

24. Nella pienezza dei tempi, Gesú Cristo ha predicato l’avvento del Regno come manifestazione dell’amore misericordioso di Dio, che si rende presente tra gli uomini attraverso la propria persona e chiede da parte loro una conversione e una libera risposta d’amore. Questa predicazione non è senza conseguenze sull’etica, sul modo di costruire il mondo e le relazioni umane. Nel suo insegnamento morale, del quale il discorso della montagna è un’ammirevole sintesi, Gesú riprende da parte sua la regola d’oro: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti» (Mt 7,12) (24). Questo precetto positivo completa la formulazione negativa della stessa regola nell’Antico Testamento: «Non fare a nessuno ciò che non vuoi che sia fatto a te» (Tb 4,15) (25).

25. All’inizio della Lettera ai Romani, l’apostolo Paolo, con l’intento di manifestare la necessità universale della salvezza portata da Cristo, descrive la situazione religiosa e morale comune a tutti gli uomini. Egli afferma la possibilità di una conoscenza naturale di Dio: «Ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha manifestato a loro. Infatti le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute» (Rm 1,19-20) (26). Ma tale conoscenza si è pervertita in idolatria. Ponendo sullo stesso piano giudei e pagani, san Paolo afferma l’esistenza di una legge morale non scritta, che è inscritta nei loro cuori (27). Essa consente di discernere da se stessi il bene e il male. «Quando i pagani, che non hanno la Legge, per natura agiscono secondo la Legge, essi, pur non avendo Legge, sono legge a se stessi. Essi dimostrano che quanto la Legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che ora li accusano, ora li difendono» (Rm 2,14-15). La conoscenza della legge però non basta da sé per condurre una vita giusta (28). Questi testi di san Paolo hanno avuto un’influenza determinante sulla riflessione cristiana relativa alla legge naturale.

 

 

1.4. Gli sviluppi della tradizione cristiana

26. Per i Padri della Chiesa il sequi naturam e la sequela Christi non si oppongono. Al contrario, essi adottano generalmente l’idea stoica secondo la quale la natura e la ragione ci indicano quali sono i nostri doveri morali. Seguirle è seguire il Logos personale, il Verbo di Dio. Infatti la dottrina della legge naturale fornisce una base per completare la morale biblica. Essa inoltre consente di spiegare perché i pagani, indipendentemente dalla rivelazione biblica, possiedono una concezione morale positiva. Questa è indicata loro dalla natura e corrisponde all’insegnamento della Rivelazione: «Da Dio sono la legge della natura e la legge della rivelazione, che fanno un tutt’uno» (29). Tuttavia i Padri della Chiesa non adottano puramente e semplicemente la dottrina stoica, ma la modificano e la sviluppano. Da una parte, l’antropologia di ispirazione biblica che vede l’uomo come l’imago Dei, la cui piena verità è manifestata in Cristo, vieta di ridurre la persona umana a un semplice elemento del cosmo: chiamata alla comunione con il Dio vivente, essa trascende il cosmo pur integrandosi in esso. D’altra parte, l’armonia della natura e della ragione non si fonda piú sulla visione immanentista di un cosmo panteista, ma sul comune riferimento alla sapienza trascendente del Creatore. Comportarsi in modo conforme alla ragione significa seguire gli orientamenti che Cristo, come Logos divino, ha deposto grazie ai logoi spermatikoi nella ragione umana. Agire contro la ragione è una colpa contro questi orientamenti. È molto significativa la definizione di sant’Agostino: «La legge eterna è la ragione divina o la volontà di Dio, che ordina di conservare l’ordine naturale e proibisce di turbarlo» (30). Piú precisamente, per sant’Agostino le norme della vita retta e della giustizia sono espresse nel Verbo di Dio, che le imprime poi nel cuore dell’uomo «alla maniera di un sigillo che da un anello passa alla cera, ma senza lasciare l’anello» (31). Inoltre, nei Padri la legge naturale è ormai compresa nell’ambito di una storia della salvezza che conduce a distinguere diversi stati della natura (natura originale, natura decaduta, natura restaurata), nei quali la legge naturale si realizza in modi diversi. La dottrina patristica della legge naturale è stata trasmessa al Medioevo, insieme alla concezione, molto vicina, del «diritto delle genti (ius gentium)», secondo la quale esistono, fuori del diritto romano (ius civile), princípi universali di diritto che regolano le relazioni tra i popoli e sono obbligatori per tutti (32).

27. Nel Medioevo la dottrina della legge naturale raggiunge una certa maturità e assume una forma «classica», che costituisce il sottofondo di tutte le discussioni ulteriori. Essa si caratterizza per quattro elementi. In primo luogo, in conformità con la natura del pensiero scolastico che cerca di raccogliere la verità dovunque si trovi, assume le riflessioni anteriori sulla legge naturale, pagane o cristiane, e tenta di proporne una sintesi. In secondo luogo, in conformità con la natura sistematica del pensiero scolastico, colloca la legge naturale in un quadro metafisico e teologico generale. La legge naturale è intesa come partecipazione della creatura razionale alla legge divina eterna, grazie alla quale entra in modo consapevole e libero nei disegni della Provvidenza. Non è un insieme chiuso e completo di norme morali, ma una fonte di ispirazione costante, presente e operante nelle diverse tappe dell’economia della salvezza. In terzo luogo, con la presa di coscienza della densità propria della natura, che è in parte legata alla riscoperta del pensiero di Aristotele, la dottrina scolastica della legge naturale considera l’ordine etico e politico come un ordine razionale, opera dell’intelligenza umana. Definisce per essa uno spazio di autonomia, una distinzione senza separazione, in rapporto all’ordine della rivelazione religiosa (33). Infine, agli occhi dei teologi e dei giuristi scolastici, la legge naturale costituisce un punto di riferimento e un criterio alla luce del quale essi valutano la legittimità delle leggi positive e dei costumi particolari.

 

 

1.5. Evoluzioni ulteriori

28. La storia moderna dell’idea della legge naturale si presenta per certi aspetti come un legittimo sviluppo dell’insegnamento della scolastica medievale in un contesto culturale piú complesso, segnato in particolare da un senso piú vivo della soggettività morale. Tra questi sviluppi, segnaliamo l’opera dei teologi spagnoli del XVI secolo che, alla maniera del domenicano Francesco de Vitoria, sono ricorsi alla legge naturale per contestare l’ideologia imperialista di alcuni Stati cristiani d’Europa e per difendere i diritti dei popoli non cristiani d’America. Infatti tali diritti sono inerenti alla natura umana e non dipendono dalla situazione concreta nei confronti della fede cristiana. L’idea di legge naturale ha inoltre consentito ai teologi spagnoli di porre le basi di un diritto internazionale, cioè di una norma universale che regoli le relazioni dei popoli e degli Stati tra loro.

29. Ma, per altri aspetti, nell’epoca moderna l’idea della legge naturale ha assunto orientamenti e forme che contribuiscono a renderla difficilmente accettabile oggi. Negli ultimi secoli del Medioevo, si è sviluppata nella scolastica una corrente volontarista, la cui egemonia culturale ha modificato profondamente l’idea di legge naturale. Il volontarismo si propone di valorizzare la trascendenza del soggetto libero in rapporto a tutti i condizionamenti. Contro il naturalismo, che tendeva ad assoggettare Dio alle leggi della natura, sottolinea unilateralmente l’assoluta libertà di Dio, con il rischio di comprometterne la sapienza e di renderne arbitrarie le decisioni. Inoltre, contro l’intellettualismo, sospettato di assoggettare la persona umana all’ordine del mondo, esalta una libertà di indifferenza intesa come puro potere di scegliere i contrari, con il rischio di staccare la persona dalle sue inclinazioni naturali e dal bene oggettivo (34).

30. Le conseguenze del volontarismo sulla dottrina della legge naturale sono numerose. Anzitutto, mentre in Tommaso d’Aquino la legge è intesa come opera di ragione ed espressione di una sapienza, il volontarismo conduce a legare la legge alla sola volontà, e ad una volontà staccata dal suo ordinamento intrinseco al bene. Allora tutta la forza della legge risiede nella sola volontà del legislatore. La legge è cosí espropriata della sua intelligibilità intrinseca. In tali condizioni, la morale si riduce all’obbedienza ai comandamenti, che manifestano la volontà del legislatore. Thomas Hobbes dichiarerà quindi: «È l’autorità e non la verità che fa la legge (auctoritas, non veritas, facit legem)» (35). L’uomo moderno, amante dell’autonomia, non poteva non insorgere contro una tale visione della legge. Poi, con il pretesto di preservare l’assoluta sovranità di Dio sulla natura, il volontarismo priva questa di ogni intelligibilità interna. La tesi della potentia Dei absoluta, secondo la quale Dio potrebbe agire indipendentemente dalla sua sapienza e dalla sua bontà, relativizza tutte le strutture intelligibili esistenti e indebolisce la conoscenza naturale che l’uomo ne può avere. La natura cessa di essere un criterio per conoscere la sapiente volontà di Dio: l’uomo può ricevere tale conoscenza soltanto da una rivelazione.

31. D’altra parte, parecchi fattori hanno condotto alla secolarizzazione della nozione di legge naturale. Tra questi, si può ricordare il crescente divorzio tra la fede e la ragione che caratterizza la fine del Medioevo, o ancora alcuni aspetti della Riforma (36), ma soprattutto la volontà di superare i violenti conflitti religiosi che hanno insanguinato l’Europa all’alba dei tempi moderni. Si è giunti a voler fondare l’unità politica delle comunità umane mettendo tra parentesi la confessione religiosa. Ormai la dottrina della legge naturale prescinde da ogni rivelazione religiosa particolare, e dunque da ogni teologia confessante. Essa pretende di fondarsi unicamente sui lumi della ragione comune a tutti gli uomini e si presenta come la norma ultima nel campo secolare.

32. Inoltre, il razionalismo moderno pone l’esistenza di un ordine assoluto e normativo delle essenze intelligibili accessibile alla ragione e insieme relativizza il riferimento a Dio come fondamento ultimo della legge naturale. L’ordine necessario, eterno e immutabile delle essenze dev’essere certamente attualizzato dal Creatore, ma, si crede, possiede già in se stesso la sua coerenza e la sua razionalità. Il riferimento a Dio dev’essere dunque opzionale. La legge naturale si imporrebbe a tutti «anche se Dio non esistesse (etsi Deus non daretur)» (37).

33. Il modello razionalista moderno della legge naturale è caratterizzato: 1) dalla credenza essenzialista in una natura umana immutabile e a-storica, di cui la ragione può cogliere perfettamente la definizione e le proprietà essenziali; 2) dal mettere tra parentesi la situazione concreta delle persone umane nella storia della salvezza, segnata dal peccato e dalla grazia, la cui influenza sulla conoscenza e sulla pratica della legge naturale è però decisiva; 3) dall’idea che è possibile per la ragione dedurre a priori i precetti della legge naturale a partire dalla definizione dell’essenza dell’essere umano; 4) dalla massima estensione data ai princípi cosí dedotti, tanto che la legge naturale appare come un codice di leggi già fatte che regola la quasi-totalità dei comportamenti. Questa tendenza a estendere il campo delle determinazioni della legge naturale è stata all’origine di una grave crisi quando, in particolare con il progresso delle scienze umane, il pensiero occidentale ha preso maggiormente coscienza della storicità delle istituzioni umane e della relatività culturale di numerosi comportamenti che a volte si giustificavano richiamandosi all’evidenza della legge naturale. Questo scarto tra una teoria massimalista e la complessità dei dati empirici spiega in parte la disaffezione per l’idea stessa di legge naturale. Perché la nozione di legge naturale possa servire all’elaborazione di un’etica universale in una società secolarizzata e pluralista come la nostra, bisogna dunque evitare di presentarla nella forma rigida che ha assunto, in particolare nel razionalismo moderno.

 

 

1.6. Il magistero della Chiesa e la legge naturale

34. Prima del XIII secolo, poiché la distinzione tra l’ordine naturale e quello soprannaturale non era chiaramente elaborata, la legge naturale era generalmente assimilata alla morale cristiana. Cosí il decreto di Graziano, che fornisce la norma canonica di base nel XII secolo, inizia affermando: «La legge naturale è ciò che è contenuto nella Legge e nel Vangelo». Identifica poi il contenuto della legge naturale con la regola d’oro e precisa che le leggi divine corrispondono alla natura (38). I Padri della Chiesa sono dunque ricorsi alla legge naturale e alla Sacra Scrittura per fondare il comportamento morale dei cristiani, ma il magistero della Chiesa, nei primi tempi, ebbe poco da intervenire per troncare le dispute sul contenuto della legge morale.

Quando il magistero della Chiesa fu condotto non solo a risolvere discussioni morali particolari, ma anche a giustificare la propria posizione di fronte a un mondo secolarizzato, si richiamò piú esplicitamente alla nozione di legge naturale. Nel XIX secolo, specialmente sotto il pontificato di Leone XIII, il ricorso alla legge naturale si impone negli atti del magistero. La presentazione piú esplicita si trova nell’enciclica Libertas praestantissimum (1888). Leone XIII si riferisce alla legge naturale per identificare la fonte dell’autorità civile e fissarne i limiti. Ricorda con forza che bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini quando le autorità civili comandano e riconoscono qualche cosa che è contrario alla legge divina o alla legge naturale. Ma ricorre pure alla legge naturale per proteggere la proprietà privata contro il socialismo o ancora per difendere il diritto dei lavoratori a procurarsi con il lavoro ciò che è necessario per il sostentamento della loro vita. In questa stessa linea, Giovanni XXIII si riferisce alla legge naturale per fondare i diritti e i doveri dell’uomo (enciclica Pacem in terris [1963]). Con Pio XI (enciclica Casti connubii [1930]) e Paolo VI (enciclica Humanae vitae [1968]), la legge naturale si rivela un criterio decisivo nelle questioni relative alla morale coniugale. Certamente, la legge naturale è di diritto accessibile alla ragione umana, comune ai credenti e ai non credenti, e la Chiesa non ne ha l’esclusiva, ma, poiché la Rivelazione assume le esigenze della legge naturale, il magistero della Chiesa ne è costituito il garante e l’interprete (39). Il Catechismo della Chiesa Cattolica (1992) e l’enciclica Veritatis splendor (1993) assegnano un posto determinante alla legge naturale nell’esposizione della morale cristiana (40).

35. Oggi la Chiesa cattolica invoca la legge naturale in quattro contesti principali. In primo luogo, dinanzi al dilagare di una cultura che limita la razionalità alle scienze positive e abbandona al relativismo la vita morale, insiste sulla capacità naturale che hanno gli uomini di cogliere con la ragione «il messaggio etico contenuto nell’essere» (41) e di conoscere nelle loro grandi linee le norme fondamentali di un agire giusto conforme alla loro natura e alla loro dignità. La legge naturale risponde cosí all’esigenza di fondare sulla ragione i diritti dell’uomo (42) e rende possibile un dialogo interculturale e interreligioso in grado di favorire la pace universale e di evitare lo «scontro delle civiltà». In secondo luogo, dinanzi all’individualismo relativista, il quale ritiene che ogni individuo sia la fonte dei propri valori e che la società risulti da un puro contratto stipulato tra individui che scelgono di fissarne essi stessi tutte le norme, ricorda il carattere non convenzionale ma naturale e oggettivo delle norme fondamentali che regolano la vita sociale e politica. In particolare, la forma democratica di governo è intrinsecamente legata a valori etici stabili, che hanno la fonte nelle esigenze della legge naturale e quindi non dipendono dalle fluttuazioni del consenso di una maggioranza aritmetica. In terzo luogo, dinanzi a un laicismo aggressivo che vuole escludere i credenti dal pubblico dibattito, la Chiesa fa notare che gli interventi dei cristiani nella vita pubblica, su argomenti che riguardano la legge naturale (difesa dei diritti degli oppressi, giustizia nelle relazioni internazionali, difesa della vita e della famiglia, libertà religiosa e libertà di educazione...), non sono di per sé di natura confessionale, ma derivano dalla cura che ogni cittadino deve avere per il bene comune della società. In quarto luogo, dinanzi alle minacce di abuso del potere, e anche di totalitarismo, che il positivismo giuridico nasconde e che certe ideologie trasmettono, la Chiesa ricorda che le leggi civili non obbligano in coscienza quando sono in contraddizione con la legge naturale, e chiede il riconoscimento dell’obiezione di coscienza, come pure il dovere della disobbedienza in nome dell’obbedienza a una legge piú alta (43). Il riferimento alla legge naturale non solo non produce il conformismo, ma garantisce la libertà personale e difende gli emarginati e gli oppressi da strutture sociali dimentiche del bene comune.

 

 

Capitolo secondo: la percezione dei valori morali

36. L’esame delle grandi tradizioni di sapienza morale condotto nel capitolo primo mostra che alcuni tipi di comportamenti umani sono riconosciuti, nella maggior parte delle culture, come espressione di una certa eccellenza nel modo in cui l’essere umano vive e realizza la propria umanità: atti di coraggio, pazienza nelle prove e nelle difficoltà della vita, compassione per i deboli, moderazione nell’uso dei beni materiali, atteggiamento responsabile nei confronti dell’ambiente, dedizione al bene comune... Tali comportamenti etici definiscono le grandi linee di un ideale propriamente morale di una vita «secondo natura», cioè conforme all’essere profondo del soggetto umano. D’altra parte, alcuni comportamenti sono universalmente riconosciuti come oggetto di riprovazione: uccisione, furto, menzogna, collera, cupidigia, avarizia... Questi appaiono come attentati alla dignità della persona umana e alle giuste esigenze della vita in società. Si è giustificati dunque nel vedere, attraverso tali consensi, una manifestazione di ciò che, al di là delle diverse culture, è l’umano nell’essere umano, cioè la «natura umana». Ma, al tempo stesso, si deve constatare che tale accordo sulla qualità morale di alcuni comportamenti coesiste con una grande varietà di teorie esplicative. Si tratti delle dottrine fondamentali degli Upanishads per l’induismo, o delle quattro «nobili verità» per il buddismo, o del Dào di Lao-Tse, o della «natura» degli stoici, ogni sapienza o ogni sistema filosofico comprende l’agire morale all’interno di un quadro esplicativo generale che intende legittimare la distinzione tra ciò che è bene e ciò che è male. Abbiamo a che fare con una varietà di giustificazioni che rende difficile il dialogo e la fondazione di norme morali.

37. Tuttavia, indipendentemente dalle giustificazioni teoriche del concetto di legge naturale, è possibile scoprire i dati immediati della coscienza di cui esso vuole rendere conto. L’oggetto di questo capitolo è precisamente mostrare come si colgano i valori morali comuni che costituiscono la legge naturale. Vedremo poi come il concetto di legge naturale si basi su un quadro esplicativo che fonda e legittima i valori morali, in modo da poter essere condiviso da molti. Per fare questo, appare particolarmente pertinente la presentazione della legge naturale in san Tommaso d’Aquino, perché, fra l’altro, colloca la legge naturale all’interno di una morale che sostiene la dignità della persona umana e riconosce la sua capacità di discernimento (44).

 

 

2.1. Il ruolo della società e della cultura

38. La persona umana soltanto progressivamente accede all’esperienza morale e diventa capace di dare a se stessa i precetti che devono guidare il suo agire. Vi giunge nella misura in cui, fin dalla nascita, è stata inserita in una rete di relazioni umane, a cominciare dalla famiglia, che le hanno consentito, a poco a poco, di prendere coscienza di se stessa e del reale che la circonda. Ciò avviene in particolare con l’apprendimento di una lingua - la lingua materna - che insegna a nominare le cose e consente di diventare un soggetto consapevole di sé. Orientata dalle persone che la circondano, impregnata dalla cultura in cui è immersa, la persona riconosce certi modi di comportarsi e di pensare come valori da perseguire, leggi da osservare, esempi da imitare, visioni del mondo da accogliere. Il contesto sociale e culturale esercita dunque un ruolo decisivo nell’educazioni ai valori morali. Tuttavia non si possono opporre tali condizionamenti alla libertà umana. Questi piuttosto la rendono possibile, perché attraverso di essi la persona può accedere all’esperienza morale, che eventualmente le consentirà di rivedere alcune delle «evidenze» che aveva interiorizzato nel corso del suo apprendistato morale. D’altra parte, nel contesto della globalizzazione attuale, le società e le culture stesse devono inevitabilmente praticare un dialogo e uno scambio sinceri, fondati sulla corresponsabilità di tutti nei confronti del bene comune del pianeta: devono lasciare da parte gli interessi particolari per accedere ai valori morali che tutti sono chiamati a condividere.

 

 

2.2. L’esperienza morale: «Bisogna fare il bene»

39. Ogni essere umano che accede alla coscienza e alla responsabilità fa l’esperienza di una chiamata interiore a compiere il bene. Scopre di essere fondamentalmente un essere morale, capace di percepire e di esprimere il richiamo che, come si è visto, si trova all’interno di tutte le culture: «Bisogna fare il bene ed evitare il male». Su tale precetto si fondano tutti gli altri precetti della legge naturale (45). Questo primo precetto è conosciuto naturalmente, immediatamente, con la ragione pratica, cosí come il principio di non contraddizione (l’intelligenza non può, simultaneamente e sotto il medesimo aspetto, affermare e negare una cosa di un soggetto), che è alla base di ogni ragionamento speculativo, è colto intuitivamente, naturalmente, con la ragione teorica, quando il soggetto comprende il senso dei termini usati. Tradizionalmente, tale conoscenza del principio primo della vita morale è attribuita a una disposizione intellettuale innata che si chiama la sinderesi (46).

40. Con questo principio, ci collochiamo immediatamente nell’ambito della moralità. Il bene che cosí si impone alla persona è infatti il bene morale, cioè un comportamento che, superando le categorie dell’utile, va nel senso della realizzazione autentica di quell’essere, insieme uno e diversificato, che è la persona umana. L’attività umana è irriducibile a una semplice questione di adattamento all’«ecosistema»: essere umano significa esistere e collocarsi all’interno di un quadro piú ampio che definisce un senso, valori e responsabilità. Ricercando il bene morale, la persona contribuisce alla realizzazione della sua natura, al di là degli impulsi dell’istinto o della ricerca di un piacere particolare. Questo bene rende testimonianza a se stesso ed è compreso a partire da se stesso (47).

41. Il bene morale corrisponde al desiderio profondo della persona umana che - come ogni essere - tende spontaneamente, naturalmente, verso ciò che la realizza pienamente, verso ciò che le consente di raggiungere la perfezione che le è propria, la felicità. Purtroppo il soggetto può sempre lasciarsi trascinare da desideri particolari e scegliere beni o porre gesti che vanno contro il bene morale che riconosce. Può rifiutare di superarsi. È il prezzo di una libertà limitata in se stessa e indebolita dal peccato, una libertà che incontra soltanto beni particolari, nessuno dei quali può soddisfare pienamente il cuore dell’essere umano. Spetta alla ragione del soggetto esaminare se questi beni particolari possono integrarsi nella realizzazione autentica della persona: in tal caso saranno giudicati moralmente buoni e, in caso contrario, moralmente cattivi.

42. Quest’ultima affermazione è capitale. Fonda la possibilità di un dialogo con le persone appartenenti ad altri orizzonti culturali o religiosi. Valorizza l’eminente dignità di ogni persona umana sottolineandone la naturale disposizione a conoscere il bene morale che deve compiere. Come ogni creatura, la persona umana si definisce con un fascio di dinamismi e di finalità che è anteriore alle libere scelte della volontà. Ma, a differenza degli esseri che non sono dotati di ragione, essa è capace di conoscere e di interiorizzare tali finalità e, quindi, di valutare, in funzione di esse, ciò che per lei è buono o cattivo. Cosí riconosce la legge eterna, cioè il piano di Dio sul creato, e partecipa alla provvidenza di Dio in modo particolarmente eccellente, guidando se stesso e guidando gli altri (48). Questa insistenza sulla dignità del soggetto morale e sulla sua relativa autonomia si fonda sul riconoscimento dell’autonomia delle realtà create e raggiunge un dato fondamentale della cultura contemporanea (49).

43. L’obbligo morale che il soggetto riconosce non proviene dunque da una legge che gli sarebbe esteriore (pura eteronomia), ma si afferma a partire da lui stesso. Infatti, come indica la massima che abbiamo citato - «Bisogna fare il bene ed evitare il male» -, il bene morale determinato dalla ragione «si impone» al soggetto. Esso «deve» essere compiuto. Riveste un carattere di obbligazione e di legge. Ma il termine «legge» qui non rinvia né alle leggi scientifiche, che si limitano a descrivere le costanti di fatto del mondo fisico o sociale, né a un imperativo imposto arbitrariamente dall’esterno al soggetto morale. La legge designa qui un orientamento della ragione pratica che indica al soggetto morale quale tipo di agire sia conforme al dinamismo innato e necessario del suo essere che tende alla sua piena realizzazione. Questa legge è normativa in virtú di un’esigenza interna allo spirito. Essa nasce dal cuore stesso del nostro essere come un invito alla realizzazione e al superamento di sé. Non si tratta dunque di sottomettersi alla legge di un altro, ma di accogliere la legge del proprio essere.

 

 

2.3. La scoperta dei precetti della legge naturale: universalità della legge naturale

44. Una volta posta l’affermazione di base che introduce nell’ordine morale - «Bisogna fare il bene ed evitare il male» - vediamo come avviene nel soggetto il riconoscimento delle leggi fondamentali che devono regolare l’agire umano. Tale riconoscimento non consiste in una considerazione astratta della natura umana, e neppure nello sforzo di concettualizzazione, che poi sarà proprio della teorizzazione filosofica e teologica. La percezione dei beni morali fondamentali è immediata, vitale, fondata sulla connaturalità dello spirito con i valori e impegna sia l’affettività sia l’intelligenza, sia il cuore sia lo spirito. È un’acquisizione spesso imperfetta, ancora oscura e crepuscolare, ma che ha la profondità dell’immediatezza. Si tratta qui di dati dell’esperienza piú semplice e piú comune, che sono impliciti nell’agire concreto delle persone.

45. Nella sua ricerca del bene morale, la persona umana si mette in ascolto di ciò che essa è e prende coscienza delle inclinazioni fondamentali della sua natura, le quali sono altra cosa che semplici spinte cieche del desiderio. Avvertendo che i beni verso i quali tende per natura sono necessari alla sua realizzazione morale, formula a se stessa, sotto la forma di comandi pratici, il dovere morale di attuarli nella propria vita. Esprime a se stessa un certo numero di precetti molto generali che condivide con tutti gli esseri umani e che costituiscono il contenuto di quella che si chiama legge naturale.

46. Si distinguono tradizionalmente tre grandi insiemi di dinamismi naturali che agiscono nella persona umana (50). Il primo, che le è comune con ogni essere sostanziale, comprende essenzialmente l’inclinazione a conservare e a sviluppare la propria esistenza. Il secondo, che le è comune con tutti i viventi, comprende l’inclinazione a riprodursi per perpetuare la specie. Il terzo, che le è proprio come essere razionale, comporta l’inclinazione a conoscere la verità su Dio e a vivere in società. A partire da queste inclinazioni si possono formulare i precetti primi della legge naturale, conosciuti naturalmente. Tali precetti sono molto generali, ma formano come un primo substrato che è alla base di tutta la riflessione ulteriore sul bene da praticare e sul male da evitare.

47. Per uscire da questa generalità e chiarire le scelte concrete da fare, bisogna ricorrere alla ragione discorsiva, che determina quali sono i beni morali concreti in grado di realizzare la persona - e l’umanità - e formula precetti piú concreti capaci di guidare il suo agire. In questa nuova tappa la conoscenza del bene morale procede per ragionamento. Esso all’origine è molto semplice: gli è sufficiente una limitata esperienza di vita e si mantiene all’interno delle possibilità intellettuali di ciascuno. Si parla qui dei «precetti secondi» della legge naturale, scoperti grazie a una piú o meno lunga considerazione della ragione pratica, per contrasto con i precetti generali fondamentali che la ragione coglie spontaneamente e che sono chiamati «precetti primi» (51).

 

 

2.4. I precetti della legge naturale

48. Abbiamo identificato nella persona umana una prima inclinazione, che essa condivide con tutti gli esseri: l’inclinazione a conservare e a sviluppare la propria esistenza. Nei viventi c’è abitualmente una reazione spontanea dinanzi a una minaccia imminente di morte: si sfugge ad essa, si difende l’integrità della propria esistenza, si lotta per sopravvivere. La vita fisica appare naturalmente come un bene fondamentale, essenziale, primordiale: da qui il precetto di proteggere la propria vita. Sotto l’enunciazione della conservazione della vita si profilano inclinazioni verso tutto ciò che contribuisce, in modo proprio all’uomo, al mantenimento e alla qualità della vita biologica: integrità del corpo; uso dei beni esterni che assicurano la sussistenza e l’integrità della vita, come il nutrimento, il vestito, l’alloggio, il lavoro; la qualità dell’ambiente biologico... A partire da queste inclinazioni, l’essere umano si propone fini da realizzare, che contribuiscono allo sviluppo armonioso e responsabile del proprio essere e, quindi, gli appaiono come beni morali, valori da perseguire, obblighi da compiere e anche diritti da far valere. Infatti il dovere di preservare la propria vita ha come correlativo il diritto di esigere ciò che è necessario alla sua conservazione in un ambiente favorevole (52).

49. La seconda inclinazione, che è comune a tutti i viventi, riguarda la sopravvivenza della specie che si realizza con la procreazione. La generazione si inscrive nel prolungamento della tendenza a perseverare nell’essere. Se la perpetuità dell’esistenza biologica è impossibile all’individuo, è possibile per la specie e cosí, in una certa misura, si supera il limite inerente a ogni essere fisico. Il bene della specie appare cosí come una delle aspirazioni fondamentali presenti nella persona. Ne prendiamo coscienza in particolare nel nostro tempo, quando certe prospettive come il riscaldamento climatico ravvivano il nostro senso di responsabilità dinanzi al pianeta come tale e alla specie umana in particolare. Questa apertura a un certo bene comune della specie annuncia già alcune aspirazioni proprie dell’uomo. Il dinamismo verso la procreazione è intrinsecamente legato all’inclinazione naturale che conduce l’uomo verso la donna e la donna verso l’uomo, dato universale riconosciuto in tutte le società. Lo stesso avviene per l’inclinazione a prendersi cura dei figli e a educarli. Tali inclinazioni implicano che la permanenza della coppia dell’uomo e della donna e anche la loro fedeltà reciproca sono già valori da perseguire, anche se potranno manifestarsi pienamente soltanto nell’ordine spirituale della comunione interpersonale (53).

50. Il terzo insieme di inclinazioni è specifico dell’essere umano come essere spirituale, dotato di ragione, capace di conoscere la verità, di entrare in dialogo con gli altri e di stringere relazioni di amicizia. Perciò bisogna riconoscergli una particolare importanza. L’inclinazione a vivere in società deriva anzitutto dal fatto che l’essere umano ha bisogno degli altri per superare i propri limiti individuali intrinseci e raggiungere la maturità nei diversi ambiti della sua esistenza. Ma per manifestare pienamente la sua natura spirituale, ha bisogno di stringere con i suoi simili relazioni di amicizia generosa e di sviluppare un’intensa cooperazione per la ricerca della verità. Il suo bene integrale è cosí intimamente legato alla vita in comunità, che si organizza in società politica in forza di un’inclinazione naturale e non di una semplice convenzione (54). Il carattere relazionale della persona si esprime anche con la tendenza a vivere in comunione con Dio o l’Assoluto. Essa si manifesta nel sentimento religioso e nel desiderio di conoscere Dio. Certamente, può essere negata da coloro che rifiutano di ammettere l’esistenza di un Dio personale, ma rimane implicitamente presente nella ricerca della verità e del senso presente in ogni essere umano.

51. A queste tendenze specifiche dell’uomo corrisponde l’esigenza avvertita dalla ragione di realizzare concretamente questa vita di relazione e di costruire la vita in società su basi giuste che corrispondano al diritto naturale. Ciò implica il riconoscimento della pari dignità di ogni individuo della specie umana, al di là delle differenze di razza e di cultura, e un grande rispetto per l’umanità dove essa si trova, anche nel piú piccolo e nel piú disprezzato dei suoi membri. «Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te». Ritroviamo qui la regola d’oro, che oggi è posta come principio stesso di una morale della reciprocità. Il primo capitolo ci ha consentito di trovare la presenza di questa regola nella maggior parte delle sapienze come anche nel Vangelo stesso. San Girolamo manifestava l’universalità di parecchi precetti morali riferendosi a una formulazione negativa della regola d’oro. «È giusto il giudizio che Dio scrive nel cuore del genere umano: “Ciò che non vuoi sia fatto a te, non farlo ad altri”. Chi non sa che l’omicidio, l’adulterio, i furti e ogni tipo di cupidigia sono il male, poiché non vorremmo che ciò fosse fatto a noi? Se non sapessimo che queste cose sono cattive, non ci lamenteremmo mai quando ci sono inflitte» (55). Alla regola d’oro si collegano diversi comandamenti del Decalogo, come pure molti precetti buddisti, e anche molte delle regole confuciane, o ancora la maggior parte degli orientamenti delle grandi Carte che indicano i diritti della persona.

52. Al termine di questa rapida esposizione dei princípi morali che derivano dalla presa in considerazione, da parte della ragione, delle inclinazioni fondamentali della persona umana, siamo in presenza di un insieme di precetti e di valori che, almeno nella loro formulazione generale, si possono considerare come universali, poiché si applicano a tutta l’umanità. Essi inoltre rivestono un carattere di immutabilità nella misura in cui derivano da una natura umana le cui componenti essenziali rimangono identiche nel corso della storia. Tuttavia può accadere che siano oscurate o anche cancellate dal cuore umano a motivo del peccato e dei condizionamenti culturali e storici che possono influenzare negativamente la vita morale personale: ideologie e propagande insidiose, relativismo generalizzato, strutture di peccato (56)... Bisogna dunque essere modesti e prudenti quando si invoca l’«evidenza» dei precetti della legge naturale. Ma si deve ugualmente riconoscere in questi precetti il fondo comune su cui si può basare un dialogo in vista di un’etica universale. I protagonisti di questo dialogo però devono imparare a non considerare i propri interessi particolari per aprirsi ai bisogni degli altri e lasciarsi interpellare dai valori morali comuni. In una società pluralista, in cui è difficile intendersi sui fondamenti filosofici, questo dialogo è assolutamente necessario. La dottrina della legge naturale può portare il suo contributo a tale dialogo.

 

 

2.5. L’applicazione dei precetti comuni: storicità della legge naturale

53. È impossibile rimanere al livello generale che è quello dei princípi primi della legge naturale. Infatti la riflessione morale ha bisogno di calarsi nel concreto dell’azione per gettarvi la sua luce. Ma quanto piú affronta situazioni concrete, tanto piú le sue conclusioni sono caratterizzate da una nota di variabilità e di incertezza. Non è strano quindi che l’applicazione concreta dei precetti della legge naturale possa assumere forme differenti nelle diverse culture, o anche in epoche diverse all’interno di una stessa cultura. È sufficiente ricordare l’evoluzione della riflessione morale su questioni come la schiavitú, il prestito a interesse, il duello o la pena di morte. A volte, tale evoluzione conduce a una migliore comprensione della richiesta morale. A volta anche, l’evoluzione della situazione politica o economica conduce a una nuova valutazione di norme particolari che erano state stabilite precedentemente. Infatti la morale si occupa di realtà contingenti che si evolvono nel tempo. Benché sia vissuto in un’epoca di cristianità, un teologo come san Tommaso d’Aquino ne aveva una percezione molto netta. «La ragione pratica - scriveva nella Summa Theologiae - si occupa di realtà contingenti, nelle quali si attuano le azioni umane. Perciò, benché nei princípi generali ci sia qualche necessità, quanto piú si affrontano le cose particolari, tanto piú c’è indeterminazione [...]. Nell’ambito dell’azione la verità o la rettitudine pratica non sono le stesse in tutti nelle applicazioni particolari, ma soltanto nei princípi generali; e in coloro per i quali la rettitudine è identica nelle proprie azioni, essa non è conosciuta ugualmente da tutti. [...] E qui, quanto piú si scende nei particolari, tanto piú aumenta l’indeterminazione» (57).

54. Tale prospettiva rende conto della storicità della legge naturale, le cui applicazioni concrete possono variare nel tempo. Nello stesso tempo, apre una porta alla riflessione dei moralisti, invitando al dialogo e alla discussione. Questo è tanto piú necessario, perché in morale la pura deduzione per sillogismo non è adeguata. Quanto piú il moralista affronta situazioni concrete, tanto piú deve ricorrere alla sapienza dell’esperienza, un’esperienza che integra i contributi delle altre scienze e cresce al contatto con le donne e gli uomini impegnati nell’azione. Soltanto questa saggezza dell’esperienza consente di considerare la molteplicità delle circostanze e di giungere a un orientamento sul modo di compiere ciò che è bene hic et nunc. Il moralista (questa è la difficoltà del suo lavoro) deve ricorrere alle risorse combinate della teologia, della filosofia, come pure delle scienze umane, economiche e biologiche per riconoscere bene i dati della situazione e identificare correttamente le esigenze concrete della dignità umana. Al tempo stesso, egli dev’essere particolarmente attento a salvaguardare i dati di base espressi con i precetti della legge naturale che rimangono al di là delle variazioni culturali.

 

 

2.6. Le disposizioni morali della persona e il suo agire concreto

55. Per giungere a una giusta valutazione delle cose da fare, il soggetto morale dev’essere dotato di un certo numero di disposizioni interiori che gli consentano di essere aperto alle richieste della legge naturale e insieme ben informato sui dati della situazione concreta. Nel contesto del pluralismo, che è il nostro, siamo sempre piú consapevoli del fatto che non si può elaborare una morale fondata sulla legge naturale senza unirvi una riflessione sulle disposizioni interiori o virtú che rendono il moralista adatto a elaborare un’adeguata norma di azione. Ciò è ancora piú vero per il soggetto impegnato personalmente nell’azione e che deve formulare un giudizio di coscienza. Perciò non è strano che oggi si assista alla rinascita di una «morale delle virtú» ispirata alla tradizione aristotelica. Insistendo cosí sulle qualità morali richieste per una riflessione morale adeguata, si comprende il ruolo importante che le diverse culture attribuiscono alla figura del saggio. Egli gode di una particolare capacità di discernimento nella misura in cui possiede le disposizioni morali interiori che gli consentono di formulare un giudizio etico adeguato. Un discernimento di questo tipo deve caratterizzare il moralista quando si sforza di concretizzare i precetti della legge naturale, come pure ogni soggetto autonomo incaricato di fornire un giudizio di coscienza e di formulare la norma immediata e concreta della sua azione.

56. La morale non può dunque limitarsi a produrre norme. Deve anche favorire la formazione del soggetto, affinché questo, impegnato nell’azione, sia in grado di adattare i precetti universali della legge naturale alle condizioni concrete dell’esistenza nei diversi contesti culturali. Tale capacità è assicurata dalle virtú morali, in particolare dalla prudenza che integra la singolarità per guidare l’azione concreta. L’uomo prudente deve possedere non soltanto la conoscenza dell’universale ma anche quella del particolare. Per indicare bene il carattere proprio di questa virtú, san Tommaso d’Aquino non esita a dire: «Se non ha che una sola delle due conoscenze, è preferibile che questa sia la conoscenza delle realtà particolari che riguardano piú da vicino l’operare» (58). Con la prudenza si tratta di penetrare una contingenza che è sempre misteriosa per la ragione, di modellarsi sulla realtà nel modo piú esatto possibile, di assimilare la molteplicità delle circostanze, di registrare il piú fedelmente possibile una situazione originale e indescrivibile. Un tale obiettivo richiede diverse operazioni e abilità che la prudenza deve attuare.

57. Tuttavia l’individuo non deve perdersi nel concreto e nell’individuale, come è stato rimproverato all’«etica della situazione». Deve scoprire la «retta regola dell’agire» e stabilire un’adeguata norma di azione. Questa retta regola deriva da princípi preliminari. Si pensa qui ai princípi primi della ragione pratica, ma spetta anche alle virtú morali aprire e rendere connaturali la volontà e l’affettività sensibile ai diversi beni umani, e cosí indicare all’uomo prudente quali fini deve perseguire nel flusso del quotidiano. A questo punto l’individuo sarà in grado di formulare la norma concreta che si impone e di conferire all’azione data un raggio di giustizia, di forza o di temperanza. Si può parlare qui dell’esercizio di una «intelligenza emozionale»: le potenze razionali, senza perdere la loro specificità, si esercitano all’interno del campo affettivo, cosí che la totalità della persona è impegnata nell’azione morale.

58. La prudenza è indispensabile al soggetto morale a motivo della flessibilità richiesta dall’adattamento dei princípi morali universali alle diverse situazioni. Ma tale flessibilità non autorizza a vedere nella prudenza una sorta di facile compromesso nei confronti dei valori morali. Al contrario, proprio attraverso le decisioni della prudenza si esprimono per un soggetto le esigenze concrete della verità morale. La prudenza è un passaggio necessario per l’obbligo morale autentico.

59. C’è qui una prospettiva che, all’interno di una società pluralista come la nostra, riveste un’importanza che non si può sottostimare senza subirne notevoli danni. Infatti essa nasce dal fatto che la scienza morale non può fornire al soggetto agente una norma che si applichi adeguatamente e quasi automaticamente alla situazione concreta; soltanto la coscienza del soggetto, il giudizio della sua ragione pratica, può formulare la norma immediata dell’azione. Ma al tempo stesso essa non abbandona mai la coscienza alla sola soggettività: si apre alla verità morale in modo tale che il suo giudizio sia adeguato. La legge naturale non può dunque essere presentata come un insieme già costituito di regole che si impongono a priori al soggetto morale, ma è una fonte di ispirazione oggettiva per il suo processo, eminentemente personale, di presa di decisione.

 

 

Capitolo terzo: i fondamenti teorici della legge naturale

3.1. Dall’esperienza alla teoria

60. L’acquisizione spontanea dei valori etici fondamentali, che si esprimono nei precetti della legge naturale, costituisce il punto di partenza del processo che conduce poi il soggetto morale fino al giudizio di coscienza, nel quale enuncia quali sono le esigenze morali che gli si impongono nella sua situazione concreta. È compito del teologo e del filosofo riprendere questa esperienza dell’acquisizione dei princípi primi dell’etica, per provarne il valore e fondarla sulla ragione. Il riconoscimento di questi fondamenti filosofici o teologici non condiziona però l’adesione spontanea ai valori comuni. Infatti il soggetto morale può attuare praticamente gli orientamenti della legge naturale senza essere capace, a motivo di particolari condizionamenti intellettuali, di comprenderne esplicitamente i fondamenti teorici ultimi.

61. La giustificazione filosofica della legge naturale presenta due livelli di coerenza e di profondità. L’idea di una legge naturale si giustifica anzitutto sul piano dell’osservazione riflessa delle costanti antropologiche che caratterizzano una umanizzazione riuscita della persona e una vita sociale armoniosa. L’esperienza riflessa, veicolata dalle sapienze tradizionali, dalle filosofie o dalle scienze umane, consente di determinare alcune delle condizioni richieste perché ciascuno dimostri al meglio le proprie capacità umane nella sua vita personale e comunitaria (59). Cosí si riconosce che certi comportamenti esprimono un’esemplare eccellenza nel modo di vivere e di realizzare la propria umanità. Essi definiscono le grandi linee di un ideale propriamente morale di una vita virtuosa «secondo la natura», cioè in modo conforme alla natura profonda del soggetto umano (60).

62. Tuttavia, soltanto l’assunzione della dimensione metafisica del reale può dare alla legge naturale la sua piena e completa giustificazione filosofica. Infatti la metafisica consente di comprendere che l’universo non ha in se stesso la propria ragione ultima di essere e manifesta la struttura fondamentale del reale: la distinzione tra Dio, l’Essere stesso sussistente, e gli altri esseri posti da lui nell’esistenza. Dio è il Creatore, la fonte libera e trascendente di tutti gli altri esseri. Questi ricevono da lui, «con misura, calcolo e peso» (Sap 11,20), l’esistenza secondo una natura che li definisce. Le creature sono dunque l’epifania di una sapienza creatrice personale, di un Logos fondatore che si esprime e si manifesta in esse. «Ogni creatura è verbo divino, perché è parola di Dio», scrive san Bonaventura (61).

63. Il Creatore non è soltanto il principio delle creature ma anche il fine trascendente verso il quale esse tendono per natura. Cosí le creature sono animate da un dinamismo che le porta a realizzarsi, ciascuna a modo suo, nell’unione con Dio. Tale dinamismo è trascendente, nella misura in cui procede dalla legge eterna, cioè dal piano di provvidenza divino che esiste nello spirito del Creatore (62). Ma è anche immanente, perché non è imposto dall’esterno alle creature, ma è inscritto nella loro stessa natura. Le creature puramente materiali realizzano spontaneamente la legge del loro essere, mentre le creature spirituali la realizzano in modo personale. Infatti interiorizzano i dinamismi che le definiscono e li orientano liberamente verso la propria completa realizzazione. Li formulano a se stesse come norme fondamentali del loro agire morale - è la legge morale propriamente detta - e si sforzano di realizzarli liberamente. La legge naturale si definisce perciò come una partecipazione alla legge eterna (63). Essa è mediata, da una parte, dalle inclinazioni della natura, espressioni della sapienza creatrice, e, d’altra parte, dalla luce della ragione umana che le interpreta e che è essa stessa una partecipazione creata alla luce dell’intelligenza divina. L’etica si presenta cosí come una «teonomia partecipata» (64).

 

 

3.2. Natura, persona e libertà

64. La nozione di natura è particolarmente complessa e non è affatto univoca. In filosofia, il pensiero greco della physis gioca un ruolo accertato. In esso la natura designa il principio dell’identità ontologica specifica di un soggetto, cioè la sua essenza che si definisce con un insieme di caratteristiche intelligibili stabili. Tale essenza prende il nome di natura soprattutto quando è intesa come il principio interno del movimento che orienta il soggetto verso la sua realizzazione. La nozione di natura non rinvia a un dato statico, ma significa il principio dinamico reale dello sviluppo del soggetto e delle sue attività specifiche. La nozione di natura è stata formata anzitutto per pensare le realtà materiali e sensibili, ma non si limita a tale ambito «fisico» e si applica analogicamente alle realtà spirituali.

65. L’idea secondo la quale gli esseri possiedono una natura si impone allo spirito quando esso vuole rendere ragione della finalità immanente agli esseri e della regolarità che percepisce nei loro modi di agire e di reagire (65). Considerare gli esseri come nature significa riconoscere loro una consistenza propria e affermare che sono centri relativamente autonomi nell’ordine dell’essere e dell’agire, e non semplici illusioni o costruzioni temporanee della coscienza. Queste «nature» non sono però unità ontologiche chiuse in se stesse e semplicemente giustapposte le une alle altre. Esse agiscono le une sulle altre, intrattenendo fra loro complessi rapporti di causalità. Nell’ordine spirituale, le persone intrecciano relazioni intersoggettive. Le nature formano dunque una rete e, in ultima analisi, un ordine, cioè una serie unificata dal riferimento a un principio (66).

66. Con il cristianesimo, la physis degli antichi è ripensata e integrata in una visione piú ampia e piú profonda della realtà. Da una parte, il Dio della rivelazione cristiana non è una semplice componente dell’universo, un elemento del grande Tutto della natura. Al contrario, è il Creatore, trascendente e libero, dell’universo. Infatti l’universo finito non può fondare se stesso, ma punta verso il mistero di un Dio infinito, che per amore lo ha creato ex nihilo e dimora libero di intervenire nel corso della natura ogni volta che vuole. D’altra parte, il mistero trascendente di Dio si riflette nel mistero della persona umana come immagine di Dio. La persona umana è capace di conoscenza e di amore; è dotata di libertà, è capace di entrare in comunione con altri ed è chiamata da Dio a un destino che trascende le finalità della natura fisica. Essa si compie in una libera e gratuita relazione di amore con Dio che si realizza in una storia.

67. Con la sua insistenza sulla libertà come condizione della risposta dell’uomo all’iniziativa dell’amore di Dio, il cristianesimo ha contribuito in modo determinante a dare il posto dovuto alla nozione di persona nel discorso filosofico, cosí da avere un’influenza decisiva sulle dottrine etiche. Inoltre, l’esplorazione teologica del mistero cristiano ha condotto a un approfondimento molto significativo del tema filosofico della persona. Da una parte, la nozione di persona serve a designare nella loro distinzione il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo nel mistero infinito dell’unica natura divina. D’altra parte, la persona è il punto in cui, nel rispetto della distinzione e della distanza tra le due nature, divina e umana, si stabilisce l’unità ontologica dell’Uomo-Dio, Gesú Cristo. Nella tradizione teologica cristiana, la persona presenta due aspetti complementari. Da una parte, secondo la definizione di Boezio, ripresa dalla teologia scolastica, la persona è una «sostanza (sussistente) individuale di natura razionale» (67). Essa rinvia all’unicità di un soggetto ontologico che, essendo di natura spirituale, gode di una dignità e di un’autonomia che si manifesta nella coscienza di sé e nella libera padronanza del proprio agire. D’altra parte, la persona si manifesta nella sua capacità di entrare in relazione: essa esercita la sua azione nell’ordine dell’intersoggettività e della comunione nell’amore.

68. La persona non si oppone alla natura. Al contrario, natura e persona sono due nozioni che si completano. Da una parte, ogni persona umana è una realizzazione unica della natura umana intesa in senso metafisico. D’altra parte, la persona umana, nelle libere scelte con cui risponde nel concreto del suo «qui e ora» alla propria vocazione unica e trascendente, assume gli orientamenti dati dalla sua natura. Infatti la natura pone le condizioni di esercizio della libertà e indica un orientamento per le scelte che la persona deve compiere. Scrutando l’intelligibilità della sua natura, la persona scopre cosí le vie della propria realizzazione.

 

 

3.3. La natura, l’uomo e Dio: dall’armonia al conflitto

69. Il concetto di legge naturale suppone l’idea che la natura sia per l’uomo portatrice di un messaggio etico e costituisca una norma morale implicita che la ragione umana attualizza. La visione del mondo, all’interno della quale la dottrina della legge naturale si è sviluppata e trova ancora oggi il suo senso, implica perciò la convinzione ragionata che esiste un’armonia fra le tre sostanze che sono Dio, l’uomo e la natura. In tale prospettiva, il mondo è percepito come un tutto intelligibile, unificato dal comune riferimento degli esseri che lo compongono a un principio divino fondatore, a un Logos. Al di là del Logos impersonale e immanente scoperto dallo stoicismo e presupposto dalle scienze moderne della natura, il cristianesimo afferma che c’è il Logos personale, trascendente e creatore. «Non sono gli elementi del cosmo, le leggi della materia che, in definitiva, governano il mondo e l’uomo, ma un Dio personale governa le stelle, cioè l’universo; non le leggi della materia e dell’evoluzione sono l’ultima istanza, ma la ragione, la volontà, l’amore - una Persona» (68). Il Logos divino personale - Sapienza e Parola di Dio - è non soltanto l’Origine e il Modello intelligibile trascendente dell’universo, ma anche colui che lo mantiene in una unità armoniosa e lo conduce verso il suo fine (69). Con il dinamismo che il Verbo creatore ha inscritto nell’intimo degli esseri, egli li orienta verso la loro piena realizzazione. Questo orientamento dinamico non è altro che il governo divino, che attua nel tempo il piano della provvidenza, cioè della legge eterna.

70. Ogni creatura partecipa a modo suo al Logos. L’uomo, poiché si definisce con la ragione o logos, vi partecipa in modo eminente. Infatti, con la ragione, è in grado di interiorizzare liberamente le intenzioni divine manifestate nella natura delle cose. Egli le formula per sé sotto la forma di una legge morale che ispira e orienta la propria azione. In tale prospettiva, l’uomo non è «l’altro» della natura. Al contrario, stabilisce con il cosmo un vincolo di familiarità fondato su una comune partecipazione al Logos divino.

71. Per diversi motivi storici e culturali, che si ricollegano in particolare all’evoluzione delle idee durante il tardo Medioevo, tale visione del mondo ha perduto la sua preminenza culturale. La natura delle cose non è piú legge per l’uomo moderno e non è piú un riferimento per l’etica. Sul piano metafisico, la sostituzione dei pensieri dell’univocità dell’essere ai pensieri dell’analogia dell’essere e poi il nominalismo hanno minato i fondamenti della dottrina della creazione come partecipazione al Logos che rendeva ragione di una certa unità fra l’uomo e la natura. L’universo nominalista di Guglielmo d’Ockham si riduce cosí a una giustapposizione di realtà individuali senza profondità, poiché ogni universo reale, cioè ogni principio di comunione tra gli esseri, è denunciato come un’illusione linguistica. Sul piano antropologico, gli sviluppi del volontarismo e la correlativa esaltazione della soggettività, definita come la libertà di indifferenza di fronte a ogni inclinazione naturale, hanno scavato un fossato tra il soggetto umano e la natura. Ormai, alcuni ritengono che la libertà umana sia essenzialmente il ritenere che non conta nulla ciò che l’uomo è per natura. Il soggetto dovrebbe perciò rifiutare qualunque significato a ciò che non ha scelto personalmente e decidere da sé che cos’è essere uomo. L’uomo dunque ha sempre piú compreso se stesso come un «animale denaturato», un essere antinaturale che tanto piú si afferma quanto piú si oppone alla natura. La cultura, propria dell’uomo, è allora definita non come una umanizzazione o una trasfigurazione della natura con lo spirito, ma come una negazione pura e semplice della natura. Il principale risultato di tali evoluzioni è stata la scissione del reale in tre sfere separate, anzi opposte: la natura, la soggettività umana e Dio.

72. Con l’eclissi della metafisica dell’essere, la sola capace di fondare sulla ragione l’unità differenziata dello spirito e della realtà materiale, e con la crescita del volontarismo, il regno dello spirito è stato radicalmente opposto al regno della natura. La natura non è piú considerata come un’epifania del Logos, ma come «l’altra» dello spirito. È ridotta all’ambito della corporeità e della stretta necessità, e di una corporeità senza profondità, perché il mondo dei corpi è identificato con l’estensione, certamente regolata da leggi matematiche intelligibili, ma priva di qualunque teleologia o finalità immanente. La fisica cartesiana e poi la fisica newtoniana hanno diffuso l’immagine di una materia inerte, che obbedisce passivamente alle leggi del determinismo universale che lo Spirito divino le impone e che la ragione umana può conoscere e padroneggiare perfettamente (70). Soltanto l’uomo può infondere un senso e un progetto in questa massa amorfa e insignificante che egli manipola con la tecnica per i propri fini. La natura cessa di essere padrona della vita e della sapienza, per diventare il luogo in cui si afferma la potenza prometeica dell’uomo. Questa visione sembra dare valore alla libertà umana, ma di fatto, opponendo libertà e natura, priva la libertà umana di qualunque norma oggettiva per la sua condotta. Essa conduce all’idea di una creazione umana del tutto arbitraria, anzi al puro e semplice nichilismo.

73. In tale contesto, in cui la natura non nasconde piú alcuna razionalità teleologica immanente e sembra aver perduto ogni affinità o parentela con il mondo dello spirito, il passaggio dalla conoscenza delle strutture dell’essere al dovere morale che ne sembra derivare diventa effettivamente impossibile e cade sotto la critica del «sofismo o paralogismo naturalista (naturalistic fallacy)», denunciato da David Hume e poi da George Edward Moore nei suoi Principia Ethica (1903). Infatti il bene è diviso dall’essere e dal vero. L’etica è separata dalla metafisica.

74. L’evoluzione della comprensione del rapporto dell’uomo con la natura si traduce pure nella rinascita di un dualismo antropologico radicale che oppone lo spirito e il corpo, poiché il corpo è in qualche modo la «natura» in ciascuno di noi (71). Tale dualismo si manifesta nel rifiuto di riconoscere qualunque significato umano ed etico alle inclinazioni naturali che precedono le scelte della ragione individuale. Il corpo, realtà giudicata estranea alla soggettività, diventa un puro «avere», un oggetto manipolato dalla tecnica in funzione degli interessi della soggettività individuale (72).

75. Inoltre, per l’emergere di una concezione metafisica in cui l’azione umana e l’azione divina entrano in concorrenza, perché sono intese in modo univoco e poste, a torto, sullo stesso piano, l’affermazione, legittima, dell’autonomia del soggetto umano implica che Dio sia escluso dalla sfera della soggettività umana. Ogni riferimento a una normativa proveniente da Dio o dalla natura come espressione della sapienza di Dio, cioè ogni «eteronomia», è percepita come una minaccia per l’autonomia del soggetto. La nozione di legge naturale appare allora incompatibile con l’autentica dignità del soggetto.

 

 

3.4. Vie verso una riconciliazione

76. Per rendere tutto il suo senso e tutta la sua forza alla nozione di legge naturale come fondamento di un’etica universale, bisogna rivolgere uno sguardo di sapienza, di ordine propriamente metafisico, capace di abbracciare simultaneamente Dio, il cosmo e la persona umana per riconciliarli nell’unità analogica dell’essere, grazie all’idea di creazione come partecipazione.

77. È anzitutto essenziale sviluppare un’idea non concorrenziale dell’articolazione tra la causalità divina e la libera attività del soggetto umano. Il soggetto umano realizza se stesso inserendosi liberamente nell’azione provvidenziale di Dio, e non opponendosi ad essa. Deve scoprire con la ragione e poi assumere e condurre liberamente a realizzazione i dinamismi profondi che ne definiscono la natura. Infatti la natura umana si definisce con tutto un insieme di dinamismi, di tendenze, di orientamenti all’interno dei quali nasce la libertà. Infatti la libertà suppone che la volontà umana sia «messa sotto tensione» dal desiderio naturale del bene e del fine ultimo. Il libero arbitrio si esercita allora nella scelta degli oggetti finiti che consentono di raggiungere tale fine. Nel rapporto con questi beni, i quali esercitano un’attrattiva che non è determinante, la persona conserva la padronanza della propria scelta a motivo della sua apertura innata al Bene assoluto. La libertà non è dunque un assoluto auto-creatore di se stesso, ma una proprietà eminente di ogni soggetto umano.

78. Una filosofia della natura che prenda atto della profondità intelligibile del mondo sensibile e, soprattutto, una metafisica della creazione consentono poi di superare la tentazione dualista e gnostica di abbandonare la natura all’insignificanza morale. Da tale punto di vista, bisogna superare lo sguardo riduttivo che la cultura tecnica dominante conduce a rivolgere sulla natura, per riscoprire il messaggio morale di cui essa è portatrice come opera del Logos.

79. Tuttavia la riabilitazione della natura e della corporeità in etica non può equivalere a un qualunque «fisicismo». Infatti alcune presentazioni moderne della legge naturale hanno gravemente negato la necessaria integrazione delle inclinazioni naturali nell’unità della persona. Trascurando di considerare l’unità della persona umana, esse assolutizzano le inclinazioni naturali delle diverse «parti» della natura umana, accostandole senza gerarchizzarle e tralasciando di integrarle nell’unità del progetto globale del soggetto. Ora, spiega Giovanni Paolo II, «le inclinazioni naturali non acquistano una qualità morale, se non in quanto si rapportano alla persona umana e alla sua realizzazione autentica» (73). Oggi dunque bisogna tenere presenti insieme due verità. Da una parte, il soggetto umano non è una unione o una giustapposizione di inclinazioni naturali diverse e autonome, ma un tutto sostanziale e personale chiamato a rispondere all’amore di Dio e ad unificarsi mediante un orientamento riconosciuto verso un fine ultimo, che gerarchizza i beni parziali manifestati dalle diverse tendenze naturali. Tale unificazione delle tendenze naturali in funzione dei fini superiori dello spirito, cioè tale umanizzazione dei dinamismi inscritti nella natura umana, non costituisce affatto una violenza che sarebbe loro fatta. Al contrario, è la realizzazione di una promessa già inscritta in essi (74). Ad esempio, l’alto valore spirituale che si manifesta nel dono di sé nel reciproco amore degli sposi è già inscritto nella natura stessa del corpo sessuato, che trova in questa realizzazione spirituale la sua ultima ragione di essere. D’altra parte, in questo tutto organico, ogni parte conserva un significato proprio e irriducibile, di cui la ragione deve tener conto nell’elaborazione del progetto globale della persona. La dottrina della legge morale naturale deve dunque affermare il ruolo centrale della ragione nell’attuazione di un progetto di vita propriamente umano, e insieme la consistenza e il significato proprio dei dinamismi naturali pre-razionali (75).

80. Il significato morale dei dinamismi naturali pre-razionali appare in piena luce nell’insegnamento sui peccati contro natura. Certamente, ogni peccato è contro natura in quanto si oppone alla retta ragione e ostacola lo sviluppo autentico della persona umana. Tuttavia alcuni comportamenti sono giudicati in modo speciale peccati contro natura nella misura in cui contraddicono piú direttamente il senso oggettivo dei dinamismi naturali che la persona deve assumere nell’unità della sua vita morale (76). Cosí il suicidio deliberato e voluto va contro l’inclinazione naturale a conservare e a far fruttificare la propria esistenza. Cosí alcune pratiche sessuali si oppongono direttamente alle finalità inscritte nel corpo sessuato dell’uomo. Perciò contraddicono anche i valori interpersonali che devono promuovere una vita sessuale responsabile e pienamente umana.

81. Il rischio di assolutizzare la natura, ridotta a pura componente fisica o biologica, e di trascurare la propria vocazione intrinseca ad essere integrato in un progetto spirituale minaccia oggi alcune tendenze radicali del movimento ecologico. Lo sfruttamento irresponsabile della natura da parte degli agenti umani che cercano soltanto il profitto economico e i pericoli che essa fa pesare sulla biosfera interpellano giustamente le coscienze. Tuttavia, l’«ecologia profonda (deep ecology)» costituisce una reazione eccessiva. Essa sostiene una supposta uguaglianza delle specie viventi, senza piú riconoscere alcun ruolo particolare all’essere umano, e ciò, paradossalmente, indebolisce la responsabilità dell’uomo nei confronti della biosfera di cui fa parte. In modo ancor piú radicale, alcuni sono giunti a considerare l’essere umano come un virus distruttore che insidierebbe l’integrità della natura, e gli rifiutano ogni significato e ogni valore nella biosfera. Si giunge allora a una sorta di totalitarismo che esclude l’esistenza umana nella sua specificità e condanna il legittimo progresso umano.

82. Non ci può essere una risposta adeguata agli interrogativi complessi dell’ecologia, se non nel quadro di una comprensione piú profonda della legge naturale, che dia valore al legame tra la persona umana, la società, la cultura e l’equilibrio della sfera bio-fisica nella quale si incarna la persona umana. Un’ecologia integrale deve promuovere ciò che è specificamente umano, valorizzando insieme il mondo della natura nella sua integrità fisica e biologica. Infatti, anche se l’uomo, come essere morale che cerca la verità e i beni ultimi, trascende il proprio ambiente immediato, lo fa accettando la missione speciale di vegliare sul mondo naturale e di vivere in armonia con esso, di difendere i valori vitali senza i quali non possono mantenersi né la vita umana né la biosfera di questo pianeta (77). Tale ecologia integrale interpella ogni essere umano e ogni comunità in vista di una nuova responsabilità. Essa è inseparabile da un orientamento globale rispettoso delle esigenze della legge naturale.

 

 

Capitolo quarto: la legge naturale e la città

4.1. La persona e il bene comune

83. Affrontando l’ordine politico della società, entriamo nello spazio regolato dal diritto. Infatti il diritto appare quando piú persone entrano in relazione. Il passaggio dalla persona alla società illumina la distinzione essenziale tra legge naturale e diritto naturale.

84. La persona è al centro dell’ordine politico e sociale perché è un fine e non un mezzo. La persona è un essere sociale per natura, non per scelta o in virtú di una pura convenzione contrattuale. Per realizzarsi in quanto persona ha bisogno dell’intreccio di relazioni che stabilisce con altre persone. Si trova cosí al centro di una rete formata da cerchi concentrici: la famiglia, l’ambiente in cui vive e il lavoro, la comunità di vicinato, la nazione e infine l’umanità (78). La persona attinge da ciascuno di questi cerchi gli elementi necessari alla propria crescita, e al tempo stesso contribuisce al loro perfezionamento.

85. Poiché gli esseri umani hanno la vocazione a vivere in società con altri, hanno in comune un insieme di beni da perseguire e di valori da difendere. È ciò che si chiama il «bene comune». Se la persona è un fine in se stessa, la società ha il fine di promuovere, consolidare e sviluppare il suo bene comune. La ricerca del bene comune consente alla città di mobilitare le energie di tutti i suoi membri. A un primo livello, il bene comune si può intendere come l’insieme delle condizioni che consentono alla persona di essere sempre piú persona umana (79). Pur articolandosi nei suoi aspetti esteriori - economia, sicurezza, giustizia sociale, educazione, accesso al lavoro, ricerca spirituale e altri -, il bene comune è sempre un bene umano (80). A un secondo livello, il bene comune è ciò che finalizza l’ordine politico e la stessa città. Bene di tutti e di ciascuno in particolare, esso esprime la dimensione comunitaria del bene umano. Le società possono definirsi per il tipo di bene comune che intendono promuovere. Infatti se si tratta di esigenze essenziali al bene comune di ogni società, la visione del bene comune si evolve con le stesse società, in funzione delle concezioni della persona, della giustizia e del ruolo del potere pubblico.

 

 

4.2. La legge naturale, misura dell’ordine politico

86. La società organizzata in vista del bene comune dei suoi membri risponde a un’esigenza della natura sociale della persona. La legge naturale appare allora come l’orizzonte normativo nel quale l’ordine politico è chiamato a muoversi. Essa definisce l’insieme dei valori che appaiono come umanizzanti per una società. Quando ci si colloca nell’ambito sociale e politico, i valori non possono essere piú di natura privata, ideologica o confessionale, ma riguardano tutti i cittadini. Essi esprimono non un vago consenso tra loro, ma si fondano sulle esigenze della loro comune umanità. Affinché la società adempia correttamente la propria missione di servizio della persona, deve promuovere la realizzazione delle sue inclinazioni naturali. La persona è dunque anteriore alla società, e la società è umanizzante soltanto se risponde alle attese inscritte nella persona in quanto essere sociale.

87. Tale ordine naturale della società al servizio della persona è connotato, secondo la dottrina sociale della Chiesa, da quattro valori che derivano dalle inclinazioni naturali dell’essere umano e che disegnano i contorni del bene comune che la società deve perseguire, cioè: la libertà, la verità, la giustizia e la solidarietà (81). Questi quattro valori corrispondono alle esigenze di un ordine etico conforme alla legge naturale. Se una di queste viene a mancare, la città tende verso l’anarchia o il regno del piú forte. La libertà è la prima condizione di un ordine politico umanamente accettabile. Senza la libertà di seguire la propria coscienza, di esprimere le proprie opinioni e di perseguire i propri progetti, non c’è una città umana, anche se la ricerca dei beni privati deve sempre articolarsi alla promozione del bene comune della città. Senza la ricerca e il rispetto della verità, non c’è società ma la dittatura del piú forte. La verità, che non è proprietà di nessuno, è in grado di far convergere gli esseri umani verso obiettivi comuni. Se la verità non si impone da sé, il piú abile impone la «sua» verità. Senza giustizia non c’è società, ma il regno della violenza. La giustizia è il bene piú alto che la città possa procurare. Essa suppone che si ricerchi sempre ciò che è giusto, e che il diritto sia applicato con l’attenzione al caso particolare, poiché l’equità è il massimo della giustizia. Infine, è necessario che la società sia regolata in modo solidale, assicurando il reciproco aiuto e la responsabilità per la sorte degli altri e facendo in modo che i beni di cui la società dispone possano rispondere ai bisogni di tutti.

 

 

4.3. Dalla legge naturale al diritto naturale

88. La legge naturale (lex naturalis) si esprime come diritto naturale (ius naturale) quando si considerano le relazioni di giustizia tra gli esseri umani: relazioni tra le persone fisiche e morali, tra le persone e il potere pubblico, relazioni di tutti con la legge positiva. Si passa dalla categoria antropologica della legge naturale alla categoria giuridica e politica dell’organizzazione della città. Il diritto naturale è la misura inerente all’accordo tra i membri della società. È la regola e la misura immanente dei rapporti umani interpersonali e sociali.

89. Il diritto non è arbitrario: l’esigenza di giustizia, che deriva dalla legge naturale, è anteriore alla formulazione e alla emanazione del diritto. Non è il diritto che decide che cosa sia giusto. Neppure la politica è arbitraria: le norme della giustizia non risultano soltanto da un contratto stabilito tra gli uomini, ma provengono anzitutto dalla natura stessa degli esseri umani. Il diritto naturale è l’ancoraggio delle leggi umane alla legge naturale. È l’orizzonte in funzione del quale il legislatore umano deve regolarsi quando emana norme nella sua missione di servizio al bene comune. In tal senso, egli onora la legge naturale, inerente all’umanità dell’uomo. Al contrario, quando il diritto naturale è negato, la sola volontà del legislatore fa la legge. Allora il legislatore non è piú l’interprete di ciò che è giusto e buono, ma si attribuisce la prerogativa di essere il criterio ultimo del giusto.

90. Il diritto naturale non è mai una misura fissata una volta per tutte. È il risultato di una valutazione delle situazioni mutevoli in cui vivono gli uomini. Enuncia il giudizio della ragione pratica che stima ciò che è giusto. Il diritto naturale, espressione giuridica della legge naturale nell’ordine politico, appare cosí come la misura delle giuste relazioni tra i membri della comunità.

 

 

4.4. Diritto naturale e diritto positivo

91. Il diritto positivo deve sforzarsi di attuare le esigenze del diritto naturale. Lo fa sia in forma di conclusione (il diritto naturale vieta l’omicidio, il diritto positivo proibisce l’aborto), sia in forma di determinazione (il diritto naturale prescrive di punire i colpevoli, il diritto penale positivo determina le pene da applicare per ogni categoria di delitti) (82). In quanto derivino veramente dal diritto naturale e quindi dalla legge eterna, le leggi umane positive obbligano in coscienza. Nel caso contrario non obbligano. «Se la legge non è giusta, non è neppure una legge» (83). Le leggi positive possono, anzi devono, cambiare per rimanere fedeli alla propria vocazione. Infatti, da una parte, esiste un progresso della ragione umana che, a poco a poco, prende meglio coscienza di ciò che è piú adatto al bene della comunità e, d’altra parte, le condizioni storiche della vita delle società si modificano (in bene o in male) e le leggi vi si devono adattare (84). Cosí il legislatore deve determinare ciò che è giusto nel concreto delle situazioni storiche (85).

92. I diritti naturali sono misure dei rapporti umani anteriori alla volontà del legislatore. Essi sono dati poiché gli uomini vivono in società. Il diritto naturale è ciò che è naturalmente giusto prima di ogni formulazione legale. Si esprime in particolare nei diritti soggettivi della persona, come il diritto al rispetto della propria vita, all’integrità della persona, alla libertà religiosa, alla libertà di pensiero, il diritto di fondare una famiglia e di educare i figli secondo le proprie convinzioni, il diritto di associarsi con altri, di partecipare alla vita della collettività... Questi diritti, ai quali il pensiero contemporaneo attribuisce grande importanza, hanno la loro fonte, non nei desideri fluttuanti degli individui, ma nella struttura stessa degli esseri umani e delle loro relazioni umanizzanti. I diritti della persona umana emergono dunque dal giusto ordine che deve regnare nelle relazioni tra gli uomini. Riconoscere questi diritti naturali dell’uomo significa riconoscere l’ordine oggettivo delle relazioni umane fondate sulla legge naturale.

 

 

4.5. L’ordine politico non è l’ordine escatologico

93. Nella storia delle società umane, spesso l’ordine politico è stato inteso come il riflesso di un ordine trascendente e divino. Cosí gli antichi cosmologi fondavano e giustificavano teologie politiche nelle quali il sovrano assicurava il legame tra il cosmo e l’universo umano. Si trattava di far entrare l’universo degli uomini nell’armonia prestabilita del mondo. Con l’apparizione del monoteismo biblico, l’universo è inteso come obbediente alle leggi che il Creatore gli ha dato. L’ordine della città è raggiunto quando sono rispettate le leggi di Dio, del resto inscritte nei cuori. A lungo, forme di teocrazia hanno potuto prevalere in società che si organizzavano secondo princípi e valori tratti dai loro libri santi. Non c’era distinzione tra la sfera della rivelazione religiosa e la sfera dell’organizzazione della città. Ma la Bibbia ha desacralizzato il potere umano, anche se diversi secoli di osmosi teocratica, pure in ambiente cristiano, hanno oscurato la distinzione essenziale tra ordine politico e ordine religioso. In proposito, bisogna distinguere bene la situazione della prima alleanza, in cui la legge divina data da Dio era anche la legge del popolo d’Israele, e quella della nuova alleanza, che introduce la distinzione e la relativa autonomia degli ordini religioso e politico.

94. La rivelazione biblica invita l’umanità a considerare che l’ordine della creazione è un ordine universale a cui partecipa tutta l’umanità, e che tale ordine è accessibile alla ragione. Quando parliamo di legge naturale, si tratta di tale ordine voluto da Dio e compreso dalla natura umana. La Bibbia pone la distinzione fra tale ordine della creazione e l’ordine della grazia, alla quale dà accesso la fede in Cristo. Ora, l’ordine della città non è questo ordine definitivo ed escatologico. L’ambito della politica non è quello della città celeste, dono gratuito di Dio. Esso deriva dall’ordine imperfetto e transitorio in cui vivono gli uomini, pur avanzando verso la loro realizzazione nell’aldilà della storia. Secondo sant’Agostino, il proprio della città terrestre è di essere mescolato: vi si affiancano i giusti e gli ingiusti, i credenti e i non credenti (86). Devono temporaneamente vivere insieme secondo le esigenze della loro natura e le capacità della loro ragione.

95. Lo Stato non può dunque erigersi a possessore del senso ultimo. Non può imporre né una ideologia globale, né una religione (anche secolare), né un pensiero unico. L’ambito del senso ultimo, nella società civile, è assunto dalle organizzazioni religiose, dalle filosofie e dalle spiritualità; esse devono contribuire al bene comune, rafforzare il vincolo sociale e promuovere i valori universali che fondano lo stesso ordine politico. Questo non ha il compito di trasportare sulla terra il regno di Dio che verrà. Lo può anticipare con i suoi progressi nell’ambito della giustizia, della solidarietà e della pace. Non può volerlo instaurare con la costrizione.

 

 

4.6. L’ordine politico è un ordine temporale e razionale

96. Se l’ordine politico non è l’ambito della verità ultima, deve però essere aperto alla continua ricerca di Dio, della verità e della giustizia. La «legittima e sana laicità dello Stato» (87) consiste nella distinzione tra l’ordine soprannaturale della fede teologale e l’ordine politico. Quest’ultimo non si può mai confondere con l’ordine della grazia a cui gli uomini sono chiamati a aderire liberamente. È legato piuttosto all’etica umana universale inscritta nella natura umana. La città deve cosí procurare alle persone che la compongono ciò che è necessario alla piena realizzazione della loro vita umana, e ciò include alcuni valori spirituali e religiosi, come la libertà per i cittadini di decidere nei confronti dell’Assoluto e dei beni supremi. Ma la città, il cui bene comune è di natura temporale, non può procurare i beni soprannaturali, che sono di un altro ordine.

97. Se Dio e ogni trascendenza dovessero essere esclusi dall’orizzonte della politica, non resterebbe che il potere dell’uomo sull’uomo. Infatti l’ordine politico si è spesso presentato come l’ultimo orizzonte di senso per l’umanità. Le ideologie e i regimi totalitari hanno dimostrato che tale ordine politico, senza un orizzonte di trascendenza, non è umanamente accettabile. Questa trascendenza è legata a quella che noi chiamiamo legge naturale.

98. Le osmosi politico-religiose del passato, come le esperienze totalitarie del XX secolo, hanno condotto, grazie a una sana reazione, a rivalutare oggi il ruolo della ragione in politica, conferendo cosí una nuova pertinenza ai discorsi aristotelico-tomistici sulla legge naturale. La politica, cioè l’organizzazione della città e l’elaborazione dei suoi progetti collettivi, deriva dall’ordine naturale e deve attuare un dibattito razionale aperto alla trascendenza.

99. La legge naturale che è la base dell’ordine sociale e politico esige un’adesione non di fede ma di ragione. Certamente, la stessa ragione è spesso oscurata dalle passioni, da interessi contraddittori, da pregiudizi. Ma il costante riferimento alla legge naturale spinge a una continua purificazione della ragione. Soltanto cosí l’ordine politico evita l’insidia dell’arbitrario, degli interessi particolari, della menzogna organizzata, della manipolazione degli spiriti. Il riferimento alla legge naturale trattiene lo Stato dal cedere alla tentazione di assorbire la società civile e di sottomettere gli uomini a una ideologia. Gli evita pure di diventare uno Stato provvidenza che privi le persone e le comunità di ogni iniziativa e le deresponsabilizzi. La legge naturale contiene l’idea dello Stato di diritto, che si struttura secondo il principio di sussidiarietà, rispettando le persone e i corpi intermedi e regolando le loro interazioni (88).

100. I grandi miti politici sono stati smascherati con l’introduzione della regola della razionalità e il riconoscimento della trascendenza del Dio di amore che vieta di adorare l’ordine politico instaurato sulla terra. Il Dio della Bibbia ha voluto l’ordine della creazione affinché tutti gli uomini, conformandosi alla legge che gli è inerente, possano cercarlo liberamente e, dopo averlo trovato, proiettino sul mondo la luce della grazia che è il suo compimento.

 

 

Capitolo quinto: Gesú Cristo, compimento della legge naturale

101. La grazia non distrugge la natura ma la risana, la conforta e la conduce alla sua piena realizzazione. Perciò, anche se la legge naturale è un’espressione della ragione comune a tutti gli uomini e può essere presentata in modo coerente e vero sul piano filosofico, non è estranea all’ordine della grazia. Le sue esigenze sono presenti e operanti nei diversi stati teologici che attraversa una umanità impegnata nella storia della salvezza.

102. Il disegno di salvezza di cui il Padre eterno ha l’iniziativa si realizza con la missione del Figlio che dà agli uomini la nuova Legge, la legge del Vangelo, che consiste principalmente nella grazia dello Spirito Santo operante nel cuore dei credenti per santificarli. La Legge nuova tende anzitutto a procurare agli uomini la partecipazione alla comunione trinitaria delle persone divine, ma, nello stesso tempo, assume e realizza in modo eminente la legge naturale. Da una parte, essa richiama chiaramente le esigenze che possono essere oscurate dal peccato e dall’ignoranza. D’altra parte, liberandoli dalla legge del peccato, a causa del quale «c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo» (Rm 7,18), dà agli uomini l’effettiva capacità di superare l’egoismo per attuare pienamente le esigenze umanizzanti della legge naturale.

 

 

5.1. Il «Logos» incarnato, Legge vivente

103. Grazie alla luce naturale della ragione, che è una partecipazione alla Luce divina, gli uomini sono in grado di scrutare l’ordine intelligibile dell’universo per scoprirvi l’espressione della sapienza, della bellezza e della bontà del Creatore. A partire da questa conoscenza, possono inserirsi in tale ordine con il loro agire morale. Ora, grazie a uno sguardo piú profondo sul disegno di Dio di cui l’atto creatore è il preludio, la Scrittura insegna ai credenti che questo mondo è stato creato nel Logos, da lui e per lui, il Verbo di Dio, il Figlio diletto del Padre, la Sapienza increata, e che il mondo ha in lui la vita e la sussistenza. Infatti il Figlio è «immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione, poiché in lui (en auto) furono create tutte le cose, nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili [...]. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui (di’auton) e in vista di lui (eis auton). Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui (en auto)» (Col 1,15-17) (89). Il Logos è dunque la chiave della creazione. L’uomo, creato a immagine di Dio, porta in sé un’impronta speciale di questo Logos personale. Perciò è chiamato ad essere conforme e assimilato al Figlio, «il primogenito tra molti fratelli» (Rm 8,29).

104. Ma a causa del peccato l’uomo ha fatto un cattivo uso della sua libertà e si è allontanato dalla fonte della sapienza, Facendo cosí, ha falsato la conoscenza che poteva avere dell’ordine oggettivo delle cose, anche sul piano naturale. Gli uomini, sapendo che le loro opere sono cattive, odiano la luce ed elaborano false teorie per giustificare i loro peccati (90). Cosí l’immagine di Dio nell’uomo è gravemente oscurata. Anche se la loro natura li rinvia ancora a una realizzazione in Dio al di là di loro stessi (la creatura non può pervertirsi al punto di non riconoscere piú le testimonianze che il Creatore offre di sé nella creazione), di fatto gli uomini sono cosí gravemente colpiti dal peccato che non riconoscono il senso profondo del mondo e lo interpretano in termini di piacere, di denaro o di potere.

105. Con la sua incarnazione salvifica, il Logos, assumendo una natura umana, ha restaurato l’immagine di Dio e ha restituito l’uomo a se stesso. Cosí Gesú Cristo, nuovo Adamo, porta a compimento il disegno originario del Padre sull’uomo e quindi rivela l’uomo a lui stesso: «In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione. [...] “Egli è immagine del Dio invisibile” (Col 1,15). È l’uomo perfetto che ha restituito ai figli di Adamo la somiglianza con Dio, resa deforme già subito agli inizi a causa del peccato. Poiché in lui la natura umana è stata assunta, senza per questo venire annientata, per ciò stesso essa è stata anche in noi innalzata a una dignità sublime» (91). Gesú Cristo manifesta dunque nella sua persona una vita umana esemplare, pienamente conforme alla legge naturale. Perciò egli è il criterio ultimo per decifrare correttamente quali sono i desideri naturali autentici dell’uomo, quando non sono celati dalle distorsioni introdotte dal peccato e dalle passioni disordinate.

106. L’incarnazione del Figlio è stata preparata dall’economia della Legge antica, segno dell’amore di Dio per il suo popolo Israele. Secondo alcuni Padri, uno dei motivi per cui Dio ha dato a Mosè una legge scritta fu di ricordare agli uomini le esigenze della legge naturalmente scritte nel loro cuore ma parzialmente oscurate e cancellate dal peccato (92). Questa Legge, che il giudaismo ha identificato con la Sapienza preesistente che presiede ai destini dell’universo (93), metteva cosí alla portata degli uomini segnati dal peccato la pratica concreta della vera sapienza, che consiste nell’amore di Dio e del prossimo. Essa conteneva precetti liturgici e giuridici positivi ma anche prescrizioni morali, riassunte nel Decalogo, che corrispondevano alle implicazioni della legge naturale. Cosí la tradizione cristiana ha visto nel Decalogo un’espressione privilegiata e sempre valida della legge naturale (94).

107. Gesú Cristo non è «venuto per abolire ma per dare pieno compimento» alla Legge (Mt 5,17) (95). Come appare dai testi evangelici, Gesú «insegnava come uno che ha autorità e non come gli scribi» (Mc 1,22) e non esitava a relativizzare, o anche ad abolire, alcune disposizioni particolari e temporanee della Legge. Ma ne ha pure confermato il contenuto essenziale e, nella sua persona, ha portato a perfezione la pratica della Legge, assumendo per amore i diversi tipi di precetti - morali, cultuali e giudiziari - della Legge mosaica, che corrispondono alle tre funzioni di profeta, sacerdote e re. San Paolo afferma che Cristo è il fine (telos) della Legge (Rm 10,4). Telos ha qui un doppio senso. Cristo è il «fine» della Legge, nel senso che la Legge è un mezzo pedagogico che doveva condurre gli uomini fino a Cristo, Ma inoltre, per tutti quelli che per la fede vivono in lui dello Spirito di amore, Cristo «mette un termine» agli obblighi positivi della Legge aggiunti alle esigenze della legge naturale (96).

108. Infatti Gesú ha valorizzato in diversi modi il primato etico della carità, che unisce inseparabilmente l’amore di Dio e l’amore del prossimo (97). La carità è il «comandamento nuovo» (Gv 13,34) che ricapitola tutta la Legge e ne dà la chiave di interpretazione: «Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti» (Mt 22,40). Essa rivela anche il senso profondo della regola d’oro. «Non fare a nessuno ciò che non vuoi che sia fatto a te» (Tb 4,15) diventa con Cristo il comandamento dell’amore senza limite. Il contesto in cui Gesú cita la regola d’oro ne determina in profondità la comprensione. Si trova al centro di una sezione che inizia con il comandamento: «Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano» e culmina nell’esortazione: «Siate misericordiosi come è misericordioso il vostro Padre celeste» (98). Al di là di una regola di giustizia commutativa, essa ha la forma di una sfida: invita a prendere l’iniziativa di un amore che è dono di sé. La parabola del buon samaritano è caratteristica di questa applicazione cristiana della regola d’oro: il centro di interesse passa dalla cura di sé alla cura dell’altro (99). Le beatitudini e il discorso della montagna spiegano il modo in cui si deve vivere il comandamento dell’amore, nella gratuità e nel senso dell’altro, elementi propri della nuova prospettiva assunta dall’amore cristiano. Cosí la pratica dell’amore supera ogni chiusura e ogni limite. Acquista una dimensione universale e una forza ineguagliabile, poiché rende la persona capace di fare quello che sarebbe impossibile senza l’amore.

109. Ma soprattutto nel mistero della sua santa Passione Gesú porta a compimento la legge dell’amore. Qui, come Amore incarnato, rivela in modo pienamente umano che cos’è l’amore e che cosa esso implica: dare la vita per quelli che si amano (100). «Dopo avere amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13,1). Per l’obbedienza di amore al Padre e per il desiderio della sua gloria che consiste nella salvezza degli uomini, Gesú accetta la sofferenza e la morte di croce in favore dei peccatori. La persona stessa di Cristo, Logos e Sapienza incarnati, diventano cosí la legge vivente, la norma suprema per ogni etica cristiana. La sequela Christi, l’imitatio Christi sono le vie concrete per realizzare la Legge in tutte le sue dimensioni.

 

 

5.2. Lo Spirito Santo e la nuova Legge di libertà

110. Gesú Cristo non è soltanto un modello etico da imitare, ma con il suo mistero e nel suo mistero pasquale, è il Salvatore che dà agli uomini la possibilità reale di attuare la legge di amore. Infatti il mistero pasquale culmina nel dono dello Spirito Santo, lo Spirito di amore comune al Padre e al Figlio, che unisce i discepoli tra loro, a Cristo e infine al Padre. «Poiché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo» (Rm 5,5), lo Spirito Santo diventa il principio interiore e la regola suprema dell’azione dei credenti. Fa loro adempiere spontaneamente e in modo giusto tutte le esigenze dell’amore. «Camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne» (Gal 5,16). Cosí si compie la promessa: «Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme» (Ez 36,26-27) (101).

111. La grazia dello Spirito Santo costituisce l’elemento principale della nuova Legge o Legge del Vangelo (102). La predicazione della Chiesa, la celebrazione dei sacramenti, le disposizioni prese dalla Chiesa per favorire tra i suoi membri lo sviluppo della vita nello Spirito sono totalmente riferite alla crescita personale di ogni credente nella santità dell’amore. Con la nuova Legge, che è una legge essenzialmente interiore, «la legge perfetta, la legge della libertà» (Gc 1,25), il desiderio di autonomia e di libertà nella verità che è presente nel cuore dell’uomo raggiunge qui la piú perfetta realizzazione. Dal piú intimo della persona, dove Cristo è presente e che lo Spirito trasforma, nasce il suo agire morale (103). Ma questa libertà è al servizio dell’amore: «Voi fratelli, infatti, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate a servizio gli uni degli altri» (Gal 5,13).

112. La nuova Legge del Vangelo include, assume e porta a compimento le esigenze della legge naturale. Gli orientamenti della legge naturale non sono dunque istanze normative esterne rispetto alla nuova Legge. Sono una parte costitutiva di questa, anche se seconda e ordinata all’elemento principale, che è la grazia di Cristo (104). Perciò è alla luce della ragione illuminata ormai dalla fede viva che l’uomo riconosce meglio gli orientamenti della legge naturale, che gli indicano la via del pieno sviluppo della sua umanità. Cosí, la legge naturale, da una parte, mantiene «un legame fondamentale con la nuova legge dello Spirito di vita in Cristo Gesú e, d’altra parte, offre un’ampia base di dialogo con le persone di altro orientamento o di altra formazione, in vista della ricerca del bene comune» (105).

 

 

Conclusione

113. La Chiesa cattolica, consapevole della necessità per gli uomini di ricercare in comune le regole di un vivere insieme nella giustizia e nella pace, desidera condividere con le religioni, le sapienze e le filosofie del nostro tempo le risorse del concetto di legge naturale. Chiamiamo legge naturale il fondamento di un’etica universale che cerchiamo di ricavare dall’osservazione e dalla riflessione sulla nostra comune natura umana. Essa è la legge morale inscritta nel cuore degli uomini e di cui l’umanità prende sempre piú coscienza via via che avanza nella storia. Questa legge naturale non ha niente di statico nella sua espressione; non consiste in una lista di precetti definitivi e immutabili. È una fonte di ispirazione che zampilla sempre nella ricerca di un fondamento obiettivo a un’etica universale.

114. La nostra convinzione di fede è che Cristo rivela la pienezza dell’umano realizzandola nella sua persona. Ma tale rivelazione, per quanto specifica, raggiunge e conferma elementi già presenti nel pensiero razionale delle sapienze dell’umanità. Il concetto di legge naturale è dunque anzitutto filosofico e, come tale, consente un dialogo che, nel rispetto delle convinzioni religiose di ciascuno, fa appello a quello che c’è di universalmente umano in ogni essere umano. Uno scambio sul piano della ragione è possibile quando si tratta di sperimentare e di dire ciò che è comune a tutti gli uomini dotati di ragione e di stabilire le esigenze della vita in società.

115. La scoperta della legge naturale risponde alla ricerca di una umanità che da sempre si sforza di darsi regole per la vita morale e per la vita in società. Questa vita in società riguarda un arco di relazioni che va dalla cellula familiare fino alle relazioni internazionali, passando per la vita economica, la società civile, la comunità politica. Per poter essere riconosciute da tutti gli uomini e in tutte le culture, le norme del comportamento in società devono avere la loro fonte nella stessa persona umana, nei suoi bisogni, nelle sue inclinazioni. Tali norme, elaborate con la riflessione e sostenute dal diritto, possono cosí essere interiorizzate da tutti. Dopo la seconda guerra mondiale, le nazioni di tutto il mondo hanno saputo darsi una Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, la quale suggerisce implicitamente che la fonte dei diritti umani inalienabili si trova nella dignità di ogni persona umana. Il presente contributo non aveva altro fine che aiutare a riflettere su questa fonte della moralità personale e collettiva.

116. Offrendo il nostro contributo alla ricerca di un’etica universale, e proponendone un fondamento razionalmente giustificabile, desideriamo invitare gli esperti e i portavoce delle grandi tradizioni religiose, sapienziali e filosofiche dell’umanità a procedere a un lavoro analogo a partire dalle loro fonti, per giungere a un riconoscimento comune di norme morali universali fondate su un approccio razionale alla realtà. Questo lavoro è necessario e urgente. Dobbiamo arrivare a dirci, al di là delle nostre convinzioni religiose e della diversità dei nostri presupposti culturali, quali sono i valori fondamentali per la nostra comune umanità, in modo da lavorare insieme a promuovere comprensione, riconoscimento reciproco e cooperazione pacifica fra tutte le componenti della famiglia umana.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note

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[*] NOTA PRELIMINARE.

Il tema «Alla ricerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale» è stato sottoposto allo studio della Commissione Teologica Internazionale. Per preparare questo studio venne formata una Sottocommissione composta dall’Ecc.mo mons. Roland Minnerath, dai Rev.mi professori: p. Serge-Thomas Bonino OP (presidente della Sottocommissione), Geraldo Luis Borges Hackmann, Pierre Gaudette, Tony Kelly CssR, Jean Liesen, John Michael McDermott SI, dai Ch.mi professori dott. Johannes Reiter e dott.ssa Barbara Hallensleben, con la collaborazione di s.e. mons. Luis Ladaria SI, segretario generale, nonché con i contributi degli altri membri. La discussione generale si è svolta in occasione delle sessioni plenarie della stessa CTI, tenutesi a Roma, nell’ottobre 2006 e 2007 e nel dicembre 2008. Il documento è stato approvato all’unanimità dalla Commissione nella sessione dell’1-6 dicembre 2008 ed è stato poi sottoposto al suo presidente, il cardinale William J. Levada, che ha dato la sua approvazione per la pubblicazione.

 

 

(1) Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, proemio, n. 1.

(2) Cfr. Ez 36,26.

(3) Giovanni Paolo II, Discorso del 5 ottobre 1995 all’Assemblea generale delle Nazioni Unite per la celebrazione del 50° anniversario della sua fondazione, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, XVIII/2, 1995, Città del Vaticano, 1998, 732.

(4) Cfr. Benedetto XVI, Discorso del 18 aprile 2008 davanti all’Assemblea generale dell’ONU, in AAS 100 (2008) 335: «Il merito della Dichiarazione universale è stato di aprire a culture, a espressioni giuridiche e a modelli istituzionali diversi la possibilità di convergere attorno a un nodo fondamentale di valori e quindi di diritti: ma è uno sforzo che oggi dev’essere ancora piú sostenuto di fronte a istanze che cercano di reinterpretare i fondamenti della Dichiarazione e di comprometterne l’unità interna per favorire il passaggio dalla protezione della dignità umana all’appagamento di semplici interessi, spesso particolari. [...] Sovente constatiamo nei fatti un predominio della legalità sulla giustizia, quando si manifesta un’attenzione alla rivendicazione dei diritti che giunge sino a farli apparire come il risultato esclusivo di disposizioni legislative o di decisioni normative prese dalle diverse istanze delle autorità in carica. I diritti, quando sono presentati sotto una forma di pura legalità, rischiano di diventare proposizioni di debole portata, separati dalla dimensione etica e razionale, che costituisce il loro fondamento e il loro fine. La Dichiarazione universale ha infatti riaffermato con forza la convinzione che il rispetto dei diritti dell’uomo è radicata prima di tutto in una giustizia immutabile, sulla quale è pure fondata la forza coercitiva delle proclamazioni internazionali. È un aspetto che spesso è trascurato, quando si pretende di privare i diritti della loro vera funzione in nome di una stretta prospettiva utilitarista».

(5) Nel 1993, alcuni rappresentanti del Parlamento delle religioni del mondo hanno reso pubblica una Dichiarazione per un’etica planetaria, la quale afferma che «esiste già tra le religioni un consenso suscettibile di fondare un’etica planetaria; un consenso minimo che riguarda valori obbliganti, norme irrevocabili e tendenze morali essenziali». Questa Dichiarazione contiene quattro princípi. 1) «Nessun nuovo ordine del mondo senza un’etica mondiale». 2) «Ogni persona umana sia trattata umanamente». La presa in considerazione della dignità umana è considerata come un fine in sé. Tale principio riprende la «regola d’oro» che è presente in molte tradizioni religiose. 3) La Dichiarazione enuncia quattro direttive morali irrevocabili: non-violenza e rispetto della vita; solidarietà; tolleranza e verità; uguaglianza dell’uomo e della donna. 4) Riguardo ai problemi dell’umanità, è necessario un cambiamento di mentalità, affinché ciascuno prenda coscienza della propria pressante responsabilità. È dovere delle religioni coltivare tale responsabilità, approfondirla e trasmetterla alle generazioni future.

(6) Benedetto XVI, Discorso del 12 febbraio 2007 al Congresso internazionale sulla legge morale naturale organizzato dalla Pontificia Università Lateranense, in AAS 99 (2007) 244.

(7) Cfr. Agostino, s., De doctrina christiana, III, XIV, 22 (Corpus christianorum, series latina, 32, 91): «Il precetto: “Quello che tu non vuoi sia fatto a te, non farlo ad altri” non può in alcun modo variare in funzione della diversità dei popoli (“Quod tibi fieri non vis, alii ne feceris”, nullo modo posse ulla eorum gentili diversitate variari)». Cfr. L. J. Philippidis, Die «Goldene Regel» religionsgeschichtlich Untersucht, Leipzig, 1929; A. Dihle, Die Goldene Regel. Eine Einführung in die Geschichte der antiken und frühchristlichen Vulgarethik, Göttingen, 1962; J. Wattles, The Golden Rule, New York - Oxford, 1996.

(8) Mānava dharmaśāstra, 1, 108 (G. C. Haughton, Mānava Dharma Śāstra or The Institutes of Manu, Comprising the Indian System of Duties, Religious and Civil, ed. By P. Percival, New Delhi, 1982(4), 14.

(9) Mahābhārata, Anusasana parva, 113, 3-9 (ed. Ishwar Chundra Sharma e O. N. Bimali; transl. according to M. N. Dutt, vol. IX, Delhi, Parimal Publications, 469).

(10) Ad esempio: «Dica la verità, dica cose che facciano piacere, non dichiari una verità sgradevole, non pronunci una bugia pietosa: questa è la legge eterna» (Mānava dharmaśāstra, 4, 138, p. 101); «Consideri sempre l’azione di colpire, quella di ingiuriare e quella di nuocere al bene del prossimo come le tre cose piú funeste nella serie dei vizi provocati dalla collera» (Mānava dharmaśāstra, 7, 51, p. 156).

(11) Confucio, Entretiens 15, 23 (traduzione di A. Cheng, Paris, 1981, 125).

(12) Corano, sura 35, 24 (traduzione di D. Masson, Paris, 1967, 537); cfr. sura 13, 7.

(13) Corano, sura 17, 22-38 (pp. 343-345): «Il tuo Signore ha decretato che adoriate soltanto Lui. Ha prescritto la bontà verso il padre e la madre. Se uno di loro o entrambi hanno raggiunto la vecchiaia vicino a te, non dire loro: “Oibò”, non allontanarli, rivolgi loro parole rispettose. China verso di loro, con bontà, l’ala della tenerezza e di’: “Mio Signore! Sii misericordioso verso di loro, come essi sono stati verso di me, quando ero bambino e mi hanno allevato”. Il vostro Signore conosce perfettamente ciò che è in voi. Se siete giusti, perdona coloro che ritornano pentiti a lui. Da’ ai parenti prossimi ciò che è loro dovuto, come anche al povero e al viandante; ma non essere prodigo. I prodighi sono fratelli dei demoni, e il Demonio è molto ingrato verso il suo Signore. Se, cercando una misericordia che speri dal tuo Signore, sei costretto ad allontanarti da loro, rivolgi loro una parola benevola. Non portare la mano chiusa al collo e non tenderla troppo larga, altrimenti ti troverai vilipeso e misero. Sí, il tuo Signore dispensa largamente oppure misura i suoi doni a chi vuole. È bene informato sui suoi servi e li vede perfettamente. Non uccidete i vostri figli per timore della povertà. Noi provvederemo al loro mantenimento insieme al vostro. La loro uccisione sarà un peccato enorme. Evitate la fornicazione: è un abominio! Che via detestabile! Non uccidete l’uomo che Dio vi ha vietato di uccidere, se non per una giusta ragione. [...] Non toccate i beni dell’orfano, finché non ha raggiunto la maggiore età, se non per il migliore uso. Mantenete i vostri impegni, perché gli uomini saranno interrogati sui loro impegni. Quando misurate, date una giusta misura; pesate con la bilancia piú precisa. È un bene e il suo risultato è eccellente. Non inseguire ciò di cui non hai alcuna conoscenza. Certamente dovrai rendere conto di tutto: dell’udito, della vista e del cuore. Non percorrere la terra con insolenza. Tu non puoi né squarciare la terra, né raggiungere l’altezza delle montagne. Ciò che in tutto questo è male è detestabile davanti a Dio».

(14) Sofocle, Antigone, v. 449-460 (ed. Pléiade, p. 584).

(15) Cfr. Aristotele, Retorica, I, XIII, 2 (1373 b 4-11): «La legge particolare (nomos idios) è quella che ogni gruppo di uomini determina in rapporto ai suoi membri, e questi tipi di leggi si dividono in legge non scritta e legge scritta. La legge comune (nomos koinos) è quella conforme alla natura (kata physin). Infatti c’è un giusto e un ingiusto, comuni per natura, che tutti riconoscono per una specie di divinazione, anche se non vi sia nessuna comunicazione o reciproca convenzione. Perciò si vede l’Antigone di Sofocle dichiarare che è giusto seppellire Polinice, la cui sepoltura è stata vietata, affermando che tale sepoltura è giusta, essendo conforme alla natura»; cfr. anche Etica a Nicomaco, V, 10.

(16) Cfr. Platone, Gorgia (483 c-484 b) [Discorso di Callicle]: «La natura stessa dimostra che è giusto che il migliore abbia piú del piú debole, e il piú potente piú del piú impotente. Essa manifesta in diverse circostanze che è bene cosí, sia negli altri esseri viventi sia in tutte le città e le razze degli uomini, e che il giusto è cosí determinato per il fatto che il piú potente comanda al piú debole e a una parte piú grande. Infatti su quale idea del giusto si fondava Serse per fare guerra alla Grecia, o suo padre agli sciti? Si potrebbero citare molti esempi simili. Ma, mi pare, quelli hanno agito cosí secondo la natura del giusto e, per Zeus, secondo la legge della natura, e probabilmente non secondo quella istituita da noi; plasmando i migliori e i piú forti tra noi, prendendoli fin dalla giovane età, come si farebbe con i leoni, seducendoli con i nostri sortilegi e stregandoli con i nostri incantesimi, li sottomettiamo a noi ripetendo loro che ciascuno dev’essere uguale agli altri, e che questo è il bello e il giusto. Ma se nasce un uomo dotato di una natura abbastanza potente, allora, liberandosi con una spallata di tutti questi ostacoli, facendoli a pezzi e sfuggendo loro, calpestando i nostri scritti, i nostri sortilegi, i nostri incantesimi e le nostre leggi che sono tutte senza eccezione contro natura, e alzandosi sopra di noi, ecco che lo schiavo si rivela nostro padrone, e allora appare in piena luce il giusto secondo la natura!».

(17) Nel Teeteto (172 a-b), il Socrate di Platone spiega le nefaste conseguenze politiche della tesi relativista attribuita a Protagora, secondo la quale ogni uomo è misura della verità: «Dunque, anche in politica, bello e brutto, giusto e ingiusto, pio ed empio, tutto ciò che ogni città ritiene tale e legalmente decreta tale per sé, tutto questo in verità è tale per ciascuno [...]. Nelle questioni di giusto e ingiusto, di pio ed empio, si è d’accordo nel sostenere rigorosamente che nulla di questo è di natura né possiede la sua essenza in proprio; ma semplicemente ciò che sembra al gruppo diventa vero dal momento in cui sembra e fino a quando sembra».

(18) Cfr., ad esempio, Seneca, De vita beata, VIII, 1: «Bisogna seguire la natura come guida; la ragione la osserva e la consulta. Quindi è la stessa cosa vivere felice e vivere secondo la natura (Natura enim duce utendum est: hanc ratio observat, hanc consulit. Idem est ergo beate vivere et secundum naturam)».

(19) Cicerone, De legibus, I, VI, 18: «Lex est ratio summa insita in natura quae iubet ea quae facienda sunt prohibetque contraria».

(20) Cfr. Am 1-2.

(21) Il giudaismo rabbinico si riferisce a sette imperativi morali che Dio ha dato a Noè per tutti gli uomini. Sono enumerati nel Talmud (Sanhedrin 56), 1) Non ti farai idoli. 2) Non ucciderai. 3) Non ruberai. 4) Non commetterai adulterio. 5) Non bestemmierai. 6) Non mangerai la carne di un animale vivo. 7) Stabilirai tribunali di giustizia per far rispettare i sei comandamenti precedenti. Mentre i 613 mitzot della Torah scritta e la loro interpretazione nella Torah orale riguardano soltanto gli ebrei, le leggi di Noè si rivolgono a tutti gli uomini.

(22) La letteratura sapienziale si interessa della storia soprattutto in quanto essa fa apparire certe costanti relative al cammino che conduce l’uomo verso Dio. I sapienti non disprezzano le lezioni della storia e il loro valore di rivelazione divina (cfr. Sir 44-51), ma hanno una viva coscienza del legame tra gli avvenimenti dipendenti da una coerenza che non è un avvenimento storico. Per comprendere questa identità all’interno della mutabilità e agire in modo responsabile in funzione di questa, la sapienza ricerca i princípi e le leggi strutturali piuttosto che precise prospettive storiche. Facendo cosí, la letteratura sapienziale si concentra sulla protologia, cioè sulla creazione iniziale con ciò che essa implica. Infatti la protologia tenta di descrivere la coerenza che si trova dietro gli avvenimenti storici. È una condizione a priori che consente di mettere in ordine tutti gli avvenimenti storici possibili. La letteratura sapienziale cerca dunque di valorizzare le condizioni che rendono possibile la vita di tutti i giorni. La storia descrive questi elementi in modo successivo, la sapienza va al di là della storia verso una descrizione atemporale di ciò che costituisce la realtà al tempo della creazione, «all’inizio», quando gli esseri umani furono creati a immagine di Dio.

(23) Cfr. Prv 6,6-9: «Va’ dalla formica, o pigro, guarda le sue abitudini e diventa saggio. Essa non ha né capo, né sorvegliante, né padrone, eppure d’estate si provvede il vitto, al tempo della mietitura accumula il cibo. Fino a quando, pigro, te ne starai a dormire? Quando ti scuoterai dal sonno?».

(24) Cfr. anche Lc 6,31: «E come volete che gli uomini facciano a voi, cosí anche voi fate a loro».

(25) Traduzione italiana della versione francese della Bibbia. Cfr. Bonaventura, s., Commentarius in Evangelium Lucae, c. 6, n. 76 («Opera omnia, VII», ed. Quaracchi, p. 156): «In hoc mandato [Lc 6,31] est consummatio legis naturalis, cuius una pars negativa ponitur Tobiae quarto et implicatur hic: “Quod ab alio oderis tibi fieri, vide ne tu aliquando alteri facias”»; (Pseudo-Bonaventura, Expositio in Psalterium, Ps 57,2 («Opera omnia, IX», ed. Vivès, p. 227); «Duo sunt mandata naturalia: unum prohibitivum, unde hoc “Quod tibi non vis fieri, alteri ne feceris”; aliud affirmativum, unde in Evangelio “Omnia quaecumque vultis ut faciant vobis homines, eadem facite illis”. Primum de malis removendis, secundum de bonis adipiscendis».

(26) Cfr. Concilio Vaticano I, Costituzione dogmatica Dei Filius, c. 2. Cfr. anche At 14,16-17: «Egli, nelle generazioni passate, ha lasciato che ogni popolo seguisse la sua strada; ma non ha cessato di dar prova di sé beneficandovi, concedendovi dal cielo piogge e stagioni ricche di frutti, fornendovi di cibo e riempiendo di letizia i vostri cuori».

(27) In Filone di Alessandria si trova l’idea secondo la quale Abramo, senza la Legge scritta, conduceva già «per natura» una vita conforme alla Legge. Cfr. Filone di Alessandria, De Abrahamo, § 275-276 (Introduzione, traduzione e note di J. Gorez, «Les œuvres de Philon d’Alexandrie, 20», Paris, 1966, 132-135): «Mosè dice: Quest’uomo [Abramo] ha osservato la legge divina e tutti gli ordini divini (Gn 26,5). E non aveva ricevuto un insegnamento di testi scritti. Ma, spinto dalla natura - non scritta - pone il suo zelo nel seguire da vicino slanci sani e senza difetto».

(28) Cfr. Rm 7,22-23: «Nel mio intimo io acconsento alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che combatte contro la legge della mia ragione (to nomo tou noos mou) e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra».

(29) Clemente di Alessandria, Stromata, I, c. 29, 182, 1 [«Sources chrétiennes», 30, 176].

(30) Agostino, s., Contra Faustum, XXII, c. 27 [PL 42, col. 418]: «Lex vero aeterna est ratio divina vel voluntas Dei, ordinem naturalem conservari iubens, perturbari vetans». Ad esempio, sant’Agostino condanna la menzogna, perché va direttamente contro la natura del linguaggio e la sua vocazione ad essere il segno del pensiero; cfr. Enchiridion, VII, 22 [Corpus christianorum, series latina, 46, 62]: «La parola non è stata data agli uomini per ingannarsi reciprocamente, ma per portare bene i loro pensieri alla conoscenza degli altri. Servirsi della parola per ingannare e non per il suo fine normale è dunque un peccato (Et utique verba propterea sunt instituta non per quae invicem se homines fallant sed per quae in alterius quisque notitiam cogitationes suas perferat. Verbis ergo uti ad fallaciam, non ad quod instituta sunt, peccatum est)».

(31) Agostino, s., De Trinitate, XIV, XV, 21 [Corpus christianorum, series latina, 50 A, 451]: «Queste regole dove sono scritte? L’uomo, anche ingiusto, dove riconosce ciò che è giusto? Dove vede che bisogna avere ciò che egli non ha? Dove sono scritte, se non nel libro di quel lume che si chiama la Verità? Là è scritta ogni legge giusta, di là essa passa nel cuore dell’uomo che pratica la giustizia; non emigra in lui, ma vi mette la sua impronta, come un sigillo che da un anello passa nella cera, ma senza lasciare l’anello (Ubinam sunt istae regulae scriptae, ubi quid sit iustum et iniustus agnoscit, ubi cernit habendum esse quod ipse non habet? Ubi ergo scriptae sunt, nisi in libro lucis illius quae veritas dicitur, unde omnis lex iusta describitur et in cor hominis qui operatur iustitiam non migrando sed tamquam imprimendo transfertur, sicut imago ex anulo et in ceram transit et anulum non relinquit?)».

(32) Cfr. Gaius, Instituta, 1. 1 (II sec. d.C.) (ed. J. Reinach, «Collection des universités de France», Paris, 1950, 1): «Quod vero naturalis ratio inter omnes homines constituit, id apud omnes populos peraeque custoditur vocaturque ius gentium, quasi quo iure omnes gentes utuntur. Populus itaque romanus partim suo proprio, partim communi omnium hominum iure utitur».

(33) San Tommaso d’Aquino distingue nettamente l’ordine politico naturale fondato sulla ragione e l’ordine religioso soprannaturale fondato sulla grazia della rivelazione. Egli si oppone ai filosofi musulmani ed ebrei medievali che attribuivano alla rivelazione religiosa un ruolo essenzialmente politico. Cfr. Quaestiones disputatae de veritate, q. 12, a. 3, ad 11: «La società degli uomini, in quanto è ordinata al fine della vita eterna può conservarsi soltanto con la giustizia della fede, il cui principio è la profezia. [...] Ma poiché questo fine è soprannaturale, sia la sua giustizia ordinata a tale fine sia la profezia che è il suo principio saranno soprannaturali. Invece la giustizia con la quale è governata la società umana in ordine al bene civile, si può ottenere quanto basta con i princípi del diritto naturale posti nell’uomo (Societas hominum secundum quod ordinatur ad finem vitae aeternae, non potest conservari nisi per iustitiam fidei, cuius principium est prophetia [...] Sed cum hic finis sit supernaturalis, et iustitia ad hunc finem ordinata, et prophetia, quae est eius principium, erit supernaturalis. Iustitia vero per quam gubernatur societas humana in ordine ad bonum civile, sufficienter potest haberi per principia iuris naturalis homini indita)».

(34) Cfr. Benedetto XVI, Discorso tenuto a Ratisbona in occasione dell’incontro con i rappresentanti del mondo della scienza (12 settembre 2006), in AAS 98 (2006) 733: «Alla fine del Medioevo si sono sviluppate nella teologia tendenze che hanno manifestato questa sintesi tra lo spirito greco e lo spirito cristiano. Di fronte a quello che è detto l’intellettualismo agostiniano e tomista, inizia con Duns Scoto la teoria del volontarismo che, nei suoi sviluppi ulteriori, ha condotto a dire che noi possiamo conoscere di Dio soltanto la sua voluntas ordinata. Al di là di questa, ci sarebbe la libertà di Dio, in virtú della quale egli avrebbe potuto creare e anche fare il contrario di ciò che ha fatto. Qui si stabiliscono posizioni che possono [...] tendere verso l’immagine di un Dio arbitrario, che non è piú legato né al vero né al bene. La trascendenza e l’alterità di Dio sono poste cosí in alto che anche la nostra ragione e il nostro senso del vero e del bene non sono piú un autentico specchio di Dio, le cui immense possibilità, dietro alle sue effettive decisioni, rimangono per noi eternamente inaccessibili e nascoste».

(35) Th. Hobbes, Leviathan, Parte II, c. 26 (tr. F. Tricaud, Paris, 1971, 295, nota 81): «In una città costituita, l’interpretazione delle leggi di natura non dipende dai dottori, dagli scrittori che hanno trattato di filosofia morale, ma dall’autorità civile. Infatti le dottrine possono essere vere: ma è l’autorità, non la verità, che fa la legge».

(36) La posizione dei Riformatori di fronte alla legge naturale non è monolitica. Piú di Martin Lutero, Giovanni Calvino, fondandosi su san Paolo, riconosce l’esistenza della legge naturale come norma etica, anche se è radicalmente incapace di giustificare l’uomo. «È una cosa volgare che l’uomo sia sufficientemente istruito nella retta regola del vivere bene da quella legge naturale di cui parla l’Apostolo [...]. Il fine della legge naturale è di rendere l’uomo inescusabile; perciò la possiamo definire propriamente cosí: è un sentimento della coscienza, con cui essa distingue sufficientemente tra il bene e il male, per togliere all’uomo la copertura dell’ignoranza, in quanto è rimproverato dalla sua stessa testimonianza» (L’Istituzione cristiana, libro II, c. 2, 22). Nei tre secoli successivi alla Riforma, per i protestanti la legge naturale è servita da fondamento alla giurisprudenza. Soltanto con la secolarizzazione della legge naturale, nel XIX secolo, la teologia protestante ne ha preso le distanze. Solamente a partire da tale epoca, si manifesta dunque l’opposizione delle opinioni cattolica e protestante sulla questione della legge naturale. Ma oggi l’etica protestante sembra manifestare un nuovo interesse per questa nozione.

(37) L’espressione ha origine in Hugo Grotius, De iure belli et pacis, Prolegomena: «Haec quidem quae iam diximus locum aliquem haberent, etsi daremus, quod sine summo scelere dari nequit, non esse Deum».

(38) Graziano, Concordantia discordantium canonum, pars I, dist. 1 [PL 187, col. 29]: «Humanum genus duobus regitur, naturali videlicet iure et moribus. Ius naturale est quod in lege et Evangelio continetur, quo quisque iubetur alii facere quod sibi vult fieri, et prohibetur alii inferre quod sibi nolit fieri. [...] Omnes leges aut divinae sunt aut humanae. Divinae natura, humanae moribus constant, ideoque hae discrepant, quoniam aliae aliis gentibus placent».

(39) Cfr. Paolo VI, Enciclica Humanae vitae, n. 4, in AAS 60 (1968) 483.

(40) Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1954-1960; Giovanni Paolo II, Enciclica Veritatis splendor, nn. 40-53.

(41) Benedetto XVI, Discorso del 12 febbraio 2007 al Congresso internazionale sulla legge morale naturale organizzato dalla Pontificia Università Lateranense, in AAS 99 (2007) 243.

(42) Cfr. Id., Discorso del 18 aprile 2008 davanti all’Assemblea generale dell’ONU: «Questi diritti [i diritti dell’uomo] trovano il loro fondamento nella legge naturale inscritta nel cuore dell’uomo e presente nelle diverse culture e civiltà. Separare i diritti umani da tale contesto significherebbe limitare la loro portata e cedere a una concezione relativista, per la quale il senso e l’interpretazione dei diritti potrebbe variare e la loro universalità potrebbe essere negata in nome delle diverse concezioni culturali, politiche, sociali e anche religiose».

(43) Cfr. Giovanni Paolo II, Enciclica Evangelium vitae, nn. 73-74.

(44) Cfr. Id., Enciclica Veritatis splendor, n. 44: «La Chiesa si è riferita spesso alla dottrina tomista della legge naturale, integrandola nel suo insegnamento morale».

(45) Tommaso d’Aquino, s., Summa theologiae, Ia-IIae, q. 94, a. 2: «Il primo precetto della legge è che si deve fare e perseguire il bene ed evitare il male. Su questo si fondano tutti gli altri precetti della legge di natura, che cioè si deve fare ed evitare tutto ciò che riguarda i precetti della legge di natura, che la ragione pratica riconosce naturalmente come beni umani (Hoc est primum praeceptum legis, quod bonum est faciendum et prosequendum, et malum vitandum. Et super hoc fundantur omnia alia praecepta legis naturae, ut scilicet omnia illa facienda vel vitanda pertineant ad praecepta legis naturae, quae ratio practica naturaliter apprehendit esse bona humana)».

(46) Cfr. ivi, Ia, q. 79, a. 12; Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1780.

(47) Cfr. R. Guardini, Liberté, grâce et destinée (tr. J. Ancelet-Hustache, Paris, 1969, 46-47): «Compiere il bene significa pure compiere ciò che rende feconda e ricca l’esistenza. Cosí, il bene è ciò che preserva la vita e la conduce alla sua pienezza, ma soltanto quando è compiuto per se stesso».

(48) Cfr. Tommaso d’Aquino, s., Summa theologiae, Ia-IIae, q. 91, a. 2: «Fra tutti gli esseri, la creatura ragionevole è soggetta alla provvidenza divina in modo piú eccellente, poiché essa stessa è partecipe di questa provvidenza, provvedendo a sé e agli altri. In questa creatura c’è dunque una partecipazione alla ragione eterna, secondo la quale essa possiede un’inclinazione naturale al modo di agire e al fine che sono dovuti. Questa partecipazione alla legge eterna nella creatura razionale si dice legge naturale (Inter cetera autem rationalis creatura excellentiori quodam modo divinae providentiae subiacet, inquantum et ipsa fit providentiae particeps, sibi ipsi et aliis providens. Unde et in ipsa participatur ratio aeterna, per quam habet naturalem inclinationem ad debitum actum et finem. Et talis participatio legis aeternae in rationali creatura lex naturalis dicitur)», Questo testo è citato in Giovanni Paolo II, Enciclica Veritatis splendor, n. 43. Cfr. pure Concilio Vaticano II, Dichiarazione Dignitatis humanae, n. 3: «La norma suprema della vita umana è la stessa legge divina eterna, oggettiva e universale, per mezzo della quale Dio con un suo disegno di sapienza e amore ordina, dirige e governa il mondo intero e le vie della comunità umana. E Dio rende partecipe l’uomo di questa legge, cosicché l’uomo, per soave disposizione della provvidenza divina, possa conoscere sempre piú l’immutabile verità».

(49) Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 36.

(50) Cfr. Tommaso d’Aquino, s., Summa theologiae, Ia-IIae, q. 94, a. 2.

(51) Cfr. ivi, Ia-IIae, q. 94, a. 6.

(52) Cfr. Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, art. 3.5.17.22.

(53) Cfr. ivi, articolo 16.

(54) Cfr. Aristotele, Politica, I, 2 (1253 a 2-3); Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 12, § 4.

(55) Girolamo, s., Epistolae 121, 8 [PL 22, col. 1024].

(56) Cfr. Tommaso d’Aquino, s., Summa theologiae, Ia-IIae, q. 94, a. 6: «Quanto ai precetti secondi, la legge naturale può essere cancellata dal cuore degli uomini, sia per cattive esortazioni, come nelle scienze speculative si insinuano errori riguardo a conclusioni necessarie, sia per cattive abitudini e comportamenti viziosi, come alcuni non consideravano peccati le rapine e neppure i vizi contro natura, come dice san Paolo (Rm 1,24). (Quantum vero ad alia praecepta secundaria, potest lex naturalis deleri de cordibus hominum, vel propter malas persuasiones, eo modo quo etiam in speculativis errores contingunt circa conclusiones necessarias; vel etiam propter pravas consuetudines et habitus corruptos; sicut apud quosdam non reputabantur latrocinia peccata, vel etiam vitia contra naturam, ut etiam apostolus dicit, ad Rom. 1,24)».

(57) Tommaso d’Aquino, s., Summa theologiae, Ia-IIae, q. 94, a. 4: «Ratio practica negotiatur circa contingentia, in quibus sunt operationes humanae, et ideo, etsi in communibus sit aliqua necessitas, quanto magis ad propria descenditur, tanto magis invenitur defectus [...]. In operativis autem non est eadem veritas vel rectitudo practica apud omnes quantum al propria, sed solum quantum ad communia, et apud illos apud quod est eadem recititudo in propriis, non est aequaliter omnibus nota. [...]. Et hoc tanto magis invenitur deficere, quanto magis ad particularia descenditur».

(58) Cfr. Id., Sententia libri Ethicorum, Lib. VI, 6 (ed. Leonina, t. XLVII, 353-354): «La prudenza non considera soltanto l’universale, in cui non c’è azione; ma deve conoscere il singolare, poiché è attiva, cioè principio di azione. Ora, l’azione è sul singolare. Perciò alcuni che non hanno una scienza universale sono piú attivi in alcune realtà particolari di quelli che hanno una scienza universale, perché hanno l’esperienza delle realtà particolari. [...]. Poiché dunque la prudenza è una ragione attiva, bisogna che l’uomo prudente abbia entrambe le conoscenze, cioè l’universale e la particolare; oppure, se ne ha una sola, è meglio che abbia la conoscenza del particolare, che è piú vicina all’operazione (Prudentia enim non considerat solum universalia, in quibus non est actio; sed oportet quod cognoscat singularia, eo quod est activa, idest principium agendi. Actio autem est circa singularia. Et inde est, quod quidam non habentes scientiam universalium sunt magis activi circa aliqua particularia, quam illi qui habent universalem scientiam, eo quod sunt in aliis particularibus experti. [...]. Quia igitur prudentia est ratio activa, oportet quod prudens habeat utramque notitiam, scilicet et universalium et particularium; vel, si alteram solum contingat ipsum habere, magis debet habere hanc, scilicet notitiam particularium quae sunt propinquiora operationi)».

(59) Ad esempio, la psicologia sperimentale sottolinea l’importanza della presenza attiva dei genitori dell’uno e dell’altro sesso per lo sviluppo armonioso della personalità del bambino, o ancora il ruolo decisivo dell’autorità paterna per la costruzione della sua identità. La storia politica suggerisce che la partecipazione di tutti alle decisioni che riguardano l’insieme della comunità è generalmente un fattore di pace sociale e di stabilità politica.

(60) A questo primo livello, l’espressione della legge naturale talvolta fa astrazione da un riferimento esplicito a Dio. Certamente, l’apertura alla trascendenza fa parte dei comportamenti virtuosi che ci si devono attendere dall’uomo realizzato, ma Dio non è ancora necessariamente riconosciuto come il fondamento e la fonte della legge naturale né come il fine ultimo che mobilita e gerarchizza i diversi comportamenti virtuosi. Questo non riconoscimento esplicito di Dio come norma morale ultima sembra che impedisca all’approccio «empirico» alla legge naturale di costituirsi in dottrina propriamente morale.

(61) Bonaventura, s., Commentarius in Ecclesiasten, cap. 1 («Opera omnia, VI», ed. Quaracchi, 1893, p. 16): «Verbum divinum est omnis creatura, quia Deum loquitur».

(62) Cfr. Tommaso d’Aquino, s., Summa theologiae, Ia-IIae, q. 91, a. 1: «La legge non è altro che una prescrizione della ragione pratica nel principe che governa una comunità perfetta. Ora, è manifesto - essendo ammesso che il mondo è governato dalla provvidenza divina - che tutta la comunità dell’universo è governata da un piano divino. Perciò il piano del governo delle cose che è in Dio come nel capo dell’universo ha valore di legge. E poiché il piano divino non concepisce nulla nel tempo ma ha una concezione eterna [...], ne segue che tale legge deve dirsi eterna (Nihil est aliud lex quam quoddam dictamen practicae rationis in principe qui gubernat aliquam communitatem perfectam. Manifestum est autem, supposito quod mundus divina providentia regatur [...], quod tota communitas universi gubernatur ratione divina. Et ideo ipsa ratio gubernationis rerum in Deo sicut in principe universitatis existens, legis habet rationem. Et quia divina ratio nihil concipit ex tempore, sed habet aeternum conceptum [...], inde est quod huiusmodi legem oportet dicere aeternam)».

(63) Cfr. ivi, Ia-IIae, q. 91, a. 2: «Unde patet quod lex naturalis nihil aliud est quam participatio legis aeternae in rationali creatura».

(64) Giovanni Paolo II, Enciclica Veritatis splendor, n. 41: «L’insegnamento sulla legge naturale come fondamento dell’etica è accessibile di diritto alla ragione naturale. La storia lo attesta. Ma, di fatto, questo insegnamento ha raggiunto la piena maturità soltanto sotto l’influenza della rivelazione cristiana. Anzitutto perché la comprensione della legge naturale come partecipazione alla legge eterna è strettamente legata a una metafisica della creazione. Ora, questa, benché sia di diritto accessibile alla ragione filosofica, è stata veramente presentata e spiegata soltanto sotto l’influenza del monoteismo biblico. E poi perché la Rivelazione, ad esempio attraverso il Decalogo, spiega, conferma, purifica e completa i princípi fondamentali della legge naturale».

(65) La teoria dell’evoluzione, che tende a ridurre la specie a un equilibrio precario e provvisorio nel flusso del divenire, non rimette forse in questione radicalmente il concetto stesso di natura? Infatti, qualunque sia il suo valore sul piano della descrizione biologica empirica, la nozione di specie risponde a un’esigenza permanente della spiegazione filosofica del vivente. Soltanto il ricorso a una specificità formale, irriducibile alla somma delle proprietà materiali, consente di dare ragione dell’intelligibilità del funzionamento interno di un organismo vivente considerato come un tutto coerente.

(66) La dottrina teologica del peccato originale sottolinea fortemente l’unità reale della natura umana. Questa non può ridursi a una semplice astrazione né a una somma di realtà individuali. Essa indica piuttosto una totalità che abbraccia tutti gli uomini che condividono uno stesso destino. Il semplice fatto di essere nati (nasci) ci pone in relazioni durevoli di solidarietà con tutti gli altri uomini.

(67) Boezio, Contra Eutychen et Nestorium, c. 3 [PL 64, col. 1344]: «Persona est rationalis naturae individua substantia». Cfr. Bonaventura, s., Commentaria in librum I Sentantiarum, d. 25, a. 1, q. 2; Tommaso d’Aquino, s., Summa theologiae, Ia, q. 29, a. 1.

(68) Benedetto XVI, Enciclica Spe salvi, n. 5.

(69) Cfr. pure Atanasio di Alessandria, Traité contre les païens, 42 [«Sources chrétiennes», 18, 195]): «Come un musicista che accorda la lira unisce con la sua arte le note gravi con le note acute, le note medie con le altre, per eseguire una sola melodia: cosí la Sapienza di Dio, il Verbo, tenendo l’universo come una lira, unisce gli esseri dell’aria con quelli della terra, e gli esseri del cielo con quelli dell’aria; combina l’insieme con le parti; conduce tutto con il suo comando e con la sua volontà; produce cosí, nella bellezza e nell’armonia, un solo mondo e un solo ordine del mondo».

(70) La physis degli antichi, prendendo atto dell’esistenza di un certo non-essere (la materia), preservava la contingenza delle realtà terrestri e opponeva una resistenza alle pretese della ragione umana di imporre all’insieme della realtà un ordine determinista puramente razionale. Cosí lasciava aperta la possibilità di un’azione effettiva della libertà umana nel mondo.

(71) Cfr. Giovanni Paolo II, Lettera alle famiglie, n. 19: «La filosofia, che ha enunciato il principio del cogito, ergo sum, “penso, dunque sono”, ha pure impresso nella concezione moderna dell’uomo il carattere dualista che la distingue. È proprio del razionalismo opporre radicalmente nell’uomo lo spirito al corpo e il corpo allo spirito. Al contrario, l’uomo è una persona nell’unità del suo corpo e del suo spirito. Il corpo non può mai essere ridotto a una pura materia: è un corpo «spiritualizzato», come lo spirito è cosí profondamente unito al corpo che si può dire uno spirito «incarnato».

(72) L’ideologia del gender, che nega ogni significato antropologico e morale alla differenza naturale dei sessi, si inscrive in questa prospettiva dualista. Cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo, n. 2: «Per evitare ogni supremazia dell’uno o dell’altro sesso, si tende a cancellare le loro differenze, considerate come semplici effetti di un condizionamento storico e culturale. In questo livellamento, la differenza corporale chiamata sesso è minimizzata, mentre la dimensione puramente culturale, chiamata genere, è sottolineata al massimo e considerata come primordiale. [...] La radice immediata di questa tendenza si trova nell’ambito della questione della donna, ma la sua motivazione piú profonda dev’essere ricercata nel tentativo della persona umana di liberarsi dai suoi condizionamenti biologici. Secondo questa prospettiva antropologica, la natura umana non avrebbe in sé caratteristiche che si impongano in modo assoluto: ogni persona potrebbe o dovrebbe determinarsi secondo il suo buon volere, in quanto sarebbe libera da ogni predeterminazione legata alla sua costituzione essenziale».

(73) Giovanni Paolo II, Enciclica Veritatis splendor, n. 50.

(74) Il dovere di umanizzare la natura nell’uomo è inseparabile dal dovere di umanizzare la natura esterna. Questo giustifica l’immenso forzo compiuto dagli uomini per emanciparsi dalle coercizioni della natura fisica nella misura in cui esse ostacolano lo sviluppo dei valori propriamente umani. La lotta contro le malattie, la prevenzione dei fenomeni naturali ostili, il miglioramento delle condizioni di vita sono di per sé opere che attestano la grandezza dell’uomo chiamato a riempire la terra e a sottometterla (cfr. Gn 1,28). Cfr. Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 57.

(75) Reagendo al pericolo del fisicismo e insistendo giustamente sul ruolo decisivo della ragione nella elaborazione della legge naturale, alcune teorie contemporanee della legge naturale trascurano, anzi rifiutano, il significato morale dei dinamismi naturali pre-razionali. La legge naturale sarebbe detta «naturale» soltanto in riferimento alla ragione, che definirebbe il tutto della natura dell’uomo. Obbedire alla legge naturale si ridurrebbe dunque ad agire in modo ragionevole, cioè ad applicare all’insieme dei comportamenti un ideale univoco di razionalità generato dalla sola ragione pratica. Ciò significa identificare a torto la razionalità della legge naturale con la sola razionalità della ragione umana senza tener conto della razionalità immanente alla natura.

(76) Cfr. Tommaso d’Aquino, s., Summa theologiae, IIa-IIae, q. 154, a. 11. La valutazione morale dei peccati contro natura deve tener conto non soltanto della loro gravità oggettiva ma anche delle disposizioni soggettive, spesso attenuanti, di coloro che li commettono.

(77) Cfr. Gn 2,15.

(78) Cfr. Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, nn. 73-74. Il Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1882, precisa che «certe società, quali la famiglia e la comunità civica, sono piú immediatamente rispondenti alla natura dell’uomo».

(79) Cfr. Giovanni XXIII, Enciclica Mater et Magistra, n. 65; Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 26 § 1; Dichiarazione Dignitatis humanae, n. 6.

(80) Cfr. Giovanni XXIII, Enciclica Pacem in terris, n. 55.

(81) Cfr. ivi, n. 37; Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, nn. 192-203.

(82) Cfr. Tommaso d’Aquino, s., Summa theologiae, Ia-IIae, q. 95, a. 2.

(83) Agostino, s., De libero arbitrio, I, V, 11 [Corpus christianorum, series latina, 29, 217]: «Infatti non mi sembra legge, quella che non è giusta»; Tommaso d’Aquino, s., Summa theologiae, Ia-IIae, q. 93, a. 3, ad 2: «La legge umana ha ragione di legge in quanto è conforme alla retta ragione; a questo titolo, è manifesto che essa deriva dalla legge eterna. Ma, nella misura in cui si allontana dalla ragione, è dichiarata legge iniqua, quindi non ha piú ragione di legge, ma è piuttosto una violenza (Lex humana intantum habet rationem legis, inquantum est secundum rationem rectam, et secundum hoc manifestum est quod a lege aeterna derivatur. Inquantum vero a ratione recedit, sic dicitur lex iniqua, et sic non habet rationem legis, sed magis violentiae cuiusdam)»; Ia-IIae, q. 95, a. 2: «Ogni legge posta dagli uomini non ha ragione di legge che nella misura in cui deriva dalla legge naturale. Se in qualche punto si allontana dalla legge naturale, allora non è piú una legge, ma una corruzione della legge (Unde omnis lex humanitus posita intantum habet de ratione legis, inquantum a lege naturae derivatur. Si vero in aliquo a lege naturali discordet, iam non erit lex sed legis corruptio)».

(84) Cfr. Tommaso d’Aquino, s., Summa theologiae, Ia-IIae, q. 97, a. 1.

(85) Per sant’Agostino, il legislatore, per fare una buona opera, deve consultare la legge eterna; cfr. Agostino, s., De vera religione, XXXI, 58 [Corpus christianorum, series latina, 32, 225]: «Il legislatore temporale, se è saggio e buono, consulta la legge eterna, che nessun uomo può giudicare, affinché secondo le sue norme immutabili possa riconoscere ciò che in quel momento conviene comandare o vietare (Conditor tamen legum temporalium, si vir bonus est et sapiens, illam ipsam consulit aeternam, de qua nulli animae iudicare datum est; ut secundum eius immutabiles regulas, quid sit pro tempore iubendum vetandumque discernat)». In una società secolarizzata, nella quale non tutti riconoscono il segno di questa legge eterna, la ricerca, la difesa e l’espressione del diritto naturale mediante la legge positiva ne garantiscono la legittimità.

(86) Cfr. Agostino, s., De Civitate Dei, I, 35 [Corpus christianorum, series latina, 47, 34-35].

(87) Cfr. Pio XII, Discorso del 23 marzo 1958, in AAS 25 (1958) 220.

(88) Cfr. Pio XI, Enciclica Quadragesimo anno, nn. 79-80.

(89) Cfr. anche Gv 1,3-4; 1 Cor 8,6; Eb 1,2-3.

(90) Cfr. Gv 3,19-20; Rm 1,24-25.

(91) Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 22. Cfr. Ireneo di Lione, s., Contro le eresie, V, 16,2 [Sources chrétiennes, 153, 216-217]: «Nei tempi anteriori, si diceva certamente che l’uomo era stato fatto a immagine di Dio, ma ciò non appariva, perché il Verbo era ancora invisibile, egli a cui immagine l’uomo era stato fatto: del resto, per questo motivo la somiglianza si era facilmente perduta. Ma quando il Verbo di Dio si è fatto carne, ha confermato l’una e l’altra: ha fatto apparire l’immagine in tutta la sua verità, diventando egli stesso quello che era la sua immagine, e ha ristabilito la somiglianza in modo stabile, rendendo l’uomo del tutto simile al Padre invisibile per mezzo del Verbo da allora visibile».

(92) Cfr. Agostino, s., Enarrationes in Psalmos, LVII, 1 [Corpus christianorum, series latina, 39, 708]: «Per mano del Creatore, la Verità ha scritto nei nostri cuori queste parole: “Non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te”. Nessuno poteva ignorare questo principio, anche prima che fosse data la legge, perché doveva servire a giudicare proprio quelli a cui la legge non era stata data. Ma per impedire agli uomini di lamentarsi e di dire che era loro mancato qualche cosa, si è scritto anche nelle tavole quello che essi non leggevano piú nei loro cuori. Non è che non lo possedessero come scritto, ma non volevano leggerlo. Si pose perciò sotto i loro occhi quello che sarebbero obbligati a vedere nella propria coscienza: la voce che Dio ha fatto sentire dal di fuori ha costretto l’uomo a rientrare in se stesso (Quandoquidem manu formatoris nostri in ipsis cordibus nostris scripsit: “Quod tibi non vis fieri, ne facias alteri”. Hoc et antequam lex daretur nemo ignorare permissus est, ut esset unde iudicarentur et quibus lex non esset data. Sed ne sibi homines aliquid defuisse quaererentur, scriptum est et in tabulis quod in cordibus non legebant. Non enim scriptum non habebant, sed legere nolebant. Oppositum est oculis eorum quod in conscientia videre cogerentur; et quasi forinsecus admota voce Dei, ad interiora sua homo compulsus est)». Cfr. Tommaso d’Aquino, s., In III Sent., d. 37, q. 1, a. 1: «Necessarium fuit ea quae naturalis ratio dictat, quae dicuntur ad legem naturae pertinere, populo in praeceptum dari, et in scriptum redigi [...] quia per contrariam consuetudinem, qua multi in peccato praecipitabantur, iam apud multos ratio naturalis, in qua scripta erant, obtenebrata erat»; Summa theologiae, Ia-IIae, q. 98, a. 6.

(93) Cfr. Sir 24,23 (Vulgata: 24,32-33).

(94) Cfr. Tommaso d’Aquino, s., Summa theologiae, Ia-IIae, q. 100.

(95) La liturgia bizantina di san Giovanni Crisostomo esprime bene la convinzione cristiana quando mette sulla bocca del sacerdote che benedice il diacono nel ringraziamento dopo la comunione: «Cristo nostro Dio, che sei il compimento della Legge e dei Profeti e che hai compiuto tutta la missione ricevuta dal Padre, riempi i nostri cuori di gioia e di letizia, in ogni tempo, ora e sempre, e nei secoli dei secoli. Amen».

(96) Cfr. Gal 3,24-26: «Cosí la Legge è per noi come un pedagogo che ci ha condotti a Cristo, perché fossimo giudicati per la fede. Ma appena è giunta la fede, noi non siamo piú sotto un pedagogo. Tutti voi infatti siete figli di Dio per la fede in Gesú Cristo». Sulla nozione teologica di compimento, cfr. Pontificia Commissione Biblica, Il popolo ebraico e le sue sante Scritture nella Bibbia cristiana, specialmente n. 21.

(97) Cfr. Mt 22,37-40; Mc 12,29-31; Lc 10,27.

(98) Cfr. Lc 6,27-36.

(99) Cfr. Lc 10,25-37.

(100) Cfr. Gv 15,13.

(101) Cfr. anche Ger 31,33-34.

(102) Cfr. Tommaso d’Aquino, s., Summa theologiae, Ia-IIae, q. 106, a. 1: «La cosa principale nella legge della nuova alleanza, in cui risiede tutta la sua forza, è la grazia dello Spirito Santo che è data per la fede in Cristo. Ecco perché la nuova legge è principalmente la grazia stessa dello Spirito Santo, che è data a quelli che credono in Cristo (Id autem quod est potissimum in lege novi testamenti, et in quo tota virtus eius consistit, est gratia Spiritus sancti, quae datur per fidem Christi. Et ideo principaliter lex nova est ipsa gratia Spiritus sancti, quae datur Christi fidelibus)».

(103) Cfr. ivi, Ia-IIae, q. 108, a. 1, ad 2: «Poiché la grazia dello Spirito Santo è come un abito interiore infuso in noi, che ci inclina a operare rettamente, ci fa compiere liberamente le opere che convengono alla grazia ed evitare quelle che le sono contrarie. Cosí dunque, la nuova legge è detta doppiamente legge della libertà. Anzitutto perché non ci costringe a compiere o ad evitare se non gli atti di per sé necessari o contrari alla salvezza, che sono comandati o vietati dalla legge. Poi perché ci fa compiere liberamente questi comandi o divieti, in quanto li compiamo per lo stimolo interiore della grazia. Per questi due motivi, la nuova legge è detta “legge perfetta, legge della libertà” (Gc 1,25) (Quia igitur gratia Spiritus sancti est sicut habitus nobis infusus inclinans nos ad recte operandum, facit nos libere operari ea quae conveniunt gratiae, et vitare ea quae gratiae repugnant. Sic igitur lex nova dicitur lex libertatis dupliciter. Uno modo, quia non arctat nos ad facienda vel vitanda aliqua, nisi quae de se sunt vel necessaria vel repugnantia saluti, quae cadunt sub praecepto vel prohibitione legis. Secundo, quia huiusmodi etiam praecepta vel prohibitiones facit nos libere implere, inquantum ex interiori instinctu gratiae ea implemus. Et propter haec duo lex nova dicitur lex perfectae libertatis, Iac 1,25)».

(104) Id., Quodlibeta, IV, q. 8, a. 2: «La nuova legge, legge della libertà è costituita dai precetti morali della legge naturale, dagli articoli di fede e dai sacramenti della grazia (Lex nova, quae est lex libertatis [...] est contenta praeceptis moralibus naturalis legis, et articulis fidei, et sacramentis gratiae)».

(105) Giovanni Paolo II, Discorso del 18 gennaio 2002, in AAS 94 (2002) 334.

 

 

 

 

 

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