Testamenti al computer

In tutte le pagine che precedono si sono gettati in ogni direzione degli scandagli che - pure insufficienti, incompleti come sono - sembrano però confermare il sospetto che ci muove: ciò che è davvero cristiano non sarà per caso anche davvero umano?

Una risposta positiva non sarebbe di poco conto, visto che i nuovi sapienti si presentano come ambasciatori dei veri "umanesimi", quelli che per trionfare a vantaggio di tutti dovrebbero dissolvere la disumanità, l'antiumanesimo cristiani, cattolici in particolare.

Umanesimi - al dire di quei signori - davvero degni dei moderni. Ma, questo della "modernità", può essere un tasto da toccare con qualche prudenza. C'è infatti qualcosa di più "moderno" dei computers, degli elaboratori elettronici? Eppure, (che strano), proprio dall'uso di quegli strumenti applicati alle scienze umane sembra venire un avvertimento a tanta modernità che, invece di tentare una sintesi difficile ma feconda con il passato, l'ha fuggito come fosse soltanto un deserto inospitale. E, per converso, da quei modernissimi apparati sembra uscire una conferma sul campo, dunque non teorica ma concreta, dell'efficacia dell'annuncio cristiano.

 

 Testamenti al computer

...hanno cominciato a passare al computer serie di documenti che altrimenti sfuggirebbero

alla possibilità d'indagine dello studioso armato solo dei suoi occhi e della sua penna...

 

 

 

Che succede, dunque? Succede che, battendo i nuovi sentieri della "quantità", storici d'avanguardia hanno cominciato a passare al computer serie di documenti che altrimenti sfuggirebbero alla possibilità d'indagine dello studioso armato solo dei suoi occhi e della sua penna. Il trattamento elettronico è stato così applicato a una delle più ricche e finora inesplorate fonti storiche: le raccolte di testamenti che, in alcuni Paesi, sono conservate per legge da secoli negli archivi notarili. Massa enorme di documenti che, più che ogni altro, permettono di ricostruire le mentalità delle varie epoche, l'atteggiamento degli uomini davanti alla morte. Uno di quegli storici quantitativi, Michel Vovelle, ha passato così al computer le decine di migliaia di testamenti provenienti da una regione francese, la Provenza del diciottesimo secolo.

Un'epoca in cui ancora ben pochi - anche tra i più poveri - morivano senza mettere su carta (e con grande anticipo, spesso all'inizio stesso della maturità) le loro ultime disposizioni. Tra i segni dell'oggi che la dicono lunga c'è anche la caduta verticale della pratica testamentaria: chi mai osa pensare in anticipo alla sua morte? Chi, in queste società di struzzi, ha forza sufficiente per prevedere i suoi funerali? Una forza, invece, che si conservava ancora nei primi decenni del Settecento in zone periferiche come la Provenza dove - mentre nelle città già infuriavano i "lumi" - sopravviveva quasi intatta la cristianità, la societas christiana. Con il suo bene e con il suo male, il suo attivo e il suo passivo.

Dell'attivo fa senza dubbio parte quanto lo storico Vovelle ha concluso. Sentiamolo. «Quei testamenti - dice - danno testimonianza straordinaria di una società riappacificata con la vita e con la morte come forse mai prima e come certamente mai più in seguito. Una società realista e adulta dove nessuno, a qualunque classe sociale appartenga, sembra cedere alla tentazione di nascondersi ciò che non si può cancellare». Continua lo studioso: «Tutti i testamenti iniziano con una frase scritta di proprio pugno dai colti e dettata al notaio dagli analfabeti. È una frase che (dopo l'invocazione alla Trinità: In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti) dice invariabilmente qualcosa come: "Considerando che nulla è più certo della morte, nulla più incerto della sua ora, io sottoscritto dispongo qui le seguenti mie ultime volontà...". Tutto è regolato con anticipo, in semplicità e pace, senza timori e senza morbosità.

 

 Vita mutatur non tollitur

 

 

 

E tutto è pervaso non dalla disperazione e neppure dall'inquietudine o dalla paura, bensì dalla speranza, spesso da una gioia rattenuta». Quella, non dimentichiamolo, era una società di uomini che, morendo attorniati dai propri cari, potevano permettersi di dire loro una parola semplice e incredibile: "arrivederci". Era la società che di quel letto di morte non faceva un ripugnante oggetto da nascondere ma una cattedra.

Il morente, dopo aver chiesto e dato perdono ai presenti, dava la sua benedizione. «Poteva essere un miserabile o un giovanissimo - constata Philippe Ariès - eppure tutti in quei momenti erano investiti di un'autorità sovrana proprio in forza della vicinanza al mistero della morte e dunque alla Verità stessa».

Quell'ultimo scorcio settecentesco di chrétienté, continua Vovelle, mostra anche attraverso i suoi testamenti come «il morire fosse un fatto realmente collettivo, sociale, prima che il secolo seguente, l'Ottocento, lo spostasse dal grande quadro della comunità tutta intera al chiuso del nucleo familiare». La solidarietà sociale si spingeva al punto di creare ordini, congregazioni, confraternite con il compito precipuo di pregare senza sosta per gli agonizzanti.

Dunque (parola di computer) dopo tanti secoli di cristianesimo proposto e, ahimè!, talvolta imposto, almeno a questo si era giunti: riconciliare l'uomo con la sua vita e la sua morte, unirlo in solidarietà profonda e totale con gli altri, partecipi del suo stesso destino. Disse Bertrand Russell: «Credo che in tutto il calendario non ci sia un solo santo la cui santità sia dovuta a qualche opera di vera utilità sociale». Lasciamo stare ogni altra considerazione che ci porterebbe troppo lontano. Per limitarci al nostro tema: sarà davvero «priva di vera utilità sociale» una visione della vita che spingeva non soltanto i pochi santi ma anche il grosso dei fedeli "normali" a sentirsi liberati «dalla inquietudine e dalla paura», a scoprirsi pervasi di «speranza» e, magari «di gioia rattenuta»? Davvero inutile o dannoso un messaggio che, malgrado tutto, aveva pur creato e i documenti stanno lì a provarlo - «una società realista ed adulta?».

Stando ad Ariès, con la sua predicazione e la sua liturgia la Chiesa era riuscita a dare "uno stile alla morte". È verità storicamente documentata, e non soltanto dalle raccolte d'archivio. Sono ormai passati vent'anni mentre scrivo, ma chi li visse ricorda ancora i giorni della "morte in pubblico" di un papa, Giovanni XXIII. Seppure attraverso lo specchio deformante dei mass-media, quella fine straziante eppur così misteriosamente serena diede a milioni di uomini - credenti e no - più conforto che angoscia. Sino al punto da turbare (per quanto almeno se ne disse) il brutale e rozzo despota di turno al Cremlino, Nikita Kruscev. Ma "uno stile per la morte" non è tutto. Già Platone diceva che «compito della filosofia è insegnare all'uomo l'arte di ben morire». Gesù - e, sulla sua parola, la sua Chiesa - vanno ben oltre ogni filosofia: ciò a cui tendono non è soltanto l'arte di morire; ma l'arte di morire per vivere. Ciò che insegnano è uno stile per risorgere (cfr. MESSORI V., Scommessa sulla morte. La proposta cristiana: illusione o speranza?, Torino 19823, 334-337).

 

 

 

N.B. Si raccomanda la consultazione del testo integrale (con le note critiche).

Le immagini presenti in questa pagina non fanno parte del testo originale.

 

 

 

 

 

 

Sito della Società Editrice Internazionale