Gli anni della formazione

Giovanni Semeria, nato orfano di padre, lasciò la terra d’origine alla volta del Piemonte, dove compí gli studi elementari. Passò successivamente a Cremona, presso il Collegio Vida, retto dai gesuiti. Scrive ne I miei ricordi oratori che fin dai primi anni di vita collegiale gli «balenava già l’idea di essere un giorno sacerdote, predicatore» (p. 58). Giunta per il fratello minore, Eugenio, figlio di secondo letto, l’ora del collegio, la madre pensò bene di mettere entrambi al Carlo Alberto di Moncalieri retto dai Barnabiti (1881), vicino a Torino dove risiedeva. «L’idea d’appartenere al santuario si era via via radicata nel mio spirito durante il quadriennio del Collegio Vida... Ora pareva che la Provvidenza mi venisse incontro aprendomi proprio essa una via inattesa, nuova, la famiglia dei padri Barnabiti». L’anno seguente, 1882, dopo la prima liceo si decise per la vita religiosa: «Mi sentivo forte e saldo», cosí afferma (pp. 79 e 97).

Entrato nella Congregazione, dopo il noviziato a Monza, nell’ottobre 1883 professò i voti semplici a 16 anni: «Non me ne sono mai pentito, né d’averli pronunciati, né d’averli pronunciati allora» (p. 108). Fu quindi destinato a Roma, dove frequentò gli altri due anni di liceo all’Apollinare, diretto da Salvatore Talamo (1844-1932), esponente di primo piano della rinascita tomistica, «una delle intelligenze piú armoniche e complete del movimento scolastico» (I miei ricordi oratori, p. 78). Nello Studentato dell’Ordine seguí i corsi teologici (18851889), caratterizzati dal prevalere dell’indagine positiva su quella speculativa, dal diretto accostamento delle fonti soprattutto bibliche, da una particolare propensione per gli autori e le correnti contemporanee, dal rispetto per tutte le opinioni, accuratamente distinte dal dogma.

 

 

La sfida della modernità

In questo clima e nei successivi anni universitari, Semeria si venne formando a quello spirito scientifico d’ispirazione storico-critica, ma anche apostolico, che ne avrebbe caratterizzato la vita futura. Spiccato fu il suo interesse per l’atto di fede, in che misura cioè vada considerato un dono e in che misura una libera conquista da parte dell’uomo (cf. “Fonti e Documenti”, 4/1975, pp. 68 e 374). Atto che di sua natura sarà sempre accompagnato dal dubbio e dalla conseguente indagine razionale; «ma, non dimentichiamolo - annota nella sua opera piú imponente: Dogma, gerarchia e culto nella Chiesa primitiva, p. 392 -, la critica nata dal dubbio, finisce, quando è sincera e profonda, per ucciderlo». Parallelamente Semeria sostiene che il credere è assai piú debitore del cuore che della ragione: «Le vie dell’intelletto sono lunghe e difficili, quelle del cuore piú sicure e comprensibili», scrive a monsignor Giuseppe Alessi (1855-1904), iniziatore delle scuole superiori di religione. La religione, asserisce con forza nell’altra grande opera Scienza e fede e il loro preteso conflitto, p. 179 -, «rimane cosa prevalentemente volitiva e morale... è la sua natura e la sua gloria». Si tratta di quel “dogmatismo morale” teorizzato con grande slancio dalla cultura cattolica francese. Sopraggiunto l’esilio belga, quando per disposizione dei superiori ecclesiastici venne destinato «lungi dalla Liguria» (settembre 1912). Semeria sperimenterà una notte interiore dello spirito, colta con singolare penetrazione dall’amico Giulio Salvadori (1862-1928), il “poeta dell’umile Italia”, in una lettera del 20.10.1912: «Tu hai sentito - si noti il riferimento al “sentire” - che la scienza non è tutto, che la fede non è una scienza, che è un dono di Dio che si custodisce con l’uso» (Lettere di Giulio Salvadori, 1945, p. 234). D’altra parte Semeria testimoniò al proprio confessore e con la sua consueta candida semplicità di non aver «mai aderito a un dubbio contro la fede» (Dichiarazione di padre Luigi Zoja a monsignor Edoardo Pulciano, 12.12.1910, “Fonti e Documenti”, 4/1975, p. 189). Noteremo en passant che furono le tesi semeriane sull’Actus fidei a provocare l’iniziale reazione da parte dei gesuiti facenti capo al cardinale Camillo Mazzella (1833-1900), reazione che provocò il primo “esilio” semeriano con la destinazione a Genova nel 1895.

Con tutto ciò, il conflitto tra le esigenze della ragione e l’assolutezza della fede continuò ad agitarsi nell’animo di Semeria, per cui non ci stupisce che, in una lettera dell’estate del 1900 inviata al giornalista Filippo Crispolti (18571942), esponente del movimento cattolico, il barnabita si sia chiesto se nel suo io non ci fosse lo spirito ereticale. «Sono un po’ rivoluzionario ed eretico? Non è vero? Ma le eresie superficiali sono spesso delle verità molto intime - i dogmi hanno cominciato per parere eresie - non fu eresia ai Giudei il cristianesimo nascente?» (GROSSI, Un’importante lettera..., 1967. Il testo scrive erroneamente crepe invece di eresie).

Ad aprire la mente di Semeria sui vasti orizzonti della modernità e le sue istanze, furono senz’altro gli anni universitari. Egli ne ricorda i momenti alle volte drammatici: «Da talune di quelle lezioni, le piú sofisticate, le piú nuove, si partiva storditi - ricorda ne I miei tempi, pp. 58-59 -. Ci pareva che dentro a noi crollasse la nostra vecchia (vecchia solo perché eterna) concezione del mondo e della vita... Una di quelle tentazioni che quando non ti fanno del male irreparabile, superate e vinte ti fanno del bene... La preghiera e la vita religiosa mi hanno salvato da queste crisi, innegabili... nelle quali non manca il divino aiuto, quando si affrontano per il maggior bene delle anime».

Richiamando a volo d’uccello gli scritti editi e inediti di Semeria, possiamo documentare come egli abbia percepito con fine intuito i caratteri della modernità. Anzitutto il primato della coscienza: «I progressi dell’umanità sono i progressi della coscienza... Dobbiamo eccitare questa coscienza e trarne fuori tutto quello che noi possiamo», annota in un Quaderno inedito (n. 522) di riflessioni personali.

Un altro aspetto ravvisato da Semeria è lo «spostamento moderno della riflessione filosofica dall’oggetto al soggetto», come si legge in Scienza e fede, p. 47, spostamento che ribalta la visione oggettivistica e deduttiva cara all’antica filosofia. Su questa linea si pone il primato del sentire/esperire sulla pura razionalità. Trasposta in termini religiosi, simile attitudine vede passare al rango di protagonisti i «mistici - come leggiamo in Venticinque anni di storia del cristianesimo nascente, p. 55, altra opera di notevole livello - che oggi sono destinati a tornare in onore, quei mistici la cui genialità profonda potrà, forse ancor meglio della rigidità filosofica, influire sulla nostra generazione». «Le anime moderne - preciserà ne Le vie della fede, p. 170, una delle opere minori di singolare fragranza - davvero sono piú disposte a ricevere il pensiero cristiano fatto sentimento mistico, che il sentimento cristiano irrigidito in una formula scolastica: le anime moderne sono piú accessibili per le vie del cuore che per quelle della testa».

In terzo luogo, Semeria nutre una visione planetaria, decisamente “cattolica”, dei disegni divini sul mondo. «Dopo Cristo - annota in Venticinque anni, p. 269 - continua a essere assai piú vasto del visibile il regno reale di Dio nel mondo». E si domanda: «È cristiano oggi il mondo? No: ma deve diventarlo, ma lo diventa sempre. Oh le piccinerie cristiane di quei che credono il Vangelo attuato o in loro stessi o in un piccolo loro gruppo! Essi sono i veri negatori della divinità di Cristo» (Quaderno 522). Cosí appuntava nel marzo 1906, l’anno cruciale che segnò l’inizio della repressione antimodernista, fissando in un Pensiero quotidiano un interrogativo rivelatore del suo animo, in quel tempo sottoposto alle prime misure disciplinari da parte dell’autorità ecclesiastica.

Se questi sono gli aspetti innegabilmente positivi della modernità, pur non scevri da possibili accentuazioni unilaterali, come si sarebbe purtroppo verificato anche in ambito ecclesiastico, Semeria non si nasconde quelli negativi, che si possono riassumere nello iato tra cultura e fede, tra fede pensata e fede vissuta, tra rifiuto teorico della divinità e irreprensibilità nella condotta di vita (parlerà infatti di «atei per sbaglio», Scienza e fede, p. 181) e viceversa. Lo colpisce la crisi di interiorità. Ormai vicino ad ammainare le vele, scrive ne I miei ricordi oratori, p. 100: «L’igiene del corpo nel mondo moderno ha fatto molti innegabili progressi, e la igiene dello spirito ha fatto altrettanti regressi... La disciplina interiore è in enorme ribasso».

 

 

I primi passi

Riprendiamo il filo dei dati biografici, a partire dall’ordinazione sacerdotale che il barnabita ricevette il 15.4.1890. Venti giorni dopo, un articolo della “Voce della Verità” (Le mani nette) offre al ventitreenne barnabita lo spunto per una significativa presa di posizione. Nella Lettera sulla partecipazione dei cattolici alla politica, inviata al giornale romano, Semeria ritiene che il prender parte alla vita civica costituisca l’unica via per «il miglior avviamento pratico alla soluzione della questione romana... L’astensionismo - all’opposto - ha favorito il sorgere di un’Italia ghibellina». Occorre, di conseguenza, «avere il coraggio di un onesto mea culpa e cambiare atteggiamento». La soluzione della questione romana, che ai cattolici si presentava come primum in intentione, sarebbe stata ultimum in executione, approdo di un processo di progressiva presa di coscienza delle proprie responsabilità civiche e morali da parte dei cattolici e di positivo influsso in senso cristiano sulla vita e sulle istituzioni del Paese. Semeria operò per l’abrogazione del non expedit - a lui è dovuta la stesura del Memoriale inoltrato dal vescovo di Cremona Geremia Bonomelli (1831-1914) a Pio X (1835-1914), il 2 ottobre 1904 (cf. MARCORA, Lettere di padre Giovanni Semeria..., 1967 e GALLINA, Il problema religioso..., 1974). Lo considerava come cosa ormai anacronistica: «Questa faccenda del non expedit mi dava l’idea di una botte che fa acqua da tutte le parti, ma non è ancora aperto il rubinetto», annota nelle Memorie inedite, Fascicolo “Quel che io so del mutamento avvenuto per il non expedit nell’anno 1904”. Ne giudica la fine, avvenuta a singhiozzo e tra contraddittorie prese di posizione da parte delle autorità ecclesiastiche, «ridicola e miseranda». Addita, dopo di essa, «ai cattolici d’Italia... nuove battaglie per la libertà della Chiesa, per la grandezza della patria», e vuole finalmente distinta la sfera religiosa da quella elettorale: i vescovi non devono trasformarsi in «grandi elettori politici», pena il ritorno alla diarchia clericalismo-anticlericalismo.

Nell’ottobre 1892 Semeria è inviato da Leone XIII (1810-1903) al I Congresso italiano degli studiosi di scienze sociali, che si tenne a Genova. Relatore della Commissione per la promozione degli studi sociali in Italia, il barnabita perorò «la causa della scienza»: perché «l’idea cristiana torni a essere la prima forza motrice dei popoli... bisogna munir[la] di tutto l’apparato della scienza». A questo scopo, due erano le proposte: fondazione di una rivista (la “Rivista internazionale di scienze sociali”, che iniziò le pubblicazioni nel 1893 e che ebbe in Semeria uno dei redattori, insieme al Talamo) e l’istituzione di scuole e circoli scientifico-religiosi.

Tornato a Roma, dove sarebbe rimasto altri tre anni, oltre a frequentare l’Università della Sapienza (laurea in lettere del 1893, cui si aggiunga quella in filosofia, a Torino, nel 1897), Semeria entrò nel Circolo San Sebastiano di Giulio Salvadori, collaborò alla “Vita nova” di Romolo Murri (1870-1944), figura controversa di sacerdote e politico, e fu membro dell’”Unione per il bene”, nata in casa Melegari in seguito a due conferenze tenute a Roma nel 1894 da Paul Desjardins (1859-1940), fondatore dell’”Union pour l’action morale” (1892). Campo d’azione dell’Unione fu il quartiere popolare di San Lorenzo al Verano, ove Semeria dispiegò il suo primo apostolato, cosí come da studente di teologia ogni venerdí aveva frequentato «la palestra del dolore», visitando i feriti (sul lavoro, per delitti) all’ospedale della Consolazione, consacrato alla memoria di Luigi Gonzaga. Semeria peraltro riteneva che accanto all’impegno “per il bene” occorreva un impegno per “il vero” (Una evoluzione di Paul Desjardins, “La Vita nova”, mar. 1895). A sua volta Murri rincarerà la dose augurandosi un programma integrale che abbracciasse «l’azione religiosa, l’azione politica e l’azione sociale» (Per il bene, “La Vita nova”, lug. 1896, p. 133).

Catapultato «nel cuore della miseria romana» (I miei tempi, p. 92. Cf. pp. 96-97), Semeria maturò una moderna visione della questione sociale. Parlando delle Forme nuove della carità cristiana, nel 1895 a Roma, sostenne che esiste una «scienza della carità», consistente nel sostituire all’elemosina del denaro l’offerta di un posto di lavoro. La questione sociale - aggiungerà due anni dopo in una conferenza programmatica tenuta a Roma durante il suo primo quaresimale e che ebbe amplissima diffusione (Giovani cattolici e cattolici giovani) - si presenta come «il terreno in gran parte vergine dove noi siamo chiamati a lavorare; è il campo dove la Chiesa potrà dispiegare a vantaggio dell’umanità la sua maggiore energia». Proprio in quell’anno, 1897, Semeria portava la questione sociale sul pulpito, come tema di predicazione del secondo dei suoi “Avventi” nella chiesa genovese di Nostra Signora delle Vigne, suscitando risonanza nazionale. Questa, che egli riteneva l’«eredità del secolo» (espressione che diede il titolo a uno dei suoi libri piú fortunati), figurava come impegno programmatico della Democrazia Cristiana, cui Semeria aveva aderito «perché gli pareva che con lei si armonizzassero la sua fede di cristiano e le sue aspirazioni di uomo moderno» (Dove sono le nostre speranze?, p. 4). Infatti considerava la Democrazia Cristiana come «unica forma d’azione che possa far rifiorire socialmente il cattolicismo in mezzo a noi». Invitato da Giuseppe Callegari (18411906), presidente della Società scientifica dei cattolici italiani e vescovo di Padova, al Congresso eucaristico di Venezia (1897) per parlare su L’Eucaristia e il movimento sociale, affermò, alla presenza del futuro Pio X (1835-1914), che «alla torre secolare della storia l’orologio batte oggi l’ora della democrazia». Inizialmente in garbata polemica e poi in aperta sconfessione di Murri, dopo «la sua dedizione al piú confusionario, settario e borghese di tutti i nostri partiti, il partito radicale» (Lettera a Barile 22.3.1914, BARILE, Lettere inedite..., 1966, p. 77), Semeria non si stancherà di ripetere che, prima di essere «partito di riforme e di progresso», la Democrazia Cristiana deve diventare un grande fatto culturale e che questo ne costituiva l’aspetto prioritario. In altre parole, i cattolici impegnati socialmente e, in prospettiva, politicamente, dovevano proporsi l’attuazione di «un grande programma di restaurazione cristiana» (Dove sono le nostre speranze?, p. 18). Nel senso, preciserà Semeria presentando nel 1905 Il Santo di Antonio Fogazzaro (1842-1911) come manifesto letterario di un cattolicesimo rinnovato, che «il cristianesimo opera nel sociale solo indirettamente, ma realmente». Erano infatti due i pericoli che i cattolici dovevano evitare: da un lato il pericolo del clericalismo, «consistente nel domandare al Vangelo un trattato completo di economia politica e un codice di legislazione sociale» e, dall’altro, il pericolo dell’«osmosi socialista», consistente nello «sperare solamente in una riforma sociale e collettivistica», cosa che «atrofizza le energie spirituali e rende gli uomini simili ad automi». Occorre, all’opposto, inculcare - cosí si esprimeva riflettendo sul carattere riformatore del Santo fogazzariano (MARANGON, Antonio Fogazzaro e il modernismo, 2003, “Il Santo come riformatore”, pp. 80-91, passim) - «la convinzione che i beni materiali non sono né i soli né i supremi, e la conseguente moderazione nel desiderarli, la subordinazione loro al nutrito desiderio di beni migliori». Semeria ritiene il «rinnovamento di anime» e quello culturale come condizioni per un’autentica riforma sociale, considerata l’eredità che il secolo XIX lasciava al successivo (cf. L’Eredità del secolo, 1900, p. X).

Dieci anni prima di questa messa a punto, Semeria, allora ventottenne, in una conferenza pronunciata a Sant’Eusebio in Roma e che “La Civiltà cattolica” riprese compiaciuta nella sua cronaca, «fece toccare con mano lo spirito nuovo che aleggia da per tutto: Che cosa furono i cattolici? Nulla. Che cosa sono? Qualche cosa. Che cosa aspirano di essere? Tutto, o meglio, che Cristo sia tutto in tutti e per sempre» (cf. SPADOLINI, L’Opposizione cattolica..., 1954). L’avvio di quest’opera di «restaurazione cristiana» fu dovuto, come nota piú volte Semeria, all’impulso di Leone XIII. Il barnabita si fece propugnatore di un «cristianesimo vivo, operoso e progressista» - gli era familiare l’espressione «nuovi credenti» -, constatando poi con amarezza come la reazione anti-modernista l’avesse reso «paralizzato e paralizzante», come ebbe a scrivere il 14.10.1912 ad Angelo Barile (1888-1967), poeta e politico legato a Semeria da grande amicizia (FARRIS, Padre Semeria..., 1984, p. 25). Convinto della necessità di «preservare questa Chiesa dalle influenze che la riducono a un povero strumento di reazione, quando dovrebbe essere una grande forza ideale di progresso», Semeria voleva che dall’interno dell’organismo ecclesiale fosse portato il lievito della riforma. Ma quale riforma? Il barnabita sembra aver lucidamente compreso che, alla radice di tutti i problemi allora dibattuti, vi era una questione di cultura teologica. Si imponeva una teologia aperta ai metodi delle scienze moderne, capace di raggiungere i piú alti e influenti strati sociali e, nello stesso tempo, espressa con linguaggio semplice, dinamico, atto a veicolare l’annuncio del Vangelo al mondo.

 

 

Vasti orizzonti

Nella formazione intellettuale e spirituale del barnabita ebbe, come si è detto, un influsso determinante la conoscenza e la frequentazione di Friedrich von Hügel, maggiore di quindici anni, da lui incontrato in Roma il 14 novembre del 1894, si può dire all’antivigilia del suo trasferimento a Genova. Preziosa è la testimonianza consegnata alle Memorie inedite: «Fra gli uomini che hanno contribuito a rendermi quello che sono, nella parte che a me pare buona della mia anima e della mia vita, debbo dare il primo posto al barone Friedrich von Hügel... Debbo a lui la mia vita intellettuale, debbo a lui nella libertà scientifica dell’intelletto la persistenza della fede» (Memorie inedite, Fascicolo “Gli uomini che hanno influito sul mio indirizzo spirituale”). Per questa ragione egli definisce von Hügel «padre dell’anima mia», espressione che verrà ripresa da don Giovanni Minozzi, il quale in riferimento a Semeria parlava del barone come del «suo vero autentico padre spirituale» (cf. MINOZZI, Padre Giovanni Semeria, 1967, pp. 251-254). Si può dire che l’amicizia tra i due, di cui sono documento le lettere del barone, si coestese all’intero periodo “modernista” fino allo scoppio della Grande Guerra e conobbe momenti di singolare elevatezza quando la reazione antimodernista avrebbe potuto travolgere Semeria in un gesto di ribellione, se non fosse stato soccorso da un profondo senso di appartenenza alla Chiesa e alla propria famiglia religiosa: «Credo di aver avuto... l’istinto del cane - affermerà nei Ricordi oratori, p. 57 -: la fedeltà per me è un bisogno. Ne ho dato qualche prova nella vita e me ne compiaccio».

Von Hügel fu il segreto ispiratore e il costante referente dell’attività di studio e di divulgazione che Semeria, destinato a Genova dai superiori (la sua attività, come si è visto, cominciava a suscitare contrasti nell’ambiente romano), stava accingendosi a compiere soprattutto con la Scuola Superiore di Religione, da lui fondata insieme al confratello padre Alessandro Ghignoni (1857-1924) nel 1897 e diretta fino al 1907. In questa sede Semeria si fece portavoce delle istanze culturali d’Oltralpe e qui presentò, per la prima volta in Italia, la filosofia di Blondel, mentre ebbero eco favorevole gli insegnamenti di Fogazzaro, Duchesne, Loisy, Sabatier, Laberthonnière, Tyrrell, Bremond, Petrone, ecc...

E sarà sempre il barnabita a favorire i contatti tra von Hügel, Blondel, Laberthonnière, Duchesne, Loisy, Tyrrell e le figure emergenti della cultura cattolica italiana a partire da Tommaso Gallarati Scotti (1878-1966), esponente di rilievo del modernismo lombardo, fondatore della rivista modernista “Il Rinnovamento”, il quale entrò in contatto con Semeria fin dagli anni universitari in Genova (cf. in particolare PASSERIN, Appunti sul riformismo religioso..., 1971).

L’impatto che la Scuola Superiore di Religione ebbe nella cittadinanza e, tramite i libri che produsse, nella cattolicità italiana, può essere documentato da quanto si legge in un resoconto, apparso su “L’Avvenire. Settimanale del Popolo” di Genova del 3.12.1905, della conferenza introduttiva dell’anno 1905-1906, che ebbe come tema Il Santo di Fogazzaro: «Padre Semeria non poteva davvero e in modo migliore e con miglior lena iniziare il nono anno della sua Scuola Superiore di Religione. Giovedí scorso il salone del Vittorino da Feltre - l’istituto barnabitico dove Semeria insegnava e sede della Scuola Superiore di Religione - presentava un aspetto direi quasi imponente, una folla di studiosi era accorsa piú numerosa degli anni passati a rendere omaggio all’illustre maestro. V’erano professori e studenti di Università, commercianti, professionisti, ufficiali e soldati, nonché uno stuolo numerosissimo di giovani sacerdoti. Guardando con intimo senso di piacere quella folla varia che circondò al suo apparire l’oratore, pensavo a tante cose - scrive e. g., il firmatario dell’articolo -, al bisogno ognor piú crescente di penetrare i misteri della fede cristiana, alla rinascita cui oggi assistiamo in una forma piú spirituale di pensiero e di vita. E mi pareva di vedere in quella folla i condottieri futuri delle future battaglie. Allora, pensavo, l’idea cristiana sarà scintilla generatrice di un fuoco che la società a venire tutta feconderà col suo calore».

«I teologi, amava dire Semeria, devono scendere piú coraggiosi tra i laici e i laici debbono risalire su nelle regioni troppo a lungo neglette della teologia». Ma non si trattava di trasformare il laicato in una sorta di clero parallelo, piuttosto di completare, con quello religioso, il sapere scientifico, dato che da questo occorreva prendere le mosse. Pronunciandosi contro «la frase à sensation di Ferdinand Brunetière (1849-1906) - critico letterario e apologeta -, che proclamava la bancarotta della scienza», Semeria scriveva nel 1895: «Per aver fede nella fede, bisogna aver fede in qualch’altra cosa. Io odio lo scetticismo. Ho fede nella scienza. Ho fede nelle armonie tra il dogma e la scienza. E vorrei che noi giovani cattolici amassimo la scienza, la coltivassimo sul serio, ciascuno la sua: che in questo studio assiduo creassimo quella falange di specialisti che ci manca, preparassimo quella cristiana enciclopedia che sarebbe il piú gran monumento del secolo». In una lettera (s.d., ma fine ‘800) inviata a Murri sul progetto di un’Università cattolica in Italia, Semeria propone di costituire un comitato che raccolga «scienziati veri e giovani», i quali promuovano tra i cattolici la formazione di specialisti soprattutto in scienze storiche e biologiche, attraverso borse di studio presso università straniere.

L’apertura di pensiero e le molte amicizie, italiane e estere, in campo modernista, meritarono a Semeria il titolo di «ipercritico» da parte di Giuseppe Toniolo (1845-1918), economista e sociologo, «il piú puro e autorevole leader laico delle idee papali in materia» sociale (I miei tempi, p. 73), che tuttavia lo volle membro della Società cattolica italiana per gli studi scientifici (Pisa, 1900), nella sezione religioso-filosofico-apologetica, per la cui presidenza Semeria si trovò in ballottaggio con il teologo e successivamente vescovo di Pavia Giuseppe Ballerini (1857-1933), una figura alternativa al Nostro (cf. GAMBASIN, Origini caratteri finalità..., 1961, p. 552 e TONIOLO, Lettere..., 1953, vol. II, p. 224). Convinto che la libertà di ricerca scientifica, anche in materia religiosa, fosse la condizione per riconciliare l’uomo alla fede, Semeria mette ripetutamente in guardia Toniolo dal denunciare come sospette «tendenze di libertà che mi paiono - scrive - la sola garanzia possibile di uno sviluppo seriamente scientifico in mezzo a noi», e di non preconizzare delle «tendenze rigide che furono già funeste alla fede e sono la tomba della scienza». E si domanda: «Perché mettere in sospetto di eterodossia... tutta una generazione d’uomini che lavorano, con un’abnegazione tanto piú meravigliosa quanto sanno che il loro lavoro non è per fruttar loro che sospetti?» (Lettera s. d., probabilmente del 1896. Cf. Lettera del 12.9.1899, in Carte Toniolo). Non si nascose Semeria che la posta in gioco era molto alta e che avrebbe incontrato le opposizioni piú tenaci e le incomprensioni piú amare: «Quali disagiati sentieri abbiamo dovuto affrontare noi - scrive ne I miei tempi, p. 140 - quando la Provvidenza ci chiamò a iniziare quell’opera di restaurazione cristiana che fu il vero programma della nostra generazione!». È ben vero che egli si pose decisamente dalla parte di chi conosce la legge evangelica del seme: «Sono piú vicini a Dio, piú uniti a lui gli uomini che meno curano il successo immediato, bramosi e solleciti solo del successo duraturo», leggiamo nel già citato pensiero del 1906. «Non è Dio l’Essere patiens quia aeternus? Questi eternisti dell’azione si avvicinano a Lui. Sotto questo rispetto Gesú è l’uomo pieno per eccellenza di Dio. Nessun successo immediato, anzi completo sacrifizio di esso: ma successo eterno!» (Quaderno 522), come a riconoscere che l’incarnazione del Vangelo nella storia, nonostante la visione ottocentesca delle “magnifiche sorti e progressive”, registrerà pur sempre delle smentite. L’irradiazione del messaggio cristiano e il suo radicamento nelle coscienze ha il suo prezzo. Come ebbe a scrivere nel 1907 a monsignor Lucien Lacroix (1854-1922) - il vescovo dimissionario all’uscita della Pascendi, l’enciclica che condannò il modernismo - Semeria era convinto che per «un avvenire migliore» non bastassero degli apostoli, ma ci volessero dei martiri (cf. “Fonti e Documenti”, 13/1984, p. 233). E non faticherà a riconoscere, commemorando monsignor Giovanni Battista Scalabrini (1839-1905), vescovo di Piacenza di tendenze conciliatoriste, che «i martiri del presente sono i profeti dell’avvenire».

La visione del cristianesimo come di un evento incarnato nella storia consente a Semeria di elaborare una valutazione realistica della vita della Chiesa nel tempo e di non disdegnare generosi mea culpa là dove fossero necessari.

«Consci che gravi colpe latine provocarono la divisione del sec. XVI - scrive in chiave ecumenica -, noi speriamo in una ricostruzione della grande unità cristiana: ma non la aspettiamo da non so quale orgoglio cattolico (cattolico di nome, ché l’orgoglio è pagano per natura), no, sibbene da una confessione umile e da una riparazione assidua dei nostri torti pubblici e privati. Perciò noi sogniamo di poter un giorno elevarlo noi, il monumento a tutte le vittime della Inquisizione: monumento espiatorio..., senza che la confessione del torto di chi uccise suoni glorificazione di quanto fu meno retto nelle vittime» (Giovani cattolici e giovani italiani, manoscritto risalente all’esilio belga, nelle Carte Semeria, n. 500. Cf. JANNI, Il padre Giovanni Semeria, “Fede e vita”, 1931).

In questo contesto va compreso anche l’atteggiamento che Semeria assunse verso il mondo ebraico, fin dalle pagine di Primo sangue cristiano del 1901, dove si legge: «Questo moto antisemita m’è stato e m’è ancora molto antipatico: esso non mi sembra né moderno né cristiano» - notare l’abbinamento dei due termini, caro al barnabita. Egli ritiene, nel suo innato ottimismo, che «attraverso i secoli cristiani corre un soffio di simpatia» verso gli ebrei, cosí che gli «odi brutali» verso di essi vennero controbilanciati dalla «carità dei pontefici e dei santi» (cit. in GENTILI, Padre Semeria filosemita, “Eco dei Barnabiti”, 1981, n. 2, p. 62. Cf. FUMAGALLI, Ebrei e cristiani..., 1993).

 

 

Tra due pontificati

Non sarà fuori luogo a questo punto ripensare l’intera vicenda semeriana alla luce dei due pontificati in cui il barnabita dispiegò la propria attività culturale e della condizione di convinto e coerente ecclesiastico, come ebbe a riconoscere Filippo Meda (1869-1939), giornalista e leader politico, nel Discorso commemorativo pronunciato nell’Aula magna della Università Cattolica di Milano, il 16.4.1931, a un mese dalla morte di Semeria: «Non si concepí mai, né mai si sarebbe potuto concepire, se non come prete cattolico e come barnabita» (Padre Semeria..., 1931, p. 8).

Semeria si era formato in Roma e durante il pontificato di Leone XIII (1878-1903). Di questo papa aveva accolto con entusiasmo giovanile il programma di riconciliazione tra Chiesa e mondo contemporaneo, superando l’atteggiamento di rifiuto e di condanna del predecessore. Circa un anno dopo il suo arrivo a Genova, fu invitato a tenere il discorso ufficiale per l’inaugurazione del monumento a San Pietro nella chiesa delle Vigne (28.6.1896). Fu un discorso encomiastico il suo, dal titolo: Il papato, lotte e trionfi. Di questo testo è interessante conoscere il retroscena, attraverso una lettera che il barnabita scrisse a Raffaele Mariano (1840-1912), studioso di storia delle religioni, il 21.8.1896: «Ho un discorso sul Papato bello e pronto.... Io... non ho potuto dirvi tutto il pensiero mio, benché non abbia detto nulla contrario alle mie convinzioni. Io persisto a vagheggiare una riforma morale profonda di questo nostro organismo cattolico senza toccarne nessuna delle membra essenziali che ora paiono cristiane. I tempi mi paiono per certi lati ricchi di promesse e gravi per certi altri di timori. Quanta grettezza da vincere! Quanti interessi da calpestare! Quanti pregiudizi da smettere!». La riforma della Chiesa è richiesta dalle responsabilità evangeliche che essa ha verso il mondo. «Questa dimostrazione dell’adattabilità della Chiesa all’ambiente moderno, doveva... compierla il papato nei giorni di Leone XIII».

A questo punto Semeria cita i pronunciamenti del papa relativi alla Democrazia Cristiana, alla questione sociale, alla riunificazione dei cristiani, ecc. Potremmo aggiungere quelli in merito alla sacra Scrittura, alla scolastica, agli studi storici (apertura degli archivi vaticani); pronunciamenti interpretati in modo largo e non restrittivo, come purtroppo avvenne in seguito (Carte Mariano, in copia nell’ASBR). L’idealismo semeriano non poteva aspettarsi di meglio e in questo clima egli venne elaborando alcune convinzioni che non abbandonò piú, anche quando cominciarono a costargli care. Sull’esempio di Leone XIII ritenne che alla causa cristiana non dovessero essere conquistate solo le classi umili, ma anche le «alte classi intellettuali» (Un vecchio imperatore anticlericale, Prolusione alla Scuola Superiore di Religione per l’anno 1907-1908, Carte Semeria, 50). Ciò comportava lo sforzo di comprenderne la cultura e la psicologia. Il rilancio della filosofia scolastica veniva quindi inteso come l’invito a imitare il metodo di San Tommaso d’Aquino (1224/5-1274) piú che ripeterne pedissequamente il dettato, quel Tommaso che creò una sintesi mirabile tra fede e cultura del suo tempo.

Lo sviluppo delle scienze antropologiche e l’affermarsi delle teorie evoluzioniste, invece di costituire degli ostacoli, erano piuttosto un aiuto a riscoprire aspetti dimenticati ma attualissimi del credo cristiano: dallo sviluppo del dogma al ruolo della volontà nell’atto fede (cf. Le vie della fede, p. V). Nel cristianesimo è riconosciuto uno «sviluppo perenne, ma con la sua brava duplice fase»: una fase breve e rapidissima, in cui l’organismo prende consistenza, e una seconda fase, piú lenta, quasi insensibile, che conosce anche «il momento tragico dell’inviluppo, della involuzione» (La Messa..., pp. 37-38. Una critica alle affermazioni di Semeria in PREZZOLINI, Il cattolicismo rosso, 1908, pp. 169-170).

Quantunque Semeria intenda scagionare la Chiesa dalle consuete accuse che le venivano rivolte (cosí nel discorso “ufficiale” sul papato), il proprio convincimento appare evidente. Sarà ripreso nell’inedito Pensiero quotidiano del marzo 1906: «Il suo [di Cristo] ideale si attua sempre e non si attua mai: l’umanità non gli dà mai ragione del tutto, ma è costretta a dargliela sempre di piú» (Carte Semeria, 522). La riformulazione del cristianesimo secondo il pensiero e la sensibilità moderna condusse Semeria ad abbracciare lo spirito di tolleranza e ad accogliere la convinzione che oggi l’umanità sia piú adulta di ieri, condividendo un aspetto caratteristico della cultura del tempo: «Lasciate le dottrine, fuor d’ogni violenza, affermarsi e discutersi: il male e l’errore non potranno in questo dibattito sostenersi a lungo, il trionfo rimarrà alla verità e al bene. Perché un Dio verità e giustizia ha fatto l’uomo, lo governa; l’ha fatto e lo governa per la verità e l’amore. Tra popoli fanciulli questo regime può, in determinati casi, essere pericoloso; il regime della libertà può favorire i progressi dell’errore e la oppressione della verità. Ma man mano che l’umanità diviene adulta, il regime della libertà trova nella maturità dei popoli a cui s’applica il correttivo della sua estrinseca imperfezione» (Venticinque anni..., p. 156).

Occorreva conseguentemente smitizzare il concetto di un’autorità dispotica o di un’obbedienza cieca nella Chiesa: «A noi cattolici... importa far sapere a tutti: che la obbedienza tra noi non soffoca la libertà e la libertà non degenera in licenza; che non siamo né automi né eccentrici; non siamo né ribelli, né schiavi, che c’è nel nostro campo la concordia dei cuori piena sempre e profonda e l’iniziativa della mente sempre libera» (L’eredità del secolo, p. 135). E ancora, in un altro testo: «Autorità nella Chiesa non vuol dire dominazione, autocrazia, dispotismo; e l’obbedienza non vuol dire, non può voler dire servilità. Quando l’autorità accenna a dispotismo, o l’obbedienza a servilità, è una degenerazione in qualsiasi società, ma piú che in qualsiasi altra società nella Chiesa. Il buon esempio della libertà che si unisce nella Chiesa alla obbedienza, Dio ha voluto darcelo fin dai primi giorni in San Paolo, che fa, con umile ma intiera franchezza, le sue rimostranze, le sue correzioni a Pietro in Antiochia. Certo non tutti sono Paoli nella Chiesa, e non tutti hanno il diritto di parlare come lui» (Dogma, gerarchia e culto, pp. 309-310).

Se qui sembrano limitati, nel momento stesso in cui sono riconosciuti, i carismi profetici del popolo di Dio, in un’altra pagina viene dato a essi pieno rilievo: «Non è certo privo d’interesse il riflettere che questa cosí chiara coscienza e questa cosí esplicata affermazione dei nuovi destini del cristianesimo si trovi la prima volta non in un membro del collegio apostolico, ma in un semplice diacono [Stefano]. Forse chiarivasi fin d’allora quello che nella storia della Chiesa appare evidente ed è cosí consono alla natura delle cose: le grandi iniziative, le spinte in avanti toccare ai membri attivi della Chiesa, non alle autorità dirigenti. L’autorità è, di sua natura in ogni società, moderatrice e lo spirito di Dio, che rispetta tanto la natura delle cose, non ha voluto questa sua funzione trasformare. La spinta viene da altri, ma l’autorità veglia perché l’indirizzo non ne sia erroneo e l’esito funesto» (Venticinque anni, p. 170). «La soggezione nella Chiesa di Dio si è composta e si comporrà sempre con la libertà individuale: lo Spirito che soffia dove vuole, ha spinto e spingerà sempre per vie nuove uomini semplici, tanto piú liberi quanto piú semplici ed umili; e l’autorità verrà poi a controllare quei moti che non fu essa a provocare e che non ebbero bisogno dell’autorità per iniziarsi. L’intervento dell’autorità sarà la crisi o il mezzo di discernimento tra i moti a cui fu davvero impulso lo spirito di Dio e quelli a cui fu impulso lo spirito proprio, secondoché sapranno obbedire o avranno la velleità di resistere» (Ivi, pp. 279-280).

Vedersi smantellare con inesorabilità quest’impalcatura intellettuale, biblicamente cosí vera (quelle citate sono tutte riflessioni sviluppatesi sulla Scrittura), cosí congeniale al proprio carattere, fu il dramma di Semeria sotto il pontificato di Pio X (1903-1914). «La piega assunta dalla nostra vecchia Chiesa romana - scrive all’amico Gaetano De Sanctis (1870-1957), storico dell’antichità, il 17.11.1912 - mi appare sempre piú poco cristiana (per non dire anticristiana) e poco moderna. Non assistiamo a un processo di involuzione? Pensa, dai nostri primi anni romani sotto Leone XIII a oggi, che precipizio!» (ACCAME, Dal carteggio..., 1972, p. 61).

I rimproveri alla Chiesa di papa Sarto, nella quale Semeria si rispecchia sempre meno, in cui sente dissolversi la sana atmosfera per il suo respiro, si succedono a ritmo incalzante nelle pagine delle Memorie inedite e tornano nella corrispondenza, a esempio con Bonomelli o con De Sanctis. Egli nota come «lo spirito della nostra ufficialità ecclesiastica si sia straniato dallo spirito del vangelo» (Memorie inedite, Fascicolo “L’esilio. Intervista con un Nunzio”), dando vita a un «cristianesimo burocratico [che] crea ineffabili dolori» (Ivi, Fascicolo “Durante la quaresima catanese”, 10.3.[1906]). Alla sua ombra si afferma lo spirito farisaico, la doppiezza, il servilismo dottrinario, da cui nasce «la côterie che spadroneggia nella Chiesa e la sciupa» (Lettera del dic. 1896, ACCAME, Dal carteggio, cit., p. 36), lo spirito inquisitoriale e l’assolutismo nel governo: «A Roma mi pare si stia perdendo ogni saviezza di governo, è il governo personale, la voluntas, anzi l’arbitrium principis nella sua forma peggiore» (Lettera del 23.12.1912, ACCAME, Dal carteggio, cit., p. 62). Il cristianesimo perde slancio: «esso diviene una cultura intensiva invece di essere una conquista apostolica», e ciò costituisce «la piaga del cattolicesimo contemporaneo» (Memorie inedite, Fascicolo “L’esilio. Intervista con un Nunzio”). «Nella Chiesa muoiono i migliori, gli uomini: restano i fanciulli» (Lettera dell’11.1.1914, ACCAME, Dal carteggio, cit. p. 65).

 

 

Ecclesia semper reformanda

Semeria ebbe modo di mettere a fuoco come intendeva la riforma della Chiesa o, per servirci delle sue parole, «nella Chiesa», riflettendo sul romanzo del Fogazzaro (1842-1911) Il Santo, uscito nell’autunno del 1905. Ne parlò a Milano in occasione delle feste per la canonizzazione del vescovo barnabita Alessandro Sauli (1534-1592), per poi riprendere il discorso in tre conferenze alla Scuola Superiore di Religione e in due lettere a Filippo Meda apparse su “L’Osservatore cattolico”.

Facendo riferimento all’azione riformatrice di Carlo Borromeo (15381584) e di Alessandro Sauli, due santi legati da comuni intenti, Semeria nota come di fronte alla riforma della Chiesa si possano dare tre atteggiamenti fondamentali: il rifiuto, la ribellione e un’azione corretta. «Ci furono e ci sono forse ancora oggi uomini che amano o dicono di amare la Chiesa, ma per un falso ossequio a ciò che è, per uno scambio della tradizione con la consuetudine, della riverenza con la adulazione, per una piccineria di vedute e di aspirazioni, non sanno né volere né procurare a lei nuovi incrementi di bellezza e di vita. I due santi - prosegue in riferimento al Borromeo e al Sauli - si trovarono in un dissidio di questo genere: si trovarono tra un grido di riforma che non era tutto menzognero, ma era ribelle, e una forma di ossequio che pur essendo devoto finiva per riuscire sterile. Essi non furono né coi riformatori ribelli né coi conservatori comodi: vollero la riforma per la Chiesa, non contro; amarono la Chiesa per riformarla in meglio» (“L’Osservatore cattolico”, 9.11.1905).

Riprendendo l’argomento alla Scuola Superiore di Religione, in un incontro affollatissimo di giovani universitari cui si è già fatto cenno, Semeria ripropone la diagnosi dei tre atteggiamenti dei quali si è detto. Parla anzitutto dei «pusilli, a cui piú che l’idea, la parola stessa di riforma fa paura, come se riforma fosse sinonimo di ribellione, nel che la storia, se la conoscessero, sarebbe loro maestra di questo: che tutti i grandi santi hanno o vagheggiato almeno o il piú delle volte iniziato poderose riforme». Passa poi a stigmatizzare coloro che «si professano troppo poco cattolici per voler una riforma della Chiesa, o addirittura si svelano forniti d’un amore curiosissimo verso il cattolicismo, amore, o passione, o piuttosto dilettantismo di archeologi, i quali, perciò, tanto piú la amano quanto essa piú assume pallide tinte di antichità e di morte». E infine rivendica come «non solo si può desiderare una riforma in meglio della Chiesa nostra, pur rimanendo devoti cattolici, ma che anzi, proprio da un fervore di cattolicismo, quel desiderio può e persino deve essere provocato e nutrito».

Entra quindi in merito alla riforma, affermando che su quella individuale nessuno ha serie obiezioni da muovere, obiezioni che invece sorgono parlando di una riforma collettiva entro la compagine ecclesiastica. E poiché la Chiesa è «una famiglia spirituale», Semeria rivendica le buone ragioni del Santo fogazzariano quando espone al papa le proprie istanze di riforma: «In un concetto simile della Chiesa, concetto la cui mercé ella riesce davvero una famiglia spirituale, si comprende assai meglio l’interesse anche manifestamente palesato d’un laico per le cose sacre e divine, si comprende come l’espressione di certi desideri, l’invocazione di certe riforme nulla abbia di irriverente in sé stesso... È la coscienza figlialmente libera dei laici che si rivolge fiduciosa ai sacerdoti esponendo ciò ch’essa vorrebbe nell’interesse comune». Per poi concludere: «Quanti amiamo la Chiesa vogliamo... che progredisca per ogni verso e sia essa medesima un fattore di progresso nella storia della umanità». Ai giovani che lo ascoltavano, Semeria concludeva raccomandando che nutrissero in sé «un rispetto dell’autorità scevro di ogni adulazione e un senso di libertà alieno da ogni spirito ribelle» (MARANGON, Fogazzaro e il modernismo, 2003, “Riforma morale e intellettuale nella Chiesa”, pp. 93-106, passim).

Il barnabita ebbe modo di chiarire ulteriormente il proprio pensiero indirizzando all’onorevole Meda due lettere aperte. Egli rivendica nuovamente il diritto-dovere di propugnare la riforma della Chiesa, come espressione d’amore: «E di amore per la Chiesa è rivelatrice ogni parola che invochi in essa e da essa una riforma. Nota: in essa e da essa, ché i nemici la invocano ma contro di essa, cioè i nemici la invocano ma contro la Chiesa e fuori della Chiesa. Fu il programma della pseudo riforma del secolo XVI, programma la cui mercé invece d’avere una Chiesa migliore, si ebbe una Chiesa divisa... Amiamo la Chiesa come una forza viva e vivificatrice; come un organismo che può diventare, deve diventare sempre piú florido e sempre piú benefico».

Semeria ha buon gioco nel richiamare il programma di Pio X “instaurare omnia in Christo” e rileva come «un cattolicismo vivo, aperto, lucido e nella sua vivacità simpatico» sia in qualche modo richiesto dai «profondi cangiamenti [che] avvengono nell’anima moderna», la quale sembra chiedere un novello Paolo che le riproponga il messaggio evangelico nel suo linguaggio. Le polemiche suscitate dal romanzo fogazzariano possono risultare di conseguenza «un indice prezioso per... richiamarci tutti contro l’idea scettica di una Chiesa fossile, immobile, esclusivamente e ciecamente conservatrice, all’idea di una Chiesa vivente» (Ideale e reale, “L’Osservatore cattolico”, 23.11.1905). A conferma del ruolo che il barnabita attribuiva alla religione cattolica nel suo impatto con il mondo moderno, si può ricordare la definizione che von Hügel dava del cattolicesimo semeriano «ouvert, expansif, courageux» (Lettera 15.1.1897). D’altra parte Semeria non si nasconde che l’opera del Fogazzaro ha diviso il mondo cattolico in «due schiere di critici... Fenomeno - aggiunge - che ormai si ripete con frequenza singolare». Si tratta di una «diversità di visuale» che contrappone coloro che privilegiano la cura del gregge entro il suo recinto (i pessimisti) e coloro che anelano ad aprirne gli angusti confini per portare il vangelo ai lontani (gli ottimisti). Semeria si pone dalla parte di questi ultimi, per i quali ritiene che il romanzo potrà risultare benefico: «Il cristianesimo, dopo tutto, non è quella cosa morta e sepolta che si credeva, se oggi ispira opere brillanti di arte. Qualche tipo religioso del romanzo piacerà loro; qualche verità cristiana echeggerà nel loro animo, che non avrebbero altrimenti sentita; respireranno una volta tanto in una atmosfera cristiana. E non credo che le invettive contro certi vizi del clero (che sono del libro) faranno loro del male. Non penseranno dei sacerdoti, letto il libro, peggio di quel che pensassero prima; e il sentire questi vizi (reali o irreali che essi siano) confessati e biasimati da un uomo che, malgré tout, continua a professarsi cattolico, farà riflettere a qualcuno se i vizi eventuali di un certo numero di suoi rappresentanti, siano essi un motivo per combattere una istituzione qualsiasi». Si ripropone, a giudizio del barnabita, il contrasto tra l’Ecclesia Judaeorum e l’Ecclesia Gentium che segnò le origini cristiane, nel cui seno «non si rompeva per questo la carità, pur non essendoci uniformità».

Fermo restando che va rispettata la coscienza di chi rimanesse turbato alla lettura del romanzo, Semeria avanza un desiderio all’indirizzo dei sacerdoti in cura d’anime che purtroppo rimarrà inascoltato: «Solo forse si potrebbe loro chiedere che pensino anche ad altre anime cui il libro può fare del bene, pensino che chi sentenzia diversamente da loro può aver comuni con loro le sollecitudini nobili, avendole solo rivolte ad altri uomini» (Problemi d’anime, “L’Osservatore cattolico”, 15.12.1906).

 

 

Il sogno di una Chiesa ideale

Come il pensiero semeriano sull’atto di fede gli valse un primo esilio, cosí le riflessioni sul Santo innescarono, come si è detto, una reazione a catena (peraltro già iniziata l’indomani della pubblicazione di Scienza e fede nel 1903) che sfocerà in un secondo esilio. Un’esperienza tanto amara lasciò tracce nell’animo di Semeria, se quando la tempesta sembrò sedata ebbe a dire: «ci furono forse anche dei sacrificati» (I miei quattro papi, I, p. 216). Nel suo pieno infuriare ispirò invocazioni patetiche: «Perché non si vuol credere al nostro amore per la Chiesa?» (Semeria a Bonomelli, 22.6.1910, MARCORA, Lettere di padre Semeria..., 1967) e struggenti preghiere: «O Dio per quanto io credo in te, verità infinita, infinito amore - per quanto amo Gesú come rivelazione suprema, incarnazione massima della tua Sapienza e del tuo Amore, detesto questi sistemi e li condanno; di qui, da questa specie di carcere morale dove mi ha rinchiuso la piccineria umana io invoco e sospiro la Chiesa che sarà davvero la tua, la Cristiana Chiesa - la Chiesa nella quale non ci sarà piú un gruppo d’uomini che senza studiare si credono in possesso d’una verità definitiva e l’adoperano per gettarla come barriera sulla via d’ogni onesta libera ricerca, ma uomini umili, caritatevoli, innamorati della verità precederanno gli altri nello sforzo umile della ricerca e appariranno cosí piú vicini a te, piú pieni di te, piú capaci di condurre a te gli spiriti dei loro fratelli. A questa Chiesa che tratta le anime con tanta alterigia succederà un’altra che le tratti con grande riverenza, come fai tu, o Signore. Per preparare questa Chiesa da tanti e cosi lungamente invocata io scrivo questa sera, o Signore» (Memorie inedite, Fascicolo “Quaresima 1909”).

Nonostante che Semeria condividesse con Brunetière l’opinione che «non si cambia la intuizione del mondo e della vita per una questione esegetica o critica» (Idealità buone, p. 13) e nonostante che ripetesse a se stesso di essere «piú che mai deciso - cosí annotava nel suo diario - in nome di Dio e per obbedienza alla sua volontà, a perseverare nella mia via», e nonostante che cercasse «di rendere testimonianza soffrendo alla Chiesa ideale, che è la Chiesa dei nostri sogni» (Memorie inedite, Fascicolo “L’anno scolastico 1907-1908” e Lettera a Gambaro, 29.10.1912, Carte Gambaro), la crisi non mancò di sorprenderlo piú di una volta, sia sul piano intellettuale sia su quello disciplinare.

Il suo coinvolgimento nel movimento modernista è dipinto a forti tinte da Giovanni Minozzi, intimo amico e confidente prima che collaboratore nella fondazione dell’Opera nazionale per il Mezzogiorno d’Italia. A essere messo a fuoco è soprattutto il rapporto con Loisy. Cosí scrive: «Il Loisy l’aiutò, sul principio... a sentire il metodo e le esigenze ardite della scienza moderna... Egli divenne ammiratore del francese quasi impaurito dalla dottrina di lui... poi gli nocque... Se ne staccò subito allora, ma il cuore ne soffrí indubbiamente... Fin dove slittò il nostro allora non potrà forse dirsi. Dalle pubblicazioni del Loisy, niente affatto generose, e dal Buonaiuti appar gravissimo il suo sbandamento» (MINOZZI, Padre Giovanni Semeria, 1967, pp. 265-267). A sua volta Angiolo Gambaro ricorda una dichiarazione fattagli da padre Semeria quando ricevette una certa lettera di Loisy: «Quella lettera mi ha turbato: ho deciso di troncare ogni corrispondenza con lui» (Studio introduttivo” ai Saggi... clandestini, 1967, vol. 1, p. LXXI).

Di fatto le esigenze sul piano della critica storica e della riforma delle istituzioni non si erano sviluppate alla luce del sensus fidei e del sensus Ecclesiae, ma erano approdate a esiti scettici e immanentisti, determinando l’esodo dalla Chiesa dei principali protagonisti. Von Hügel, scrivendo a Semeria l’1.11.1911, prenderà atto, sconsolato e deluso, che nessuno di essi, «pas un seul!», ha realizzato il suo ideale - «mon idéal». Amara costatazione che ritroviamo in lettere successive del barone a Clement Webb il 3.10.1910, Maude Dominica Petre il 13.3.1918 e René Guisan il 11.7.1921 (Selected letters, 1931, pp. 182, 248s. e 333s.).

Sempre nella lettera dell’1.11.1911 von Hügel notava: «Vous me direz - je me le disais - qu’est-ce que cela a à faire avec l’acceptation, la perpétuation, par mes propres actes, de ces tyrannies?... Ne peut-on point aimer l’Eglise, sans le Vatican? ou point le Christ, sans l’Eglise? ou point, même Dieu, sans le Christ? ou enfin point la vérité et la miséricorde sans Dieu?». Che non fossero solo pensieri attribuiti dal barone all’amico, risulta da questa lettera che l’”esule” Semeria scrisse a De Sanctis il 17.11.1912: «E molto conta sacrificarsi per puntellare questo vecchio edificio? Lo so, c’è il cristianesimo che esso non invecchia, che ha ancora germi preziosi di vita morale per la nostra società... Ma il cristianesimo non potrebbe vivere e meglio fuori di questo imperialismo cattolico?... Questi dubbi sono piú amari nello stesso esilio, e l’esilio è amaro perché li fa sorgere piú tragici nell’animo» (ACCAME, Dal carteggio..., 1972, p. 61). Semeria, che pure era stato vicino a ecclesiastici come George Tyrrell, Salvatore Minocchi (1869-1943), Giovanni Pioli (1877-1969), Brizio Casciola (1871-1957) nei loro conflitti con la Chiesa, che ne aveva scongiurato l’abbandono, trovatosi in analoghe circostanze vide la sua fedeltà messa a dura prova. E non solo per ragioni ideali! Scriveva infatti alla madre, dall’esilio: «Io conto sul mio lavoro, ma finché si è preti non si può lavorare come si vuole» (Lettera del 9.2.1913, “Evangelizzare”, 1967, p. 212).

Se Semeria non prese in considerazione la supplenza in filosofia al liceo Doria di Genova, quando iniziarono i primi veti alla sua attività oratoria (cf. Memorie inedite, Fascicolo “Quaresima 1909”), se rifiutò la cattedra di filosofia teoretica all’università di Napoli, propostagli dal ministro della Pubblica Istruzione alla vigilia dell’esilio, perché in tal modo avrebbe derogato al suo impegno di fedeltà alla Chiesa; quando piombò nell’inoperosità coatta, avvertí fin dove potesse spingersi la soggezione a un potere antievangelico anche se ecclesiastico, e pensò a una sua vita professionale che lo riabilitasse almeno sul piano umano. In questo senso vanno letti i frequenti cenni a incarichi scolastici e relativi concorsi, che troviamo nelle lettere a De Sanctis (ACCAME, Dal carteggio..., cit., pp. 70-73. Semeria insegnò nei licei di Udine e di Mantova, durante la guerra e immediatamente dopo), non meno che in quelle a Angiolo Gambaro, che era sacerdote, e al quale raccomanda «d’entrare nella scuola vera, che è quella pubblica e statale». «Entrare nell’insegnamento pubblico» gli sembrerà «il vero programma» (Lettere a Gambaro, 29.10.1912; 21.1.1913). Per il tempo in cui visse Semeria, simili prospettive erano audaci e piene di incognite, non ultima quella, temuta da von Hügel, che egli perdesse il suo «caractère spirituel» (Lettera a Semeria del 26.10.1910). L’esperienza, da un Loisy a un Minocchi, ne mostrava tutto il pericolo...

 

 

La reazione antimodernista

L’influsso che Semeria esercitò sui suoi contemporanei può essere documentato da quanto Fogazzaro ebbe ad annotare ripetutamente nella corrispondenza con monsignor Bonomelli (cf. MARCORA, Corrispondenza Fogazzaro-Bonomelli, 1968). Scrive di «conversazioni con Semeria [che] mi hanno scossa, illuminata, qualche volta pure, se vuole, turbata l’anima... di quel turbamento... che è una febbre di sviluppo». Richiama le raccomandazioni del barnabita: «Bisogna conoscere la critica biblica» (27.12.1902). Per il romanziere vicentino, Semeria «rappresenta l’avvenire, il progresso» (28.4.1900). Da lui riceve l’incoraggiamento a interessarsi dell’evoluzionismo (24.11.1898). «Semeria - ricorderà riferendosi a uno degli incontri avuti con lui - mi fece l’impressione di un uomo fortissimo, arditissimo e sicuro di sé, destinato a grandi cose» (3.3.1899); una «gran mente» (22.4.1900).

Semeria era l’opposto di una mentalità gretta e polemica. Amava cogliere le “armonie”, come ripeterà spesso in prediche e conferenze. Considerava la diversità un dato fecondo. Significativo quanto ebbe a notare istruendo un parallelo tra due eminenti porporati inglesi, da lui presentati alla Scuola Superiore di Religione: Henry Edward Manning (1808-1892) e John Henry Newman (1801-1890).

«I due grandi cardinali rappresentarono mirabilmente al sec. XIX quelle due correnti di pensiero e d’azione, che sono eterne nella storia della Chiesa, e che i due santi del sec. XIII - Domenico e Francesco - personificarono in sé con una efficacia non piú superata, né raggiunta». Semeria si riferiva all’«azione cristianamente democratica» svolta dal Manning e al «pensiero cristianamente scientifico e moderno» promosso dal Newman. «Ciò vi mostra senz’altro - cosí proseguiva - come io paghi ai due illustri uomini un tributo concorde di ammirazione simpatica, senza bisogno di illudermi sulle differenze profonde che sempre li distinsero, e parvero qualche volta separarli nel corso di questa vita mortale, quando neanche ai santi riesce di vincere del tutto i difetti delle loro buone qualità, ed evitare gli attriti delle discordi vedute. A me è antipatica cosí l’arte dei maligni, che queste differenze esagerano, come l’artifizio dei timidi, che studiosamente le dissimulano o, per non so quale scrupolo di coscienza, le negano. Gli uni e gli altri sono vittime di un pregiudizio identico, che cioè non vi sia possibilità di vedute diverse senza discordia di animi avversi; gli uni e gli altri, invece di prendere il mondo della storia cosí come lo ha fatto la Provvidenza, lo vogliono rifare un poco o molto a loro capriccio... come se noi lo potessimo fare meglio di Lei!» (Il cardinale Henry Edward Manning, p. 4).

A documentare l’attiva partecipazione al movimento modernista e insieme a mettere in luce le prese di distanza dai suoi esiti scettici - prese di distanza inizialmente sfumate e in seguito nette e precise - valga per tutti quell’enigmatico documento che furono le Lettres romaines del gennaio-marzo del 1904, una sorta di manifesto dei capisaldi della “nuova” visione storico-critica applicata alle fonti del cristianesimo. A dir vero dell’enigma si era già intuita la soluzione esaminando il carteggio tra il barnabita e von Hügel, dove Semeria (che non a caso lasciò la minuta allegata alle lettere inviate dal barone) afferma che l’autore dello scritto era «noto a Dio e a voi... e a me». Piú accurati studi hanno definitivamente aggiudicato al corrispondente ligure il saggio senza dubbio piú illuminante e piú equilibrato sui grandi postulati del pensiero storico-critico e della concezione “evolutiva” del dogma da germe a frutto maturo, cosí come li aveva formulati Alfred Loisy ne L’Évangile e l’Église (cf. BEDESCHI-ARONICA, Lettere romane..., 2000).

Se il barnabita non partecipò al convegno di Molveno del 1907 che vide radunati tutti gli esponenti di rilievo del movimento modernista, lo ritroviamo però tra gli ispiratori della rivista milanese “Il Rinnovamento” e successivamente del buonaiutiano Programma dei modernisti del 1908, che venne redatto secondo «un piano in gran parte tratteggiato dal padre Semeria» (cf. CARTA, Bacchisio Raimondo Motzo..., 1978). Va pure aggiunto, come risulta da una lettera del 24.10.1909 inviata da Antonino De Stefano (1880-1965) a Ernesto Buonaiuti (1881-1946), corifeo del modernismo italiano, che si parlava di una sua adesione alla progettata “Revue moderniste internationale” (cf. BEDESCHI, Il processo del sant’Ufficio contro i modernisti romani, “Fonti e Documenti”, 7/1978, pp. 30-31).

La montante reazione antimodernista - che finí con travolgere il barnabita, dalle prime avvisaglie del 1906, l’indomani dell’uscita de Il Santo, fino all’esilio del 1912, passando attraverso il giuramento del 1910 - ha avuto la sua puntuale ricostruzione nelle pagine di “Fonti e Documenti” (GENTILI - ZAMBARBIERI, Il caso Semeria (1900-1919), 4/1975, pp. 54-527) alle quali rimandiamo il lettore, mentre emerge in tutta la sua urgenza e complessità il problema se e come Semeria fu “modernista”. Possiamo coglierne la reazione a caldo l’indomani della Pascendi, nel fascicolo “L’anno scolastico 1907-1908” delle Memorie inedite dove Semeria traccia la genesi del modernismo, dalle premesse storico-critiche alle conclusioni filosofiche, e reagisce all’enciclica di Pio X come a un documento che, almeno nei suoi confronti, ha sbagliato bersaglio. E afferma perentoriamente: “Il modernismo, se si sta alla definizione autentica che ne fu data in autentici documenti, io non l’ho professato mai in nessuna delle sue forme” (Lettera a Orazio Premoli, 3.7.1912, in “Fonti e Documenti”, 4/1975, p. 470).

Gli eventi successivi, ossia gli esiti scettici che segnarono i protagonisti del movimento, indubbiamente dettero ragione alla severa diagnosi papale, cosí che il giudizio di Semeria si fece piú sfumato e circostanziato. E questo a partire dall’esilio e soprattutto negli anni del dopoguerra. Riconosciuto legittimo in linea di principio, del modernismo si ammette il parziale fallimento di fatto. Il modernismo - scrive a Angiolo Gambaro il 21.1.1913 (Carte Gambaro) - fu il «tentativo non sempre ben condotto, non riuscito che in parte minima, di cosa però santa, necessaria e non nuova: la riforma religiosa della Società Cattolica». Nonostante l’insuccesso, la causa non va però abbandonata. Cosí si esprime ad Angelo Barile: «Io credo ancora che bisogna riprendere le tradizioni democristiane in vita pubblica e dal piú al meno le cosiddette [tradizioni] moderniste in cultura specie filosofica religiosa. È passata una bufera, lo so: ma da chi veniva? Da reazionari ciechi. I giovani non dovrebbero lasciarsi impaurire da questi avvenimenti... Io per me rimango fido a queste vecchie bandiere... che sono poi cosí giovani. C’è stata e c’è troppa mania di differenziarsi, c’è troppo voltar casacca, troppi transfughi, troppi impazienti. Siamo cristiani e latini, lavoriamo fidenter. Uomini come Tyrrell, come nel suo genere Loisy, come Blondel, Laberthonnière, Le Roy non sono spauriti perché la “Civiltà cattolica” li ha confutati (!)... Solo l’avvenire è alla democrazia, alla scienza, al cristianesimo armonizzato con l’una e con l’altra - ma lentamente, prudentemente, caritatevolmente” (Lettera del 22.12.1913, FARRIS, Padre Semeria..., 1984, pp. 32-33). Gli anni dell’esilio belga (1912-1914) vedono Semeria occupato in una serie di riflessioni filosofico-religiose, tra cui un ampio saggio su Biagio Pascal nella storia del pensiero moderno. I superiori, che d’accordo con padre Gemelli visionavano gli scritti prima della pubblicazione rigorosamente pseudonima, non credettero opportuno che venisse data alle stampe la seconda parte (ora in Saggi... clandestini, vol. I, pp. 267-268), che offriva al barnabita l’opportunità di precisare in nota, e con molta circospezione, il proprio pensiero: «Sia lecito in nota esporre con la modestia debita in materia cosí delicata alcune osservazioni tendenti a distinguere il pensiero di Pascal [sull’assensus fidei e cioè sul valore delle prove che conducono alla fede] da un analogo pensiero dei modernisti che venne autorevolmente ripreso e biasimato. Il modernismo fu ben definito un Pelagianesimo, una tendenza naturalistica, tendenza a concedere troppo alla natura e troppo poco a Dio e alla sua grazia, laddove il giansenismo fu il contrario,... un soprannaturalismo esagerato dove la parte della natura e della ragione è indebitamente ristretta e conculcata. Estremi l’uno e l’altro tra cui si muove col suo senso vivo di equilibrio il cattolicesimo che non fa della natura un idolo ma neppure un demonio».

Nonostante i distinguo e un forte radicamento nel proprio credo, il magistero semeriano venne preso sempre piú accanitamente di mira. Al barnabita quarantenne, nel pieno delle sue energie fisiche e spirituali, fu proscritta ogni forma di attività oratoria a partire dal 1907. Cosa che verrà confermata anche dopo che ebbe emesso il giuramento antimodernista con l’obiezione di coscienza espressamente accolta dal papa, come fa fede il biglietto autografo del 22 novembre 1910: «Nelle condizioni d’animo candidamente espresse nella sua lettera del 19 corrente, ella può fare con tranquilla coscienza il giuramento...». Giuseppe Prezzolini (1882-1982), scrittore, fondatore con Giovanni Papini de “La Voce”, interrogandosi in un celebre pamphlet su Cos’è il modernismo?, 1908, pp. 96-97, scriveva: «Il padre Giovanni Semeria, barnabita di Genova, può dividere col Fogazzaro l’onore di essere stato il commesso viaggiatore delle nuove idee. Se non tutte arrivavano pure all’uditorio attraverso le necessità oratorie del famoso predicatore, certo esse hanno ravvivato l’animo di parecchi giovani e promosso l’interesse alle questioni religiose di molti indifferenti. Egli ficcava le nuove idee dappertutto, parlando di storia e d’arte, di politica e di letteratura, perché non ha lasciato nulla di intentato, dalle letture dantesche fino all’alpinismo, ma sempre, peccato! nel genere oratorio. Ma non gli va fatta troppa colpa di ciò che è difetto dell’attività cui si è dedicato - e bisogna anzi essere meravigliati che vi abbia potuto introdurre qualche germe di nuove capacità intellettuali. Ora tace».

E dire che la sua voce era attentamente ascoltata da un uditorio che non conosceva distinzione di classi e di fedi, anche se tendenzialmente elevato e colto. Il suo magistero era avidamente cercato, a cominciare dal clero, se «qualcuno ricorda che si consumavano candele, di notte e anche di giorno negli scantinati dei seminari a leggere le pagine nuove» del barnabita, i cui libri venivano regalati ai novelli sacerdoti in occasione del conferimento degli ordini sacri (cf. GUASCO, Seminari e clero nel ‘900, 1990, p. 48).

L’onda montante della campagna antimodernista costrinse il padre, vittima di una «condanna ridotta», a lasciare esule l’Italia nell’autunno del 1912, alla volta di Bruxelles, per una destinazione considerata «anticamera dell’Indice», come ebbe a scrivere al gesuita Hippolyte Delehaye (1859-1941), il celebre Bollandista (cf. JOASSART, Hippolyte Delehaye..., 2000). In procinto di partire, Semeria rilasciò un’intervista a “La Stampa” del 23.9.12: «Ma verrà davvero la condanna dei suoi volumi? - Non so, non so, ripeto; io prego Dio di no. Se una condanna o una deplorazione colpisse una pagina sola dei miei scritti farei il mio dovere, come altri ben maggiori di me per sapienza e dottrina hanno fatto. Sarei però triste e dolente. Quanti giovani miei discepoli d’un tempo, quanti buoni figlioli ai quali ho insegnato per la grazia di Dio, la verità e la speranza, rimarrebbero avviliti e sconcertati. Ma speriamo in Dio e abbiamo fiducia nei galantuomini, che sono di natura e di educazione liberi e liberali». Scrivendo poi all’amico Musso, motivava in questi termini la virile docilità con cui aveva accettato l’allontanamento da Genova: «La coscienza comune, obbedendo io, giudicherà molto severamente chi mi perseguita; in caso diverso giudicherebbe e condannerebbe severamente la mia insubordinazione» (Lettera a Emanuele Musso, 28.8.1912. Carte Semeria).

Il richiamo alla coscienza ci consente di aprire una parentesi e di riportare una pagina di Ugo Janni (1869-1938), pubblicista e propugnatore della causa ecumenica, il quale con fine intuito ha colto il comune denominatore di due eventi cruciali nella vita di Semeria: il giuramento antimodernista e l’esilio: «Abbiamo ricordato due fatti di opposta natura - scrive nel necrologio apparso su “Fede e vita” nel 1931 -, i quali appunto con la loro opposizione dimostrano a quali altezze si ergeva la coscienza del grande Barnabita. Quando si sarebbe trattato di mentire a se stesso, alle sue profonde convinzioni, alla verità da lui conosciuta circa i rapporti della religione cristiana con la cultura firmando il “Sillabo” antimodernista, Semeria rifiuta pronto ad affrontare anche la scomunica della gerarchia pur di non tradire insieme con la verità l’anima stessa della sua Chiesa. Questo per coscienza! Quando invece si trattò di una sofferenza inflitta, con l’esilio, alla sua persona, di un’amarezza alla sua vita, questo non fu motivo riconosciuto da lui come valido per resistere danneggiando, con la disubbidienza per motivi personali, la Chiesa che amava e nella quale credeva. Ed umilmente, con alto spirito di sacrificio, prese la via dell’esilio. Anche questo per coscienza! La resistenza nel primo caso, l’ubbidienza nel secondo sono due fatti che moralmente si equivalgono, due diverse manifestazioni di una stessa grandezza spirituale, due forme di dedizione - in entrambi i casi a prezzo di inenarrabile dolore - all’imperativo categorico della coscienza» (JANNI, Il padre Giovanni Semeria, “Fede e vita”, 1931).

Approdato dunque nella capitale belga, Semeria rinsaldò la propria amicizia col cardinale Désiré Mercier (1851-1926), del quale apprezzava la spiccata sensibilità sociale non meno che il pensiero filosofico. Nel frattempo, vistasi preclusa ogni iniziativa all’interno dell’ambiente ecclesiastico, crebbe il suo interessamento per la scuola pubblica e i problemi che si dibattevano all’epoca. Semeria aveva già avuto modo di prendere in esame una fra le piú dibattute questioni del suo tempo, pronunciandosi contro l’abolizione dell’insegnamento della religione nelle scuole elementari. Lo aveva fatto però con quest’avvertenza, che si ovviasse alla carenza di vera formazione religiosa nei maestri. In tale carenza vedeva la ragione ultima del ventilato provvedimento.

Successivi interventi in materia scolastica vanno registrati a proposito di libertà di insegnamento e in merito al dibattito sulla scuola neutra. Semeria riteneva la neutralità contraria al vero progresso culturale, che non è possibile se non include l’elemento religioso, senza del quale la nostra stessa civiltà, soprattutto nella sua storia, letteratura e arte, riesce inesplicabile. Ma c’è di piú: la religione è destinata a suscitare nell’animo del fanciullo solidi orientamenti morali. Il suo insegnamento - conclude Semeria - va però impartito in modo positivo, efficace e da persone competenti. Il nome del barnabita tornerà ancora, sempre nel settore scolastico, insieme con quelli di Armida Barelli (1882-1952), fondatrice della Gioventú femminile di Azione Cattolica e collaboratrice di padre Agostino Gemelli (1878-1959), dell’onorevole Camillo Corsanego (18911963), politico e sociologo, e di altri, quando fratel Eugenio Alessandrini (18781956), delle Scuole Cristiane (SBORCHIA, Un educatore apostolico..., 1963), fonderà nel 1925 l’Associazione educatrice italiana, per la preparazione di insegnanti di scuole elementari e materne.

 

 

 

S. E. Mons. Angelo Bartolomasi

S. E. Mons. Angelo Bartolomasi, primo Ordinario Militare italiano

 

Per avere un’idea delle passioni politiche di quella non ancora del tutto chiara pagina di storia nazionale alle prese con la Grande Guerra, basti ricordare come lo stesso Mons. Angelo Bartolomasi, Vescovo castrense e diretto Superiore di P. Semeria in zona di guerra, era alle prese con la denuncia del cosiddetto “pericolo clericale”, che faceva scoccare frecciate contro il clero anche dai fronti opposti degli interventisti e dei pacifisti: «Guai se pronunciavamo la parola “pace” anche in senso morale! Incriminati di pacifismo per il solo fatto che volevamo far recitare ai soldati la preghiera di Benedetto XV, implorante pace fra le Nazioni belligeranti…Perfino si giunse al colmo dell’assurdo e del ridicolo col vietarne la pronuncia». In quel clima infuocato si giunse alla disfatta di Caporetto.

 

 

 

 

 

La Grande Guerra

Il sopraggiungere della guerra avrebbe aperto nell’esistenza di Semeria un nuovo capitolo. Egli aveva lasciato Bruxelles il 19.7.1914 per un periodo di vacanze in Svizzera, presso amici. Lo scoppio del conflitto nel Nord Europa non gli permise di ritornare in Belgio, a motivo della chiusura delle frontiere. Stante il divieto di rientrare in Italia, con il rischio della messa all’Indice già predisposta di Scienza e fede, risiedette provvisoriamente per sette mesi, dall’ottobre 1914 al maggio 1915, a Ginevra presso l’Opera Bonomelli per gli emigranti. Queste vicende sono ricordate dallo stesso Semeria in Nuove memorie di guerra, 1928, pp. 62; 73-100. Quando l’Italia uscí dalla sua neutralità (24.5.1915), «noi preti Bonomelliani - cosí scrive - si fece tutti, d’ordine superiore, domanda per servire come cappellani militari nel nostro esercito» (Memorie di guerra, 1924, p. 2. cf. SIRI, La figura e gli insegnamenti..., 1967, p. 4). Semeria, che aveva all’epoca 46 anni, ne dava l’annuncio alla madre, con lettera del 10.6.1915: «Sono stato accettato come cappellano militare... Io sono contento. Spero potrò fare del bene» (“Evangelizzare”, 1967, p. 274). Giunto al fronte fu destinato al Comando supremo da Luigi Cadorna (1850-1928), alla cui famiglia, e in particolare alla figlia Carla, era legato da vincoli di amicizia.

Se il disagio dell’esilio veniva in tal modo aggirato, si presentò immediatamente per Semeria un nuovo caso di coscienza: la posizione di convinto pacifista, qual era per temperamento e per convinzioni religiose, di fronte alla guerra. Il problema ebbe risvolti teorici e aspetti pratici. Sotto il profilo teorico Semeria scrisse molto, durante la guerra e dopo, per ricercarne le ragioni storiche e le giustificazioni morali. Oltre alle Memorie di guerra e Nuove memorie di guerra, si possono ricordare gli articoli apparsi su “L’Avvenire d’Italia” e alcuni scritti su Cadorna di cui fu «per trenta mesi commensale» (Memorie di guerra, p. VII), nonché le numerose conferenze nel periodo bellico e post bellico, pronunciate un po’ dovunque e note da resoconti di giornali o riviste registrati nella bibliografia.

Il “caso di coscienza” dell’interventismo venne direttamente affrontato da Semeria sulle pagine dei periodici milanesi fondati da padre Gemelli e facenti capo all’Università Cattolica. A firma Mario BRUSADELLI scrisse un fondamentale saggio dal titolo La guerra di fronte al vangelo (“Vita e Pensiero”, 1915, pp. 310321), cui seguí uno scambio di opinioni con monsignor Francesco Olgiati (1886-1962), filosofo tra i fondatori dell’Università Cattolica (I cattolici italiani e la guerra, “Vita e pensiero”, 1916, pp. 186-194). L’esame di questi testi e delle ragioni addotte da Danilo Veneruso (cf. Benedetto XV..., 1963, pp. 71-73) e da Tommaso Gallarati Scotti (ivi, p. 510) contribuisce a chiarire il passaggio di Semeria da pacifista a interventista, passaggio motivato dal riconoscimento del “principio di nazionalità” (cf. lettera a De Sanctis, del 25.9.1914, in ACCAME, Dal carteggio, 1972, p. 67).

Prima di soffermarci sul coinvolgimento di Semeria nelle logiche del conflitto, non va passato sotto silenzio un estremo tentativo pacifista da lui compiuto e del quale egli parla velocemente nelle Nuove memorie di guerra, p. 94: «Sognai anch’io una lega dei neutri che abbreviasse la guerra; sognai un’azione di tutti i partiti italiani e degli Stati neutri per promuovere quella lega. Feci anche approcci presso uomini diversi». Questa iniziativa è ora ampiamente documentata da ARONICA, Don Brizio Casciola e la neutralità italiana, 1971, pp. 277-304, dove è riportata la lettera del 24.8.1914 nella quale Semeria comunica a don Brizio il progetto di «una lega armata e concorde di tutti i neutri» (p. 286).

Trovatosi implicato in un evento che sollecitava le virtú civiche e patriottiche di tutti gli italiani, Semeria, in virtú del principio di nazionalità, abbracciò la causa della guerra come una necessità da accettare realisticamente: «Noi dobbiamo essere idealmente contro la guerra, pur disposti a subirne energicamente la realtà quando questa s’imponesse». Benché criticasse la «fraseologia retorica» del nazionalismo alla Enrico Corradini (1865-1931), egli ebbe alto «l’ideale della nazionalità». Sotto lo pseudonimo Mario Brusadelli, giustifica la necessità politica della guerra «per ragioni nazionali e internazionali». Nazionali, perché occorreva sfatare «il pregiudizio» della incompatibilità tra patriottismo e cattolicismo» (BRUSADELLI, I cattolici italiani e la guerra, “Vita e pensiero”, p. 193); e internazionali, perché la violazione dei diritti da parte degli Imperi centrali richiedeva un’adeguata risposta. Semeria era convinto che l’Italia con la guerra passava da «espressione geografica» a «realtà viva», per la quale si era «fieri di combattere». Ciò era certamente molto piú in linea con la tattica dello scontro frontale sostenuta da Cadorna, che non con lo stato d’animo dei soldati e il temperamento non violento dello stesso Semeria, il quale, piangendo, si confidava con l’amico Emanuele Musso: «Mando tanta gioventú a morire!». E infatti - cosí si legge in COSMACINI, Gemelli, il maresciallo di Dio, 1985, p. 155 - Cadorna usava Semeria «come predicatore d’assalto da mettere in prima linea, alla vigilia degli attacchi per galvanizzare le truppe. Il suo arrivo in trincea era considerato dai soldati come avvisaglia inequivocabile dell’attacco imminente». D’altra parte il suo predicare da “saltimbanco”, «condito con frasi dialettali, lazzi e barzellette», riscuoteva «grande successo tra i soldati» (ivi, p. 159) e ciò spiega perché la sua figura rientrasse in una precisa strategia militare: «È di un’attività straordinaria ed è sempre in moto» (CADORNA, Lettere familiari, 1967, p. 113).

Nella nuova situazione creatasi con l’intervento dell’Italia in guerra, il barnabita si trovò impegnato su due fronti: il Comando supremo e le truppe. Sulla sua opera al Comando supremo non mancarono valutazioni negative (cf. SILVESTRI, Isonzo, 1917). Quanto alle truppe, è interessante ricercare l’eco della predicazione semeriana non tanto nei ricordi personali del padre (Ricordi di guerra, 1956, vol. I, pp. 619-621) o nella biografia del collega Minozzi (MINOZZI, Padre Giovanni Semeria, pp. 163-168), quanto nell’animo dei soldati: essa dovette essere non sempre positiva. Presentare a esempio la messa da Campo come «degno preludio divino al dramma umano della forza e del sacrificio» (Memorie di guerra, p. 6), non poteva far dimenticare ai soldati il loro dramma di uomini esposti alla morte.

I contemporanei ebbero a sottolineare la retorica di guerra, con la quale Semeria sembrò incarnare il ruolo degli antichi crociati (FRESCURA, Diario..., 1921), cosí da venire considerato alla stregua di «un nuovo Savonarola in armi» (REY, Le nouveau Savonarole..., 1915). Questo finí con il suscitare non poche critiche, già avanzate dagli antimodernisti quando il barnabita si trovò a illustrare i presunti caratteri evoluti delle guerre moderne rispetto a quelle antiche (cf. Semeria a Livorno. La poesia della guerra, “L’Unità cattolica”, 23.5.1912), critiche che sono state riprese da studiosi posteriori (si vedano per tutti le considerazioni di JEMOLO, Padre Semeria, 1956; Chiesa e Stato..., 1965). D’altra parte, quasi a controbilanciare quest’aspetto, soccorre l’unanime testimonianza di come Semeria abbia esplicato al fronte un’intensa attività caritativa nello svolgimento della propria azione in favore dei soldati, cosí da non temere di raggiungerli nel teatro delle loro operazioni. Di quest’aspetto si può cogliere una preziosa documentazione nella bibliografia (cf. Gli anni della Grande Guerra). Qui basti allegare una testimonianza conservata nell’Archivio semeriano. Flavia Steno, addetta ai servizi sanitari presso l’esercito, in un articolo apparso su “Il Nuovo Cittadino” di Genova (Padre Semeria e la guerra) ricorda come il barnabita «aiutava a combattere, a resistere, a vincere, a morire». Egli mediava tra i soldati e le «supreme gerarchie dell’esercito» e in questo «diede di sé tutta la misura... Fu, a volta a volta, assistente spirituale, guida confortatrice, confidente lume». Paolo Brezzi (1910-1998), storico del Cristianesimo, rievocando nell’anno centenario della nascita, sulle pagine de “L’Osservatore romano”, la Carità in padre Semeria, nota come egli «fu tutt’altro che un avventato banditore della mistica del sangue o del nazionalismo egoistico; però quando la Patria fu chiamata a uno sforzo supremo, ubbidí e fece il suo dovere fino in fondo, prodigandosi in mille iniziative di carità e assistenza, spiegando il vangelo domenicale al Comando supremo, rintuzzando le accuse mosse ai cattolici, mantenendo i contatti con persone di ogni fede e condotta».

Lo spettacolo straziante che le operazioni belliche portavano con sé, lacerò l’animo di Semeria: «Sentí ripercuotersi nella morte le sue stesse parole altisonanti di incitamento a combattere, ne provò l’angoscia smarrita di aver tradito la sua vocazione sacerdotale, di aver ingannato con la parola la sua fede piú vera, il comandamento della carità» (GALLARATI SCOTTI, Idee e orientamenti..., 1963, p. 510). Il “caso di coscienza” che sembrava risolto, si tradusse ben presto nel “dramma religioso dell’interventismo” e spiega - come scrisse lo stesso Semeria, Memorie di guerra, p. 109 - «il trauma psichico, le ferite morali» del suo spirito, già duramente provato durante l’esilio e negli anni immediatamente precedenti, come fa fede la sua corrispondenza soprattutto durante il 1914 (cf. ACCAME, Dal carteggio, cit.; BARILE, Lettere inedite..., 1966, pp. 75-76).

Aggiuntosi alle precedenti «ferite morali» della persecuzione antimodernista e dell’esilio, il «trauma psichico» dell’interventismo (lo ricorderà Gallarati Scotti nella toccante rievocazione citata sopra, il quale sembra però sottovalutare le lacerazioni interiori dovute ai duri colpi inferti al barnabita dai provvedimenti dell’autorità ecclesiastica) condusse Semeria a tal prostrazione da costringerlo a lasciare, dopo soli sei mesi, il Comando supremo per una lunga e dolorosa nevrastenia acuta, con accentuate fasi depressive che lo travolsero in un’«orribile tentazione», spingendolo a tentare il suicidio nell’aprile 1916, al tempo stesso, cioè, in cui Benedetto XV gli fece pervenire tramite don Luigi Orione (1871-1940) 88 proposizioni, miranti alla condanna del suo pensiero filosofico e teologico, perché le ritrattasse. Lo stesso Orione ritirò le risposte e le recapitò al papa (cf. BIANCO, L’”orribile tentazione”..., “Barnabiti studi”, 1/1984, pp. 193-208 e RINALDI, Testo e contesto delle 88 proposizioni..., Ivi, 16/1999, pp. 207-326).

Dalle Lettere familiari di Luigi Cadorna ricaviamo alcuni apprezzamenti che possono risultare illuminanti sui risvolti psicologici della vicenda semeriana durante la guerra. Gli inizi al Campo furono promettenti: «Il padre Semeria è giunto, è diventato grasso e barbuto e non rassomiglia certamente ad una statua greca. Egli pranza con noi, è molto disinvolto e ci tiene allegri. È soddisfatto della posizione di cappellano dei carabinieri, perché è troppo panciuto per seguire un reggimento operante». Poi il crollo: «Qui tutti deplorano il suo stato... Pensiamo che abbia avuto qualche grana dalla Chiesa. Ha tanti nemici e lui è cosí sincero e imprudente!». Quando la crisi era al suo acme, Cadorna scrive: «Egli è un gran brav’uomo ma in fondo è un debole. Pare che in gran parte il suo squilibrio sia derivato dal fatto che da un lato deve predicare la guerra e dall’altro è inorridito dagli orrori della guerra». E ancora, quando ormai la “terribile tentazione” era stata superata: «Quel brav’uomo è pieno di ingegno e di cultura, ma è piuttosto squilibrato ed ingenuo e perciò non ha alcun valore nel campo pratico: donde l’origine dei suoi guai...» (CADORNA, Lettere familiari, 1967, p. 108, Lettera del 18.6.1915; p. 130, Lettera del 28.11.1915; p. 140, Lettera del 14.2.1916; p. 211, Lettera del 31.7.1917).

Anche se l’avvicendamento al soglio pontificio aveva fatto sperare a Semeria il rientro in Patria, lo stesso Benedetto XV (1854-1921; papa dal 1914), peraltro benevolo verso il barnabita da lui conosciuto in anni lontani, dovette ammettere che «purtroppo, se non fosse venuta la guerra, avrebbe visto il suo libro principale, ossia Scienza e fede, messo all’Indice». E infatti il papa trovò che la posizione canonica del padre era piú grave di quello che credesse precedentemente (cf. “Barnabiti studi”, 16/1999, p. 219). Può risultare illuminante quanto lo stesso pontefice scriveva all’arcivescovo di Genova: «...Pel padre Semeria perdura il divieto di predicare, anzi di stare in Italia: a tale divieto si è tacitamente derogato per ciò che importa il suo ufficio di cappellano del Comando generale, affinché non si potesse attribuire la proibizione a ostilità personale pel generale Cadorna: e poi si è chiuso un occhio per la “zona di guerra”; ma poiché recentemente si è visto che cotesta “zona di guerra” per padre Semeria si allarga un po’ troppo, nei passati giorni si è detto al suo generale di richiamarlo al dovere. Del resto non posso dirmi soddisfatto di quel religioso, perché io stesso lo pregai di trovar modo di spiegare le molte frasi incriminate nei suoi libri come di dubbia ortodossia, perché gli feci conoscere che sembrava impossibile di evitare la condanna, ed egli anche recentemente a Padova in tre conferenze che avrebbe dovuto predicare agli studenti universitari... predicò da vero modernista! Me ne dispiace, perché se ho ritardato la condanna per non dar luogo a polemiche giornalistiche, la difesa della vera dottrina mi obbligherà a lasciar pubblicare la sentenza... già preparata» (Lettera a monsignor Ludovico Gavotti, 15.4.1917, nell’Archivio della Curia arcivescovile di Genova).

Che questa fosse l’intima convinzione del pontefice risulta anche da un documento dell’Archivio della Segreteria di Stato vaticana, dove si legge una postilla autografa di Benedetto XV, in risposta a una lettera del 30.9.1917 con la quale Semeria proponeva la fondazione di un’opera caritativa per il Mezzogiorno d’Italia: «Il primo e principale modo con cui padre Semeria si occuperebbe del nascente orfanotrofio sarebbe quello delle conferenze, fatte per denari. Ora nelle conferenze padre Semeria parlerebbe di quella immanenza, di quel volontarismo... Ed ecco il modernismo far capolino» (STORTI, Documento dell’Archivio..., “Evangelizzare”, 1990, p. 15).

L’archiviazione del “caso Semeria” - un’espressione che divenne proverbiale all’epoca -, fu voluta personalmente dal papa, dopo le chiarificazioni del barnabita e nonostante l’irriducibile opposizione del cardinale Gaetano De Lai (1853-1928), l’intransigente prefetto della Congregazione Concistoriale, che puntava sempre su una vera e propria ritrattazione. Semeria era nel frattempo tornato al fronte (autunno 1916), per poi passare dopo la disfatta di Caporetto (ottobre 1917) al collegio barnabitico di Bologna, sotto le dirette dipendenze dell’Ordinario militare. Parlando a Parigi il 3 marzo 1917, ricordò che una delle piú significative surprises de notre guerre era la sconfitta del clericalismo, come atteggiamento che aveva reso il mondo cattolico ostile alla causa nazionale, e del socialismo che, dopo aver oscillato «tra due estremi, l’oppio governativo e l’alcool anarcoide», aveva sposato la causa di un «pacifismo rivoluzionario».

Ma la “sorpresa” piú consolante fu l’esplosione di carità che si sprigionò nell’animo provato di Giovanni Semeria. Inter arma caritas è il titolo di una conferenza che egli tenne a Padova il 17 aprile 1917. Tema d’obbligo, questo, nella predicazione semeriana al fronte. «Oggi domenica - cosí Ugo Ojetti (18711946), scrittore e giornalista, informava la moglie - sono stato a udir la predica di padre Semeria nel Duomo zeppo di soldati e ufficiali: una predica sulla carità». Il barnabita non era nuovo alle «fatiche della carità», per riprendere un’espressione di san Paolo. «Lo studio - affermava - è arido e penoso, quando non si coordina a nessuna forma immediata d’azione sull’animo altrui». Fu cosí che l’uomo di scienza, fin dagli albori del suo sacerdozio, si fece ministro di carità. Giunto nel capoluogo ligure, diede origine a «parecchie opere buone e benefiche», da meritare l’elogio del Procuratore generale durante la vertenza del negato exequatur ad Andrea Caron (1848-1927), che nel 1912 doveva succedere nell’episcopato in Genova a Edoardo Pulciano (1852-1911): «Padre Semeria da oltre quindici anni era diventato il beniamino di tutta la popolazione. Era chiamato l’uomo della carità» (MARGIOTTA BROGLIO, Italia e Santa Sede..., 1966, p. 270). Una volta trasferitosi al fronte, quale Cappellano del Comando supremo e, durante la crisi nervosa, presso l’Opera Bonomelli, il barnabita non mancò di prodigarsi a favore dei soldati e degli emigrati, come fanno fede copiose testimonianze (Cf. nella bibliografia, Gli anni della Grande Guerra e BORDIN-ZANCAN, Il vescovo Ferdinando Ridolfi..., 1997).

 

 

Riemerge un antico progetto

Mentre la raggiunta integrità territoriale costituiva la premessa per realizzare una vera solidarietà europea, da Semeria esplicitamente auspicata («Per restare alla testa della civiltà, la nostra Europa occidentale deve stringersi in se stessa piú compatta e piú solida»), le ferite della guerra ispiravano al barnabita e a don Giovanni Minozzi, incontrato nell’autunno 1916 nel pieno svolgimento delle operazioni belliche, la fondazione dell’Opera nazionale per il Mezzogiorno d’Italia (1919), che si proponeva di accogliere ed educare gli orfani, specialmente delle popolazioni del Sud, tra le quali era reclutato il maggior numero di soldati. Riemergeva in tal modo l’antico progetto calabrese, accarezzato da Semeria in seguito a una tournée oratoria, voluta da don Luigi Orione, tra i terremotati calabro-siculi (1908), progetto considerato come soluzione della sua vicenda modernista. Aveva infatti scritto a Pio X nel 1909 di lasciarlo «tornare a esercitare un apostolato di pura carità, in Calabria stessa; lí non ci poteva essere sospetto di modernità intellettuale. Finivo - prosegue Semeria - dicendo che era bello seppellire sotto le macerie del terremoto il mio presunto o preteso modernismo» (Memorie inedite, Fascicolo “L’anno scolastico 1907-1908”. Cf. PAPASOGLI, Vita di don Orione..., 1974).

Non possiamo omettere a questo punto una digressione che ci consente di misurare la complessità delle vicende che segnarono la vita di Semeria e di precisare il rapporto che intercorse con don Orione, da lui ritenuto, e a buon diritto, il suo «santo presso Dio» che gli fu paternamente vicino durante la drammatica crisi del 1916 e del quale si serví lo stesso pontefice per testimoniargli la sua vicinanza al tempo della grave malattia nervosa e per favorirne la riabilitazione. Un recente Convegno (cf. Av. Vv., Don Orione negli anni del Modernismo, 2002) ha messo in luce la partecipazione del Santo della carità alla crisi modernista e ha inteso scagionarlo dall’accusa di “delatore”: «Egli non “spia”, né “denunzia”, ma “informa...», puntualizzava Roberto de Mattei, docente di storia moderna all’università di Cassino, nel saggio introduttivo. Il Santo si vide portato a compiere, con le migliori intenzioni, un doppio gioco: paternamente benevolo verso i presunti modernisti e strenuamente avverso al modernismo. Ma era possibile tenere le due realtà separate? Se lo fosse stato, non si leggerebbero nelle sue missive espressioni come «ci mancherebbe ancora padre Semeria!» ad aggravare la situazione dei terremotati siculi, aggiungendo a quello materiale il terremoto dottrinale; e la valutazione di «male incalcolabile» che deriverebbe dalla sua presenza nonché da quella di “modernisti” nella veste di generosi soccorritori dei sinistrati. L’animus di don Orione risulta ancor piú illuminante se mettiamo a confronto la minuta della lettera al cardinale Rafael Merry del Val (18651930), segretario di Stato di Pio X, con quella effettivamente inviata. Opportunamente Annibale Zambarbieri, dell’università di Pavia, nell’introdurre il Convegno metteva in guardia, appoggiandosi all’indiscussa autorità di Henri-Irénée Marrou, l’autore de La conoscenza storica, da una visione manichea della storia che vede sistematicamente contrapposti buoni e cattivi, progressisti e conservatori, per non citare Benedetto Croce quando sostiene che la storia non è giustiziera. E ciò vale anche per i santi. Ovviamente il ruolo di don Orione non si limitò a tale aspetto, che pure è sintomatico di un clima che segnò un pagina triste della storia ecclesiastica - von Hügel parlava di «tristesses ecclésiastiques» (Lettera a Semeria del 19.10.1907) -, ma spaziò su un vasto campo di relazioni che ben documentano il peso provvidenziale che il Santo ebbe in un tornante tormentato della storia ecclesiastica. Soltanto per citare due esempi, si potrebbe ricordare che don Orione chiese a padre Semeria di scrivergli per intero una bozza di Costituzioni per il suo istituto, volendo offrire norme in vista di «una legge che sia grande come la santa carità». E quando alcuni dei suoi chierici incontrarono Buonaiuti, ingiunse loro di baciargli le mani, quantunque fosse sospeso a divinis.

 

 

Le fatiche della carità e i “due Semeria”

Fattosi pellegrino e questuante, a cominciare da una lunga tournée negli Stati Uniti (novembre 1919 - luglio 1920), Semeria seppellí, non piú sotto le macerie del terremoto, ma sotto quelle della guerra, le armi di gloriose battaglie e, pur non tradendo intimi e sudati convincimenti, si fece piú conciliante. Oltretutto il rientro in Italia (il 29 settembre 1917 Semeria lasciò il Comando supremo alla volta di Bologna) era condizionato ad una almeno implicita ritrattazione dei presunti errori, che prese corpo nell’Epilogo di una controversia. Lettera aperta... a proposito del volume «Scienza e fede», del 1919, dopo la quale il cardinale Gaetano De Lai diede via libera all’Opera nazionale per il Mezzogiorno d’Italia.

Successivamente, anche sotto il fascismo, il pane per gli orfani sarebbe stato cosa cosí preziosa da spingere il barnabita a far buon viso al nuovo regime. Come ha ricordato padre Celestino Argenta (1902-1984), lo stesso Semeria dava le cifre della sua attività: «Millecinquecento ragazzi da far vivere, settemila da educare, diciotto orfanatrofi, quarantanove asili infantili e laboratori, venti colonie alpine, una marina. Questo è importante. Il resto è vanità» (cf. ARGUS, Giovinezza piemontese di padre Semeria, “Il Popolo nuovo”, 15.3.1956).

Pur «non curvando la schiena e non tacendo le riserve», Semeria corse il rischio di passare per «un avvocato del fascismo e un glorificatore incondizionato di esso». Noteremo in proposito come agli inizi del 1921, prima della marcia su Roma, Semeria considerava il fascismo «un patriottismo violento nei sentimenti, violento nella forma». Gli riconosceva una funzione antibolscevica, ma notava che, «dopo essere stato una difesa, il fascismo, se non finisse a tempo, finirebbe per diventare un disordine». Anche se si era rivelato «necessità momentanea», il fascismo non poteva assolutamente essere legittimato per la sua violenza, ma semmai per il suo patriottismo. E siccome «il fascismo vuole riprendere tutti i valori della patria, materiali e spirituali,... il nostro dovere cattolico è cristianizzare il fascismo». «Anche nel fascismo bisogna far penetrare sempre piú schietta, piena, generosa la idea cristiana». Altrimenti, «senza religione, sarà bufera che devasta». Sebbene apprezzasse e sostenesse il tentativo del PPI e i propositi del suo fondatore, don Luigi Sturzo (1871-1959), da lui conosciuto in Sicilia, Semeria sottovalutò, nel suo ottimismo infantile, come ebbe a dire Alcide De Gasperi (1881-1954), la matrice profondamente illiberale del fascismo. Muovendosi tra legittimismo e fondato timore per uomini e metodi (interessante, in proposito, la lettera a don Brizio Casciola del 6.2.1923. Cf. ARONICA, Una tenace amicizia modernista, “Fonti e Documenti”5-6/1976-77, pp. 448-533), non mancherà di constatare che «i moti vivaci o hanno un contenuto religioso davvero o prendono religiose attitudini e colorazioni. Oggi il fascismo, ieri il socialismo». E appunto perché religione, paradossalmente il fascismo comprese quale «eccellente speculazione patriottica» fosse la Conciliazione.

Alla Conciliazione, e non alla sua contropartita politica, il Concordato, Semeria consacra le ultime pagine dei suoi scritti. Egli non aveva mancato di notare, fin dall’inizio del pontificato di Pio XI, come la «conciliazione [fosse] in marcia». Giunto alla celebrazione dello storico evento, maturato e atteso lungo tutto l’arco della propria esistenza, Semeria considera «una grande data della storia del Risorgimento questa dell’11 febbraio 1929». Persuaso che «senza approvare l’errore dei liberali, si può rendere omaggio all’opera dei liberali» (L’eredità del secolo, p. 185), Semeria accettò lo Stato nato con il Risorgimento come segno di riconciliazione tra le due rive del Tevere e riteneva che andasse riconosciuta internazionalmente la legge delle Guarentigie, in modo che il papa, senza o con un minimo territorio indipendente, potesse esercitare liberamente la funzione pastorale del suo alto mandato.

La coscienza cristiana camminava verso l’unificazione e il processo che condusse il Paese a dignità di nazione civile e libera non poteva mancare di una sua espressione religiosa positiva e apportatrice di pace. L’unità italiana sul piano politico-sociale non doveva essere avvertita come conflitto su quello religioso. D’altra parte, rileva Semeria, la Conciliazione non è «l’ultima pagina di un volume finito», ma «la prima pagina di un nuovo volume», dove si scrivano le vicende di «un’Italia sinceramente rispettosa dei principi evangelici». Si veniva in tal modo riproponendo quella che il barnabita ebbe a definire «la grande questione» dell’epoca moderna, se era cioè possibile che in essa sorgesse una civiltà autenticamente cristiana.

Si tratta di un convincimento che Semeria ebbe a illustrare non senza autorevolezza, al VII Congresso nazionale di Filosofia, tenutosi a Roma dal 26 al 29 maggio del 1929. In quell’occasione, Giovanni Gentile si dichiarava «lieto di apprendere che anche da parte cattolica si concedesse allo Stato carattere etico» (Atti del VII Congresso, ecc., Milano-Roma, Bestetti e Tumminelli, 1929, p. 325). Quest’affermazione venne smentita da una rappresentanza di filosofi dell’Università Cattolica di Milano, cui Pio XI volle fosse aggregato padre Semeria. E infatti, aperto il dibattito dopo la prolusione di Gentile (La filosofia e lo Stato, ivi, pp. 17-26), egli prese per primo la parola ponendo due quesiti. Anzitutto «se la filosofia abbia rapporti speciali e tutti suoi o si trova di fronte allo Stato (e viceversa lo Stato di fronte a lei) nella stessa posizione delle altre scienze, per esempio la fisica e la matematica... Se scienza, libera o metodica indagine, è la filosofia» - aggiungeva -, a questo titolo e in quanto tale «interessa lo Stato etico», dal momento che lo Stato deve incoraggiare «i cultori liberi e seri di essa nei loro studi metodicamente condotti». Da qui il secondo quesito: «Quando si parla di Stato etico, si vuol dire che lo Stato (governo o moltitudine) crea il diritto? O che lo deve esso per primo riconoscere e rispettare?... Lo Stato, nel sistema gentiliano, non riceve, fa il diritto; fa, crea la verità e la giustizia. Indubbiamente però c’è stata e c’è un’altra filosofia oggettiva in proposito: per la quale giustizia e verità (che sono poi la stessa cosa) sono indipendenti e superiori all’uomo, individuo o società governata e governante». Che si tratti delle idee platoniche o della «verità e giustizia divina» della filosofia cristiana, «l’oggettività è il carattere fondamentale, la cui negazione, per investire lo Stato d’una funzione creatrice, è estremamente pericolosa». Per dimostrare come lo Stato può assumere comportamenti contrari alla verità e alla giustizia, Semeria addusse due esempi: il fatto che lo Stato tedesco nel 1914 proclamò carta straccia i Trattati, e la proscrizione di Santorre di Santarosa da parte di Carlo Felice nel 1821-1822.

Passando a rispondere alla tesi gentiliana dei due momenti in cui si realizza lo Stato, a seconda che siano gli individui o i governi a esprimerne la natura, Semeria propose «come veramente sintetico il concetto cristiano dello Stato o Governo, sintetico dei diritti contrastanti dell’individuo e della collettività. Amore, carità e quindi sacrifizio è la grande legge, grazie alla quale l’individuo accetta i limiti del vivere sociale tracciati dall’autorità (Governo). La quale, però, non è, non può, non deve essere dispotica in una concezione tutta satura d’oggettività, della giustizia, del bene; deve sottostare alla Legge (coll’l maiuscola) anch’essa l’autorità statale (o domestica), pena il suicidarsi, lo svuotarsi. Questi limiti (legge) ragionevoli suonano, sono sacrifizio per l’individuo, ma il sacrifizio è fecondo intrinsecamente: arricchisce colui che pareva, compiendolo, impoverirsi. Individuo e Stato, limitandosi e servendosi cosí reciprocamente, servono la causa di Dio, che è la causa stessa della crescente civiltà della umana famiglia» (pp. 320-321).

Nulla meglio di quest’episodio su cui ci siamo volutamente soffermati può documentare quell’«opposizione spirituale» al fascismo di cui parlava Primo Mazzolari (1890-1059) e nel contempo riproporre l’innato ottimismo non privo di senso critico e la visione di speranza con cui Semeria chiudeva, nel pieno della sua attività caritativa, la propria esistenza tra le orfane di Sparanise, nel Casertano, il 15 marzo 1931.

Rifacendosi all’ultimo incontro con l’amico, il critico letterario Giuseppe Toffanin (1891-1980) ricordava quanto ebbe a confidargli sui due cristianesimi. «Uno è il cristianesimo di chi non può non dirsi cristiano. Esso preesisteva al cristianesimo stesso e coincide con gli ideali di libertà, uguaglianza e fraternità propugnati dalla rivoluzione francese. L’altro è il cristianesimo della carità e, in base a esso, non c’è forse nessuno che possa dirsi cristiano». È a questo cristianesimo vissuto che rimandano le ultime parole pronunciate da Semeria sul letto di morte: «Vi raccomando la carità a tutti. Vivete di carità».

In un triduo risalente al 1928 rimasto a lungo inedito, tenuto in onore di sant’Antonio M. Zaccaria (1502-1539), il fondatore dei Barnabiti, Semeria ricorderà, tre anni prima della morte, che «ardore di carità, forza di sacrificio, slancio di zelo» sono le condizioni «indispensabili per divenir santi». Una santità che, nel suo caso, potrà essere riconosciuta dalla Chiesa, dal momento che, come si è detto, sono stati avviati i processi di canonizzazione del grande barnabita.

«Amare Dio sarebbe relativamente facile - sosteneva Semeria, scrivendo una pagina dal sapore autobiografico per il triduo che abbiamo citato or ora -, se non avessimo qui in terra il dolore. Finché tutto ci sorride, ci va a seconda, non dubitiamo della bontà di Dio, del suo amore per noi, e siamo portati a ricambiarglielo. Ma qualche volta Dio si nasconde; qualche volta lascia che gli uomini ci calunnino e ci perseguitino, che l’intelletto si oscuri, che il corpo ci si ammali, la fortuna ci si diminuisca; e allora, oh allora, com’è difficile la pazienza, ma come necessaria! È proprio allora che si vede quali sono i nostri veri amici, nei giorni di sventura. Allora si vede se amiamo il prossimo».

Considerando l’esito dell’intera vicenda del barnabita, si è parlato di “due Semeria”, quello della scienza e quello della carità. A dir vero una simile schematizzazione non dispiacque allo stesso Semeria, quando affermò come Giulio Salvadori «era felice che lo studio avesse dato luogo alla carità» (I miei tempi, p. 79). Un altro intimo del nostro, Giovanni Minozzi, si espresse in questo senso con bella formula: «La carità assorbí la scienza» (Padre Giovanni Semeria, 1967, p. 276). Dopo di loro Scoppola parlò dell’azione caritativa di Semeria come di «un succedaneo dell’opera culturale preclusa» (Crisi modernista..., 1961, p. 361). A una considerazione piú attenta ci sembra di dover condividere quanto ebbe ad affermare il critico letterario Carlo Bo (1911-2001), debitore verso Semeria nella sua ricerca religiosa (cf. GRIECO, “Io e Dio”. Si confessa Carlo Bo..., “Gente”, 6.1.1984), in un articolo uscito su “Il Corriere della sera” (Padre Semeria e la carità, 28.7.1967) nel centenario della nascita del barnabita, dove semmai sarebbe piú corretto parlare di “tre Semeria”.

«La figura di Semeria - scriveva l’illustre saggista - va ricostruita tenendo presenti questi due momenti che sono intimamente collegati fra di loro, mentre separati potrebbero originare una profonda e ingiusta deviazione... All’origine c’è uno spirito estremamente dotato per gli studi e la predicazione; in un secondo tempo c’è l’uomo che tenta di sostituire un’immagine deteriore di cattolicesimo inteso come difesa, come ripetizione tradizionale, con un’altra ansia, una diversa e piú pura aspirazione di collaborazione col mondo, e infine l’uomo che rimane colpito dalla strage e decide di intervenire con l’azione per arginare le rovine della guerra... Non mise mai in dubbio la bontà della battaglia condotta dai suoi amici modernisti. Fece però una cosa molto piú difficile; mise a servizio degli afflitti, delle vittime innocenti tutto il capitale di scienza e di vita che aveva accumulato in tanti anni... C’era all’origine di questo curioso mendicante moderno una carica spirituale che lo spingeva ad un’ultima assunzione del male del mondo, che è una caratteristica del cattolicesimo nuovo o, come diceva, “giovane”... E da questo punto di vista egli acquista un’altra dimensione, tutta moderna, tutta attuale, e potrebbe essere tenuto come un esempio, se la memoria degli uomini non fosse fatta di vento e di polvere».

Vento e polvere non hanno cancellato a settantacinque anni dalla morte il ricordo di un uomo che, al dire di don Minozzi, «portava il mondo con sé». La prematura, repentina scomparsa del “Servo degli orfani” registrò un coro di voci unanimi nel riconoscere la straordinaria statura culturale e morale del barnabita. Tra di esse scegliamo quella che per sintesi e brevità ci sembra la piú eloquente, dovuta oltretutto alla penna di Ernesto Buonaiuti.

«Sessantaduenne [in realtà sessantaquattrenne], ha chiuso la sua operosissima carriera di ministro irreprensibile del sacerdozio cristiano. Momento saliente della sua vita quello nel quale lo scatenamento della bufera antimodernistica, pose lui, genialissimo antesignano degli studi storico-religiosi fra noi, ad un bivio penoso ed urgente: continuare, con repentaglio grave della sua pace religiosa e carismatica, il lavoro di divulgazione critico-apologetico, o aprire nuovi sbocchi alla propria fervorosa operosità? Scelse la seconda alternativa. E della scelta, come di ogni decisione congenere per gli uomini della sua generazione e della sua vocazione, Dio solo poteva essere giudice. Semeria si gettò con tutta l’anima in un’opera grandiosa di carità evangelica. E creò, con la cooperazione di anime sorelle, che gli furono devotamente legate, una istituzione destinata indubbiamente a sopravvivergli. “Piú grande l’amore!” fu, in sostanza, l’aforisma della sua vita. C’inchiniamo, dinanzi alla sua salma lacrimata, con una lacerazione di piú nell’anima. Usciti dalla bufera con una decisione diversa dalla sua, sentiamo, oggi piú che mai, in quale atmosfera di abnegazione consapevole si svolse la sua mirabile vocazione! La sua mercede divina è, oggi, attestata dal pianto innumerevole delle anime derelitte ch’egli beneficò, sorridentemente prodigo di tutte le sue energie e di tutti i suoi giorni. “Mihi fecisti!”.

 

 

 

 

 

Riduzione del testo di GENTILI A. M., Padre Giovanni Semeria nel 75° della morte, 295-328.