Militari di tutti i gradi, di tutte le armi. Sacerdoti con le stellette e senza. Tanta, tanta gente. Il Cardinale, Vescovi, Monsignori. Sopra tutti: le bianche divise dei Marinai, dal Capo di Stato Maggiore amm. Torrisi ai marinai in congedo.

Al centro della navata del Duomo di Fiesole, composta nel feretro la salma di un Sacerdote, Marinaio, Vicario Generale Militare: Monsignor Renato Castelli.

Al termine della Messa, viene letta la «Preghiera del marinaio».

«A Te, grande, eterno Iddio, Signore del cielo e dell’abisso, cui obbediscono i venti e le onde, noi uomini di mare e di guerra, Ufficiali e marinai d’Italia da questa sacra nave, armata dalla Patria, leviamo i cuori... fa che per sempre la cingano in difesa petti di ferro, piú forte del ferro che cinge questa nave...».

Queste parole un po’ fuori dell’ordinario, specialmente in un posto dove scarseggia anche l’acqua dalle cannelle, hanno fatto nascere in me qualche riflessione:

«Che senso daranno a quelle parole quei ragazzi in divisa bianca? E gli altri, che del mare sanno solo che è salato, che ci sono i pesci e che d’estate ci si può fare il bagno, arricceranno il naso considerandole ampollose e retoriche? E io come la penso?».

Ecco allora affiorarmi un ricordo di giorni lontani quando a Brindisi stavo aspettando di andare in Albania, dove avrei raggiunto un battaglione di alpini. Lí trovai un mio stretto parente imbarcato su di un Caccia. La sera eravamo sempre insieme.

Mi venne la bella idea di volere visitare il Caccia e fui accontentato.

Stavo per oltrepassare la passerella quando sentii un fischio. Io, che stavo attento a dove mettere i piedi per non schizzare in acqua, non mi raccapezzavo.

«Saluta la bandiera!» mi dice e me la indica sulla testa. Salutai piuttosto goffamente e salii a bordo.

Avevo un paio di scarponi che erano una cannonata! La fitta chiodatura era completata da una fila di quei chiodi, che tutto intorno abbrancavano lo spunterbo [punta della scarpa] e facevano della scarpa l’immagine viva di una bocca famelica pronta ad azzannare.

Vedevo i marinai salire e scendere per le ripide scalette leggeri come una piuma, apparire, sparire senza il minimo rumore.

Io invece stentavo a stare in piedi facendo un fracasso indiavolato, tanto che al ritorno lui mi fa: «È meglio passare da questa pare, lí sotto c’è la cabina del Comandante».

Le mie cognizioni marinaie sono tutte qui e il ferro rammentato nella preghiera per me rimane solo quella cosa sdrucciolevole, piú adatta a sbatterci una sederata che a camminarci sopra.

Ho pensato allora alla nostra preghiera dell’Alpino: «Sulle nude roccie, sui perenni ghiacciai...».

Un marinaio non penserà al ferro della sua nave con lo stesso spirito con cui un alpino pensa alla roccia delle sue montagne? Quando sotto c’è lo strapiombo e tu stai attaccato ad essa con tre appigli sicuri, mentre cerchi il quarto prima di liberare la mano o un piede, senti sotto di te la roccia non fredda, distaccata ma calda, viva... c’è quasi un muto colloquio con essa che sembra porgerti i suoi appigli come una mamma amorevole, anche se severa con chi la tratta con troppa confidenza: «Ecco la fessura! Qui l’incavo, là lo spuntone... no quello è friabile...».

L’alpino gusta la sua preghiera, che per lui diventa poesia che lo eleva a Dio nell’immagine sempre viva delle sue montagne. Di questo ho un’esperienza indimenticabile.

Due anni fa ho partecipato ad un raduno-pellegrinaggio sull’Adamello.

Partiti dal rifugio Mandrone costeggiammo prima il ghiacciaio, poi deviammo in alto verso il passo della valletta. Camminammo sul rovescio della catena che si affaccia sul Pian di Neve e arrivammo al Passo della Dama, un V tagliato sul monte. Facemmo sosta.

«Cappellano, mi disse il capo-comitiva, devi dire due parole».

Davanti a noi, incorniciati dalle due pareti, c’erano la distesa bianca del ghiacciaio, poi di fronte la cresta di Testa Croce con il famoso cannone da 141, piú a sud le Lobbie, il Cavento e tanti altri luoghi, che videro sacrifici enormi, indescrivibili di alpini italiani e austriaci durante la guerra bianca del ‘15-’18.

Che potevo dire? Tirai fuori la preghiera dell’alpino e: «Sulle nude rocce...».

Ci fu tanta commozione! L’invocazione a Dio per la sicurezza materiale nei pericoli della montagna era una cosa reale. Bastava lassú una distrazione anche piccola e il tuo io andava a rifinire in basso ai piedi della parete ridotto ad un mucchietto di ossa rotte. Poi la preghiera per le famiglie lontane, per la Patria. Lassú le parole della preghiera avevano perduto ogni accento di retorica.

Cosí deve accadere per la preghiera del marinaio.

Quando egli naviga tranquillo in un mare liscio come l’olio o nei giorni di tempesta, quando la prua della nave si solleva fuori dalle onde, per tuffarsi poi in esse, egli deve sentire proprio nel ferro della sua nave un senso di sicurezza. Quindi per lui «piú forti del ferro che cinge questa nave» è un termine di paragone, che trova ampio spazio nel suo modo di pensare.

Qualche tempo fa i ladri mi sono penetrati in casa e tra l’altro mi hanno portato via una grande cosa: la tranquillità. Mi rimane problematico ora assentarmi da casa e lasciare sola mia sorella. Cosí quando affiora questo problema mi viene da mormorare: «Guarda un po’, Signore, te ne prego, se quei mascalzoni tentassero ancora di penetrare in casa tua (la chiesa) o in casa mia, fai in modo che quando si arrampicano su per la scala a pioli si rompa uno scalino; anche se non è proprio in cima non importa, basta che, battendo una bella sgropponata, passi loro la voglia di compiere un’azione cattiva».

Credo di non agire contro le regole, se chiedo di non subire un sopruso.

Con parole differenti è quello che chiedono il marinaio, l’alpino... Perché se la nostra costituzione è una cosa seria e ancora valida l’articolo che sancisce: il popolo italiano rifiuta il ricorso alle armi, per dirimere qualunque questione con i vicini, è ovvio che chiedendo l’efficienza delle armi, fanno come me, quando chiedo che si rompa lo scalino. Tutti non vogliamo subire dei soprusi.

E a proposito di soprusi. Il 2 nov. ho assistito ad una Messa per i Caduti, presenti autorità civili e militari. Intorno all’altare erano schierati carabinieri e polizia.

Al termine il Cappellano Militare ha letto una preghiera che ho trovato meravigliosa. Era un’invocazione a Dio perché accogliesse insieme ai vecchi anche i nuovi Caduti, morti nell’adempimento di un dovere compiuto per tutelare il bene dei cittadini e proteggerli dagli innumerevoli soprusi a cui purtroppo siamo abituati. Si chiedeva protezione ed assistenza per coloro che continuano questa opera con grandi sacrifici e pericoli. Si invocava una forza interiore, capace di fare agire in ogni circostanza con fermezza ma senza odio.

Una preghiera intonata ai tempi attuali e che certamente rispecchiava in pieno i sentimenti dei militari schierati intorno all’altare. Tre preghiere, tre situazioni differenti, tre modi diversi di partecipazione spirituale.

Ai miei alpini continuerò a leggere la vecchia preghiera perché, sono certo, capiranno sempre lo spirito che la anima. I marinai leggeranno la propria a cui sono ugualmente affezionati. Quando, parlando con un marinaio, ho accennato alla sua preghiera, piú d’uno me l’ha recitata a memoria.

Se dovessi trovarmi in mezzo a giovani, che hanno vissuto solo le vicende del nostro ultimo tempo, leggerò senza esitare l’ultima preghiera.

Se nelle tre circostanze qualcuno, o dell’una o dell’altra parte, o uno qualunque, che per dovere o per necessità di servizio o per curiosità sia presente, dovrà sorbirsela la preghiera cosí come è recitata, senza alcun mugugno. È lui che deve immedesimarsi nell’ambiente, capirlo e farlo suo, altrimenti... dato che si tratta di chiedere una benedizione... beh!... può anche andare a farsi benedire da qualche altra parte.

 

 

 

 

 

Cfr. CAMBI L., Le preghiere militari, in Bonus Miles Christi, 2 (1980), 63-65.