«Il cristiano è un “uomo di pace”, non un “uomo in pace”: fare la pace è la sua vocazione». Cosí Don Primo Mazzolari (1890 - 1959) apre un capitoletto di Tu non uccidere (1955), concludendolo poi con le parole di speranza di Pio XII: «L’avvenire appartiene a quelli che amano, non a quelli che odiano... il demonio ha invaso la terra con l’odio: fate rivivere, prepotente, l’amore. Tanti sono ancora cattivi perché non sono stati finora abbastanza amati» (p. 30).

Due testimoni, due apostoli che parlano, in fondo, lo stesso linguaggio del Concilio Vaticano II: anzi l’hanno precorso e preparato, leggendo e interpretando profeticamente il loro tempo, con tutte le istanze e le contraddizioni, le attese e le disperazioni che hanno segnato la prima metà del ‘900. Nella linea dei grandi Papi del ‘900 e dei testimoni credibili come Gandhi, La Pira, Martin Luther King. Di questi grandi - direbbe David Turoldo - “la morte ha paura”, la guerra ha paura, la prepotenza ha paura (Ivi, prefazione di L. Capovilla, p. 6). Scrive Don Guido Astori, suo collega cappellano militare e amico fraterno: «Fu un contestatore, ma un contestatore ubbidiente, e seppe soffrire per la Chiesa e dalla Chiesa con mirabile spirito di sacrificio e nobiltà d’animo» (Bollettino dei Cappellani Militari, anno XII, maggio 1968, p. 4).

Nella lettera aperta a Il Popolo di Milano Luigi Santucci presenta Don Mazzolari come «il Cappellano della pace; la canonica di Don Primo è il piccolo quartiere generale della pace in Italia» (15.IX.1955). L’Arcivescovo di Milano, Mons. Montini, nel 1957 lo invitò a predicare nella propria Diocesi. Il 24 febbraio 1958 il S. Uffizio, tramite la Curia di Vicenza, ordina il ritiro di Tu non uccidere. “Pazienza!”- commenta Don Mazzolari.

Papa Giovanni XXIII, ricevendolo nell’udienza del 5 febbraio 1959, definí il parroco di Bozzolo la tromba dello Spirito Santo in terra mantovana.

Due testimonianze postume: Papa Paolo VI (1970): «Non era sempre possibile condividere le sue posizioni: Don Primo camminava avanti con un passo troppo lungo e, spesso, non gli si poteva tener dietro; e cosí ha sofferto lui e abbiamo sofferto anche noi. È il destino dei profeti»; Papa Giovanni Paolo I (1978) : «Don Primo fu un uomo leale, un cristiano vero, un prete che camminava con Dio, sincero e ardente. Un pastore che conosce il soffrire e vede lontano. Il suo giornale era la bandiera dei poveri, una bandiera pulita, tutta cuore, mente e passione evangelica».

Un po’ di dati biografici e non, per capire e illuminare l’uomo e il Cappellano. Primo Ernesto Mazzolari (cosí nel registro di Battesimo) nasce il 13 gennaio 1890 a Santa Maria del Boschetto, frazione rurale di Cremona da famiglia contadina, povera e di sani principi. Entra in seminario a Cremona al termine delle elementari. Intelligenza brillante e creativa. Fu ordinato sacerdote il 22 agosto 1912. Insieme a Don Annibale Carletti e a Don Guido Astori, entrambi futuri cappellani militari, partecipò a varie manifestazioni interventiste. Non ci si defila in un’ora cosí grave, lasciando i fratelli nell’ora del sacrificio e della guerra: si può fare un po’ di bene anche in mezzo ai nostri militari al fronte. Ci informa sempre Don Guido: «Don Primo non fu mobilitato subito nel maggio del ‘15, perché nella visita militare a 20 anni, non era stato fatto abile. Ma, richiamato alla visita nel settembre dei ‘15, fu fatto abile e mobilitato nell’ottobre». Scriveva, soddisfatto, all’amico Eligio Cacciaguerra di Cesena: «Ho una buona notizia da comunicarti: sarò soldato. Questa volta la Patria non mi rifiuta, e ne sono orgoglioso come di un privilegio. Te l’ho scritto che mi sentivo umiliato, e che avevo rossore della mia giovinezza, guardando il mio far nulla nel sacrificio di tanti. Ora mi ritrovo e sto bene, fiducioso e lieto, anche troppo...».

Venne arruolato nella 4a Compagnia di Sanità ai primi di novembre, destinazione Genova, Ospedale Militare della Garaventa. Cadeva il 24 novembre, sul Sabotino, in un aspro combattimento, l’amato fratello Peppino: il dolore fu immenso. La grave perdita è rievocata spesso nei suoi scritti. Il Rettore del Seminario di Cremona, dietro le insistenze della mamma, chiese ed ottenne il trasferimento di Don Primo all’Ospedale Militare di Cremona, dislocato presso il Seminario. Chiese con insistenza di essere inviato al fronte: ma soltanto nell’agosto del 1918 ottenne la nomina a Cappellano Militare. Fu inviato in Francia con il 19° Nucleo di Truppe Ausiliari Italiane. Si confida con l’amico e collega Don Guido Astori: «Sto bene piú d’animo che corporalmente, mi sento alquanto affaticato e cerco di mettere nella mia fatica il meglio che trovo dentro di me, sotto l’aiuto di Dio. Il quale mi assiste in una maniera consolante e benedice la mia fatica piú che essa non meriti. Ma il bisogno è grande e spesso la mano è troppo vuota, il mio cuore troppo piccolo... Ho una sete d’Italia! Ce n’è una sola ed è il piú bel paese. Tutti ci sentiamo un po’ esuli anche in terra alleata... Credilo: non sono un nazionalista, ho l’animo cristiano che tutto abbraccia, eppure il confronto, l’osservazione mi hanno fatto questa persuasione: noi siamo un gran popolo...» (21.IX.1918).

Il 19 gennaio 1919, sempre dalla Francia (da Ribencourt), in una lunga lettera all’amico fedele Don Guido, parla delle crisi e dei contrasti del dopoguerra, anche sul versante clericale: è contento d’esserne fuori e lontano! «Quantunque la realtà mi opprima talvolta con visioni dolorosissime, Dio mi ha conservato la fede nel bene. Oso dire che l’esperienza dura e spesso amarissima me l’ha ingagliardita a tal segno che il dubitarne per un istante mi sembra un peccato contro la verità. Non so né voglio sapere quello che il prossimo avvenire riserberà di prove, di delusioni, di speranze agli operai del vangelo: so che è un grande privilegio esserne chiamati a far parte e che dovremo essere contenti, se non di lavorare, di soffrire almeno per esso. Con questo animo guardo gli avvenimenti della nostra storia e quando, come ora, tutto sembra oscurarsi nella notte dei nostri egoismi, trovo le ragioni per attendere con fiducia le aurore di un domani migliore».

Tornato in Italia viene assegnato al 19° Btg. di lavoratori a San Donà di Piave. Scrive sempre a Don Guido: «...Ho dovuto cercarmi un lavoro con un ardimento e uno sforzo di tutto me stesso, perché il mio Battaglione, 300 uomini forse, sempre occupati, non me ne dava, o troppo poco. Da un mese respiro. S. Donà è pieno di militari, reparti staccati dei Genio, Artiglieria, Servizi speciali, son qui abbandonati, senza assistenza morale e religiosa, con pericoli accresciuti dalla miseria del luogo, dall’indisciplina e dal danaro (ogni soldato che lavora non ha meno di due lire al giorno!). Ho lasciato per il momento il mio accantonamento per lavorare nel nuovo campo. Tentai subito una breve missione in preparazione alla Pasqua. Dio mi aiutò e benedisse il mio lavoro in una maniera consolante. Da quell’incontro è nata la Casa del Soldato, una bella baracca, la piú bella del paese, ove ogni sera passano non meno di 500 soldati. Gli americani mi danno un valido appoggio, cosí che riesco a contentarli tutti i miei soldati potendo mettere a loro disposizione pianoforte, grammofono, football, bocce, dame, tombola ed una quantità inesauribile di carta da lettera. In questa maniera li posso vedere, avvicinare, parlare ad essi ed esercitare direttamente o indirettamente una certa influenza. La domenica celebro la Messa nella Casa del Soldato e una volta alla settimana una breve conferenza morale».

Il 19 settembre 1919 è nominato Cappellano degli Alpini, Battaglione Sette Comuni, Tolmino. Confida a Don Guido che, una volta congedato, non intende riprendere l’insegnamento in Seminario, come gli chiede Mons. Guarneri. «È questione di dignità e di coscienza. Non voglio mettere alla tortura una ventina di fanciulli... Ho bisogno, tu lo sai, di bene, quello che si tocca con l’anima e con il cuore: ho bisogno di sentirmi Sacerdote». Chiede di essere collocato in congedo per motivi di famiglia. Il 28 novembre 1919 viene avvicinato alla sua città: presso il 135° Rgt. Fanteria, di stanza a Verona. Il 15 febbraio 1920 Don Primo segue il Reggimento in Germania con le truppe di occupazione, in Alta Slesia (a servizio di circa 4.000 militari): Cappellano nel Corpo di spedizione per il Plebiscito. Scopo della missione era controllare “i moti nazionalistici esplosi, dopo il crollo dell’Impero Austroungarico” (P. Mazzolari, Obbedientissimo in Cristo, p. 34).

Da Cosel, il 1° marzo scrive a Don Guido: «Mi sfogo gridando nelle chiese, quando parlo ai soldati, nelle conversazioni con i Sacerdoti e con altri, che dobbiamo amare, che è tempo di ricordare che siamo tutti fratelli...» Anche il clero delle varie etnie risentiva di questo clima di tensioni e di odi. Il Vaticano, per fare opera di pacificazione, inviò un delegato apostolico di altissimo rango, Mons. Achille Ratti, il futuro Pio XI, che ricevette Don Primo il 14 giugno 1920, accettando l’invito a celebrare a Cosel la domenica seguente: un uomo «saggio e buono: mi auguro che riesca a pacificare gli animi e a impedire l’abuso della religione nella lotta politica» (op. cit. p. 270). Non fu possibile celebrare nel parco, come si era organizzato. Si scelse perciò la chiesa parrocchiale. Grande partecipazione di fedeli del luogo e dei militari italiani. Il parroco, anziano, sulla porta della chiesa, «accolse il Nunzio con commosse espressioni di devozione e di saluto» - annota Don Primo nel suo diario, lamentando invece l’assenza ostentata del primo Cappellano del luogo e dell’insegnante di religione nel ginnasio. «In cantoria non si voleva che i miei soldati suonassero con il violino. Io che aborro dal gridare e dall’impancarmi a comandante, ho dovuto gridare e impormi. Non ne potevo piú: fremevo dentro di me... per la degradazione del sacerdozio e della religione... Per la prima volta ebbi il senso esatto del valore e della necessità che la Chiesa abbia un Capo e un’espressione gerarchica superiore alla nazione, allo Stato. Ieri ho compreso e amato la romanità della Chiesa. Credo la Chiesa cattolica, apostolica, romana. La cattolicità ha nella romanità il suo appoggio. Guardando il vecchio vescovo italiano, venuto da Roma a ricordare ai sacerdoti ch’essi hanno un ministero di pace e che non debbono avvilirlo per nessuna ragione, mi sentii preso da una commozione grandissima e un’onda di spontanea, non mai provata, devozione mi portò verso il Pontefice. Avrei gridato anch’io ‘Viva il Papa!’» (Diario, vol. 11, p. 271).

Sente tutta la gravità del suo compito di cappellano in quella situazione. Anche Mons. Ratti fa pressione su Mons. Cerrati, Vicario castrense, sottolineando che «mi sembra un sacerdote buono e zelante»! Il Vicario risponde che è giusto farlo rimpatriare, appena possibile: «Poveretto, non gli posso negare tale favore e appena potrò lo accontenterò». Il 22 luglio 1920, il giorno dopo il congedo, Don Mazzolari scrive «È venuto il Cappellano che mi deve sostituire. Si chiama Argentieri: è della diocesi di Alessandria e viene dal 10° fanteria. Un’altra disgrazia. Il soldato Obino Virgilio, che era qui per andare in licenza, viene colpito accidentalmente da una pallottola di revolver. Dopo cinque ore muore nelle mie braccia. Cosí si chiude la mia vita di Cappellano Militare». (Diario, vol. 11, p. 278).

 

Mons. Vittorio Pignoloni

 

 

 

 

 

Cfr. PIGNOLONI V., Don Primo Mazzolari caporale di sanità e cappellano militare, in Bonus Miles Christi, 9-10 (2008), 3-6.