Il centenario della fondazione delle Suore Minime di Nostra Signora del Suffragio, forse rimasto in ombra tra tanti ed importanti altri, ma non per questo meno significativo, dà modo di riscoprire la figura del Venerabile Francesco Faa’ di Bruno, magnifico esempio di Ufficiale e di Cristiano, non abbastanza conosciuto nell’ambiente militare, fondatore della menzionata Congregazione che annovera tra i suoi fini quello di pregare per le anime dei Caduti.

Nato il 29 marzo 1825 in Alessandria, terra di Piemonte, Francesco Faa’ di Bruno è il tipico prodotto della nobiltà e del mondo culturale e caritativo di quella terra, culla del Risorgimento, che proprio in quel periodo fu generosa madre di Santi sacerdoti quali il Cottolengo, il Don Bosco, il Cafasso, il Murialdo, per non citare che i piú noti.

Uomini eccezionali, che hanno dato un’impronta ad un secolo tormentato per il Piemonte. Un’impronta di fede, non solo nel ministero ecclesiastico, ma anche nell’impegno sociale, facendosi promotori di opere di carità rivolte agli umili, agli oppressi, agli ultimi. Opere sociali, quindi, ma ispirate e guidate dalla fede in Dio.

Il Faa’ di Bruno si diversifica un poco da questa schiera: la sua laicità ne aumenta i caratteri di eccezionalità, ed ancor di piú il suo prevalente impegno a favore della donna. Soprattutto questi due punti fondamentali dell’apostolato e della santità di Francesco Faa’ di Bruno, che lo rendono oggi di un’attualità straordinaria, gli procurarono non pochi contrasti con la società del suo tempo. Infatti non venne compreso il suo carattere di precursore del nuovo spirito cristiano, rappresentato dalla vocazione alla santità attraverso la vita ordinaria.

 Piemonte, tra il 1825 e il 1888, fu teatro di numerose vicende con ripercussioni sull’intero territorio italiano che, in quegli anni carichi di fermenti innovatori, andò organizzandosi come nazione italiana.

L’assetto politico del territorio era quello stabilito dal congresso di Vienna, che aveva riportato lo status quo ante. Vittorio Emanuele I, ricco di qualità morali, virtú cristiane e doti di governo, commise l’errore di voler ristabilire in pieno l’ordinamento anteriore al 1789, non tenendo conto delle mutate condizioni politiche. Si cercava di soffocare i sentimenti liberal-patriottici che si spargevano come lava in tutta Europa, giungendo attraverso i moti del ‘21, del ‘31 e del ‘33 all’eruzione rivoluzionaria del 1848.

 Regno Sabaudo si candidò perciò come alternativa unitaria all’influenza asburgica nella Penisola ed intraprese quindi una politica egemonica. Piemonte, terra profondamente cattolica, con profonde radici cristiane, si trovò allora guidato da uomini politici che presero a combattere Chiesa e S. Sede.

Questo il quadro che vide la nascita, l’infanzia e la vita di Francesco Faa’ di Bruno, un periodo inizialmente ed apparentemente tranquillo, che avrebbe invece incontrato fasi evolutive cariche di tensioni le quali sarebbero poi sfociate nelle tre guerre per l’Indipendenza.

Il padre, Ludovico Faa’ di Bruno (1742-1848), pur avendo trascorso 18 propria gioventú nel periodo repubblicano e napoleonico, si mantenne piuttosto lontano dalle istituzioni francesi, come buona parte della nobiltà acculturata, fortemente legata alla monarchia sabauda. Egli non si lasciò influenzare dalle tendenze democratiche del nuovo corso e, pur aprendosi a qualche idea vagamente illuminista, restò fondamentalmente un uomo dell’ancien régime.

Dal suo matrimonio con Carolina Sappa de’ Milanesi (1789-1834) nacque una numerosa prole. Ricorderemo Camilla, entrata tra le Dame del Sacro Cuore a Torino; Enrica, accolta nel Monastero della Visitazione della stessa città ed ivi morta in fama di santità; Maria Luisa, religiosissima, moglie del conte Costantino Radicati Talia di Passerano, che stabilirà con il Nostro un profondo rapporto religioso; Giuseppe Maria, che abbracciò lo stato sacerdotale ed entrò nella Società delle Missioni fondata dal sacerdote Vincenzo Pallotti; ed infine Emilio, medaglia d’oro, eroe di Lissa, nelle cui acque si inabissò con la Fregata «Re d’Italia».

Quest’ultimo, piú noto alla storia profana, per il suo comportamento libertino fu fonte di notevoli preoccupazioni per il fratello minore. Infatti Francesco Faa’ di Bruno era l’ultimogenito di 12 figli. Appena nato si temette per la sua vita e nei primi anni la sua gracilità fu tale da indurre i suoi genitori a separarsi da lui per affidarlo al nonno paterno nel Castello di Bruno.

Sebbene i rapporti tra padre e figlio siano stati scarsi non è difficile constatare una continuità tra certi atteggiamenti del futuro Venerabile ed i modi di agire e pensare di suo padre. Secondo il marchese Ludovico l’umano ed il divino non si devono opporre tra di loro, infatti «la religione è uno dei mezzi che ha piú contribuito alla civilizzazione degli uomini».

I rapporti di Francesco con la madre furono forse piú profondi di quelli che ebbe con il padre. Dopo la morte dei genitori, egli cosí scrisse al fratello: «Se tra gli uomini Alessandrini il nostro padre fu singolare di mente e virtú, io stimo che la nostra madre il fu in proporzione molto piú fra le donne».

Ella era «bella appo gli uomini ed appo Dio» e Francesco la amava con particolare affetto; la sua religiosità (praticò ardentemente la devozione alle anime del Purgatorio e quella del Sacro Cuore di Gesú) e la sua morte prematura lasciarono certo tracce profonde nell’animo del figlio.

Bruno era un piccolo paese agricolo ed i Faa’ dal Castello arroccato sulle pendici del colle potevano dominare le campagne vicine dove c’erano i loro poderi brulicanti di coloni e mezzadri.

Francesco dimostrava, talora, quel carattere pronto, forte e non molto malleabile che lo caratterizzò per tutta la vita. Franceschino si abbusa un tantino del poco mio vigore - scriveva il nonno - ma vi supplisco in qualche maniera perché ambisco che i miei nipoti rieschino a dovere...».

Nel castello c’era anche la nonna materna che si preoccupava di portare il nipotino a messa e di infondergli pietà e devozione. Non sappiamo come egli rispondesse a questi ammaestramenti, anche se la tradizione biografica ce lo mostra meditativo ed amante della solitudine. Poco dopo la morte della madre, avvenuta il 15 luglio 1834, Francesco, che a quel tempo aveva 9 anni, rientrò stabilmente in casa ad Alessandria per iniziare gli studi sotto la guida del precettore, certo don Garibaldi, che doveva prepararlo ad entrare nel Collegio «San Giorgio» di Novi, dove il marchese Ludovico aveva stabilito che il figlio compisse un corso regolare di studi.

Nel collegio di Novi, diretto dai PP. Somaschi, il fine dello studio era «la gloria di Dio, il bene della società e della Patria, l’onesto e decoroso vantaggio della famiglia». Un elemento che indicava una chiara nota di italianità che andava oltre i confini del Regno Sardo, era l’uso obbligatorio della lingua italiana tra i convittori. I quattro anni passati nel collegio furono di amicizia con i compagni, di amore per lo studio e di perfezionamento spirituale. La sua diligenza fu tale da condurlo ad un brillante risultato finale.

Uscito da questa prima esperienza di vita extrafamiliare, a Francesco si presentava il problema dell’orientamento della vita: il Rosso od il Nero?

Questa era l’alternativa per un giovane nobile della sua epoca. Certo il dilemma dovette essere angoscioso: da un lato la sua religiosità, la sua pietà sincera e già fin d’allora aperta ad un certo slancio apostolico; dall’altro, oltre alla tradizione militare familiare, la dedizione al Sovrano ed al Regno e gli ideali di lealtà, dovere e disciplina. Certo il dubbio stendhaliano non era inteso come ambizione ma come servizio.

Possiamo dire che fin da principio Francesco si preoccupò di sapere dove Dio lo voleva, ed osservando che la sua scelta fu triplice nel tempo - militare prima, docente poi, sacerdote al termine - si potrebbe giungere alla conclusione che fu un uomo incerto? No! Francesco Faa’ di Bruno scelse Dio!

Perché non scelse da principio l’abito talare? Perché non se ne sentiva degno. È ovvio il riferimento a S. Francesco d’Assisi. La vita veniva sentita sia come un valore da conquistare e da spendere per gli altri, sia come un sacrificio da nobilitare quotidianamente con le proprie opere: sentiva la vita come un militare!

Per Francesco Faa’ di Bruno essere buon cristiano significava essere anche buon soldato: il binomio trono-altare, anziché scandalizzarlo, lo impegnava alla santità. Con queste premesse, il 15 ottobre 1840, fece il suo ingresso in Accademia.

Gli attestati ufficiali che possediamo sulla sua permanenza nell’Istituto sono altamente positivi ed i risultati conseguiti mostrano tutto un crescendo.

Al tempo in cui vi entrò Francesco la vita dell’Accademia era regolata dai Provvedimenti di Carlo Alberto, del maggio 1839, che stabilivano un corso severo e difficile di 6 anni per quelli che venivano scelti tra i migliori per le armi dotte (artiglieria, genio, stato maggiore). L’indirizzo dell’Accademia era allora ispirato, innanzitutto, al legittimismo ed al conservatorismo di corte. Cardine fondamentale era l’idea religiosa o, meglio, l’insegnamento religioso e le pratiche di culto. Ciò rispondeva ai sentimenti personali dei Sovrani: si voleva una larga espiazione dell’empietà rappresentata dalla Rivoluzione Francese e dalle idee che ne erano sorte.

Le reazioni personali di Francesco, all’ambiente dell’Accademia, si possono individuare in alcuni elementi, attorno a cui ruotano maggiormente i suoi interessi: la serietà degli studi, l’affetto per la famiglia, la cura della vita di pietà e la devozione al Re, Capo Supremo dell’Esercito ed erede di secolari glorie militari. Dopo il secondo anno fu scelto per le armi «dotte» per essere poi avviato al Corpo di Stato Maggiore; il 9 agosto 1846 venne nominato Luogotenente del Corpo di Stato Maggiore Generale.

Il giovane Luogotenente aveva acquistata un’ottima preparazione tecnica e coltivato sia l’ideale del binomio trono-altare sia gli affetti per i familiari, le scienze, la musica. Tutto ciò attendeva di essere messo alla prova dalla guerra ormai imminente. Pochi mesi prima era stato eletto Papa, col nome di Pio IX, il Cardinale Giovanni Maria Mastai Ferretti.

Sotto l’impulso delle sue riforme, si manifestò in Italia un grande movimento di idee nuove e concreti programmi per la realizzazione dell’unità nazionale.

È da notare che Francesco, per quanto militare, non era digiuno di politica: dopo l’Accademia aveva passato due anni a Torino in mezzo ad effervescenti idee di indipendenza e di unità. Una famiglia come la sua, introdotta nell’esercito, nella magistratura ed a corte, si trovava nel mezzo di un centro di informazioni e valutazioni ad alto livello. Anche da Ufficiale di Stato Maggiore, nell’espletare delicati ed importanti compiti, egli si mantenne cattolico a viso aperto e le pratiche di pietà ebbero il loro posto d’onore tra i doveri per l’esercito e l’approfondimento dei suoi studi militari e matematici, tanto che spesso depose la spada e serví la messa a Don Bosco nella cappella di San Francesco di Sales a Valdocco. Quando partí per la guerra del ‘48, Francesco era pieno d’entusiasmo per la grandezza del Paese e forte di una profonda fede cristiana. Scriveva alla sorella Maria Luigia il 27 marzo 1848: «Spero che faremo gran belle cose... Quel che piú mi cale è che tu preghi per me ferventemente ed ancor piú per la nostra causa».

Ma l’entusiasmo patriottico non offuscò il suo spirito critico. Come si sa la campagna del ‘48 fu caratterizzata, a livello di operazioni militari, da vari momenti di inattività ed incertezza da parte piemontese, fatti che contribuirono notevolmente alla sconfitta finale. In un primo tempo il tenente Faa’ di Bruno ne addebita la responsabilità non ai Comandanti militari ma ai politici, guardando ad essi come persone quasi estranee ai fatti, incompetenti a giudicare le guerre. Le sue critiche allo svolgimento delle operazioni sono le stesse che gli storici avanzeranno un secolo dopo: indecisione del Comando ed inattività ingiustificata dell’esercito. Arrivò anche a rilevare l’insufficienza dei vettovagliamenti.

Quando cadde Peschiera esultò: «Gran giornata quella di ieri. Si prese Peschiera...». Ma osservò subito dopo che non si sfruttava l’occasione favorevole: «Ma il peccato, è che non si trae profitto dalla vittoria». In una lettera al cugino Ludovico Trotti che aveva combattuto sulle barricate durante le Cinque Giornate di Milano aveva esclamato: «Non perdiamo questo momento, che mai piú verrà». Gli italiani persero quel momento, la magia del ‘48 si dileguò e le speranze naufragarono nello scoramento delle sconfitte militari. Dieci giorni prima della «Fatal Novara» Francesco venne promosso capitano ed entrò a far parte della Divisione di Riserva comandata dal duca Vittorio Emanuele di cui divenne aiutante di campo. Dopo Novara, il clima politico e spirituale si deteriorò. Anche se il processo di unificazione territoriale procedeva, le relazioni fra il nascente Stato Unitario e la Chiesa Cattolica andavano deteriorandosi. Malintesi, intolleranza e profonde fratture incrinavano le coscienze. Anche Francesco cominciò a sentirsi a disagio e perciò provvidenziale gli giunse la proposta del nuovo Re Vittorio Emanuele II, che aveva avuto modo di apprezzare la sua cultura scientifica, il suo realismo e buon senso nelle operazioni militari, durante le quali lo aveva avuto come aiutante di campo, di divenire precettore di scienze matematiche per i figli Umberto ed Amedeo.

Francesco, a parte il senso di delusione, e di percezione sempre maggiore, della vanità del mondo che la perdita della guerra gli aveva causato, pensò che questo nuovo incarico potesse dare uno scopo alla sua vita e gli fornisse anche il mezzo di «rendersi utile al Paese, scopo che sarà sempre della mia vita». Accettò con soddisfazione e chiese di poter andare a perfezionare la sua preparazione scientifica in Francia. Il Re accolse benevolmente la sua domanda e lo fece dispensare, a tale scopo, dal servizio presso il Corpo. Nella formazione di Francesco Faa’ di Bruno l’esperienza francese costituí un momento fondamentale. Gli anni trascorsi a Parigi conferirono alla sua esistenza delle note che segneranno tutta la sua vita. La religiosità raggiunse una pienezza tale da investire tutta la sua attività; il suo pensiero assunse una struttura che, pur lasciando spazio ad evoluzioni posteriori, resterà come ossatura. Nella capitale francese cominciò a frequentare la parrocchia di San Sulpizio che si distingueva tra le altre di Parigi per il livello culturale dei sacerdoti e per le fiorenti iniziative pastorali. Proprio questo colpí la sua attenzione: la presenza di laici impegnati nelle istituzioni cattoliche della parrocchia. Nell’ambiente parigino, Faa’ di Bruno conobbe attività e movimenti laicali tra i piú svariati. Nelle sue lettere di quel periodo si dichiara meravigliato di fronte a tante frenetiche attività tanto che il Piemonte gli appare ora fermo ed opaco. Anche il maggiore influsso culturale gli venne da alcuni laici cattolici francesi come il barone Agostino Cauchy, suo maestro alla Sorbona.

Anche l’abate Moigno, pur essendo sacerdote, esercitò sul Faa’ di Bruno un notevole influsso di tipo laicale, sempre però cristiano, nei rapporti tra fede e socialità, fede e politica, fede e scienza. In questa ottica i soggiorni parigini costituiscono un vero e proprio periodo di «conversione».

È inutile ora stare ad indagare se le sue dimissioni dall’esercito furono motivate dalla perdita dell’incarico promessogli al ritorno in Patria, dalle grosse perdite di denaro causategli da un contenzioso con il Ministero della Guerra, che non gli corrispose il compenso dovuto per la stampa delle sue carte topografiche del Mincio e di Peschiera, oppure da un particolare episodio come quello del rifiuto di battersi in duello non concedendo che altri si battesse in sua vece «per ragioni di coscienza». Certo è che si buttò anima e corpo agli studi, sorretto dalla speranza di affermarsi, diventare qualcuno nella scienza, essere utile alla Patria, fare del bene al prossimo. Sono concetti ricorrenti nelle lettere al fratello Alessandro, che evidenziano come il promesso incarico di precettore reale sia stato l’occasione per la scoperta di una spiccata attitudine alla ricerca scientifica che, però, mal si abbinava alla vita militare che gli impediva di dedicarsi con assiduità agli studi.

Tuttavia, nella convinzione di ottenere quelli, proseguí nel servizio, convinto di poter combinare scienza e carriera. Le sue previsioni si rivelarono, purtroppo, errate. L’inganno ed i soprusi che allignavano a corte, per Francesco, che non fu disposto a piegarsi al nuovo verbo liberal-democratico e tanto meno a cedere in fatto di principi religiosi, essendo oltretutto privo di quella malleabilità necessaria per mantenere un posto a corte, significarono la perdita del precettorato dei principi reali. Senza il favore del Re, fu costretto a riprendere il servizio attivo, con grande rincrescimento, perché gli spostamenti continui ed il rispetto di precisi orari lo costringevano a tralasciare studio e scienza, sentiti ormai come profonda vocazione. La delusone lo colpí profondamente e certo gli fece riconsiderare sotto un’altra ottica le precedenti aspirazioni. In questo ripensamento l’esperienza francese ebbe una parte fondamentale. Gli ambienti del cattolicesimo sociale, l’incontro con uomini eccezionali, quali il barone Cauchy, l’abate Moigno e padre Ponlevoy, il contatto con le grandi devozioni popolari, che 16 erano favorite dal Governo, gli imponevano un confronto tra Francia e Piemonte, tra la politica favorevole alla religione, di Napoleone III, e l’indirizzo opposto dei liberali piemontesi; tra l’opera n campo so­ciale dei cattolici francesi e le esigenze che in questo campo ravvisava in Torino. Egli, quindi, se da un Iato si sentiva emarginato e vedeva frustrate le sue legittime aspirazioni, dall’altro si sentiva chiamato a qualcosa di ancor piú grande. Il Re accettò le sue dimissioni il 25 marzo 1853, conservandogli il grado di capitano di Stato Maggiore e dandogli la facoltà di vestire la divisa.

Tornò a Parigi, dove iniziò tra i poveri della «banlieu» parigina la realizzazione di un suo semplice proposito, che sarà la base degli sviluppi successivi della sua vocazione: «Dédier tout l’argent qu’on peut à Dieux, aux pauvres et aux sciences». brillante dottorato in scienze, conseguito alla Sorbona, discutendo due tesi di fronte ai piú famosi scienziati dell’epoca, mentre dava una concreta risposta alla disistima dei cortigiani, gli apriva la carriera universitaria in Piemonte. Nei primi mesi del 1857, tornato definitivamente in Patria, con il fervore di chi ha intravisto la vera vocazione dopo un periodo di dubbi ed incertezze, il Faa’ di Bruno intraprese l’insegnamento di alta analisi e di astronomia fisica all’Università di Torino. Nello stesso tempo, ad imitazione di quanto aveva ammirato a Parigi, mise in atto una serie di attività caritative, religiose e sociali in favore delle categorie piú disagiate: «l’Oratorio femminile festivo» con scuola di canto, «i fornelli economici» per i lavoratori indigenti, «l’Opera per la santificazione delle feste», la «Pia opera di Santa Zita». In tal modo vedeva realizzato il suo proposito: professore di Università, benefattore del popolo, apostolo laico. Ma la sua carriera universitaria non fu felice. Soltanto nel 1860 gli venne riconosciuto per il Regno Sardo il titolo di dottore in Matematiche, conseguito a Parigi; ma quando richiese al Ministro della Pubblica Istruzione di essere nominato Professore a titolo pieno, cominciarono i rinvii e le lungaggini burocratiche.

Egli si era preparato in una Università straniera e ciò provocava il risentimento dei professori torinesi. Egli era un fervente cattolico e ciò provocava la diffidenza degli ambienti anticlericali massonici. Anche il generale Luigi Federico Menabrea si interessò in suo favore, ma la sua nomina a ordinario non venne mai. Il positivismo allora dominante negli ambienti universitari trovava inconciliabile scienza e fede. Ma lo scienziato, cosí mortificato dai legali rappresentanti del suo Paese, riscuoteva tanto prestigio da poter aprire cattedra privatamente ed essere richiesto in case principesche ed in scuole come l’Accademia Militare. Non solo l’ambiente universitario, però, gli era ostile: Francesco Faa’ di Bruno visse all’epoca del I Concilio Vaticano e non del II.

Inoltre non bisogna dimenticare che il periodo di cui parliamo coincide con il momento di maggior tensione tra il nascente Stato Italiano e la Chiesa. Francesco Faa’ di Bruno era fervente cattolico, ma laico, docente in una pubblica Università e per di piú legato da vincoli morali alla Casa Sabauda. Non solo visse da laico la sua vocazione apostolica, ma si fece aiutare da laici. La sua piú fedele e stretta collaboratrice, la signorina Giovanna Gonella, si fece religiosa solo dopo la sua morte. La dedizione particolare e quasi esclusiva del suo apostolato per la promozione della donna gli procurò non poche reazioni scandalizzate da parte degli amici e degli ambienti cattolici torinesi. Egli vide con un secolo di anticipo quali erano i problemi da risolvere per liberare la donna dalle schiavitú secolari basate sullo sfruttamento e sulla corruzione.

La sua visione fu genuinamente cristiana: la donna è figlia di Dio, tuttavia è indifesa, esposta ai soprusi, deve essere aiutata economicamente, spiritualmente e socialmente. È cosí che inizia l’Opera di Santa Zita. Zita era una domestica vissuta nel 1300, per 40 anni a servizio di padroni non certo benevoli, che salí agli onori degli altari. A Torino, intorno al 1850, su una popolazione di 180.000 abitanti vi erano ben 10.000 ragazze di servizio, che provenivano da tutto il Piemonte e che, nella maggior parte dei casi, naufragavano nella fede, nella morale e finivano per diventare delle prostitute. Venerabile offrí un posto per le disoccupate, le anziane, le inabili onde recuperarle dalla via della perdizione. Creò un pensionato per donne anziane, una infermeria per donne convalescenti, fondò una casa di preservazione per riabilitare le ragazze-madri. Certo la sua era una visione oltremodo scomoda e che gli procurò non poche maldicenze: lui, uomo e laico, al centro di quella «cittadella delle donne» che si era venuta a creare! Solo la sicurezza della propria coscienza gli consentí di continuare. La seconda svolta nella vita del Venerabile Francesco Faa’ di Bruno fu l’ordinazione sacerdotale, n età già avanzata: aveva 51 anni. Anche la sua ordinazione sacerdotale fu sofferta. La dolorosa vicenda dell’attrito con l’Arcivescovo Gastaldi, da cui dipendeva l’ordinazione, mette in evidenza la profonda fede e l’indiscusso attaccamento alla Chiesa del Venerabile che, anche di fronte all’evidente ed ingiustificata impuntatura, desidera restare in comunione con il suo Vescovo ed a lui sottomesso. Egli avrebbe voluto celebrare la sua prima messa in concomitanza con l’inaugurazione della «sua chiesa»: la Chiesa di Nostra Signora del Suffragio, ma, sempre per obbedienza, dovette rinunciarvi. Francesco voleva un Santuario dedicato alla Madonna del Suffragio, a memoria delle anime del Purgatorio, troppo spesso dimenticate.

Cosí scriveva ad ex colleghi giunti ad alte cariche militari: «Mi farò animo pertanto a parteciparvi che, commosso dell’abbandono in cui giacciono tanti poveri defunti, soprattutto tante vittime mietute dalle guerre, divisai sin dal 1863 di aprir loro un Santuario di preghiere e di espiazione». A questo proposito si collega l’idea di fondare una Congregazione religiosa femminile, che esprime l’aspetto dominante della spiritualità del Faa’ di Bruno: il superamento della morte attraverso la meditazione e la preghiera in suffragio delle anime, soprattutto dei caduti. È cosí che il 16 luglio 1881 ebbe luogo la prima vestizione delle Suore Minime di Nostra Signora del Suffragio. Diede come motto programmatico: «pregare, agire, soffrire», che egli stesso si era proposto quale programma di vita evangelica. La fondazione delle Suore Minime di Nostra Signora del Suffragio è certo l’opera piú importante tra le sue iniziative, non solo sotto l’aspetto religioso ma anche sociale, in quanto, attraverso di questa, continuarono nel tempo, sebbene modificate, le opere da lui iniziate nel settore assistenziale ed educativo. Con l’avanzare degli anni il Faa’ di Bruno andò sempre piú concentrandosi nelle sue opere ed estraniandosi dal mondo esteriore a cui non si rifiutava solo quando c’era da fare del bene. È cosí che il 27 marzo 1888 dopo solo cinque giorni di malattia il Venerabile Francesco Faa’ di Bruno cessò di vivere su questa terra. A continuare la sua opera, vere eredi dello spirito del Venerabile fondatore, restano le Minime che, con la loro azione nel mondo mantengono il fuoco sacro della devozione verso le anime purganti.

Merita di essere riprodotta per intero la lettera che il tenente Francesco Faa’ di Bruno invia alla pia sorella Maria Luigia il 18 aprile 1848: è una sintesi della visione cristiana della vita militare.

«Vengo da fare la mia Comunione pasquale nella Parrocchia di questo paese (Cavriana). Quanto sarei fortunato se Dio potesse restar sempre con me fino a quell’istante in cui Egli, nelle presenti circostanze, avesse destinato di chiamarmi a sé. Ma ciò non può dipendere che da una buona volontà la quale ci faccia evitare ogni occasione di male e cercare anzi quelle di bene. Tu ben vedi che a questo fine é necessaria la grazia divina, e per conseguenza la preghiera intesa ad ottenerla. Ora in mezzo a tutti Ufficiali, in mezzo alla libertà del parlare, dell’agire, tra gli affari, gli allarmi, i tamburi, le palle, e molto piú la pochezza del cuor mio, la preghiera è languida se non morente. Ti raccomando adunque caldamente di pregare per me, ed offrire аlсunо dei tuoi sacrifici, delle tue mortificazioni, a mio favore. Son certo che il tuo buon cuore, che l’attenzione che mi hai sempre dimostrata grandissima, ti avrà già suggerito a versare un tantino delle tue ricchezze spirituali a pro di tuo fratello lontano, povero di quelle. Non dimenticare eziandio, di pensare dinnanzi a Dio a tanti Ufficiali, a tanti soldati che temo, in un momento cosí fatale, non mirino a purgarsi, ed a confortarsi sempre per quella negligenza delle cose divine, della quale, vestitisi in pace, non ponno spogliarsi piú nemmeno in guerra. Raccomanda sí pietoso ufficio anche alle persone divote di tua conoscenza, poiché ti assicuro che anche n questo tu arrechi un bene, che non si può maggiore alla patria, essendo i militi in grazia quelli che sono piú valorosi in guerra. Di ciò ti é palese la ragione. Il tristo vede dinnanzi a sé due morti: la materiale e la spirituale, il rimorso della coscienza gli agita l’anima e gli toglie quella pacatezza, quel sangue freddo cotanto necessari ad aversi in mezzo al tempestar delle palle...».

 

 

«CONSIGLI DELL’AMICO DEL SOLDATO CRISTIANO»

Pubblicato a Torino nel 1870, questo manuale è ancora oggi valido strumento per chi, vivendo la realtà della vita militare, voglia rafforzare la propria fede. Forse andrebbe riscritto, lo stile è quello di un secolo fa, ma non dovrebbe certo essere rivisto: i consigli di allora sono quanto mai attuali. È vero, i tempi sono cambiati nelle caserme, ma non sembra sia mutato l’atteggiamento apparentemente di sufficienza verso la pratica religiosa, il rispetto della morale cristiana, il conforto che può venire dall’affidarsi a Dio.

È segno forse di debolezza credere n Dio? È bigotto chi santifica le feste, partecipando alla Santa Messa? È codardo chi prega e affida la propria anima al Signore? È timidezza non frequentare compagnie travianti nella purezza? È mancanza di autorità non bestemmiare? È asociale chi non si ubriaca o droga con gli amici ed i camerati? È uno stupido chi rifugge dall’ozio cercando l’impegno e l’attività? Qualcuno vorrebbe far credere di sí. Invece, fortunatamente, ancora si leva alto il grido di chi vuole abbattere questi pregiudizi. Il Venerabile Faa’ di Bruno ci indica il mezzo per distinguere il «militare daddovero» dal «militare in apparenza»: la fede. Infatti «mal si affida la spada a chi non è prode di cuore né insieme prudente e saggio di mente: or di questa prodezza, di questo senno unica vera immancabile dispensatrice è la religione». Ed ancora: «la preghiera fortifica il coraggio, avvalora la fede, addolcisce le nostre pene». Un pregiudizio purtroppo diffuso vuole inconciliabili la fede e lo spirito militare. È un pregiudizio che viene vissuto in due ottiche opposte: c’è la propaganda della fede come giustificazione. all’obiezione di coscienza ed al sottrarsi ai sacri doveri di difesa della Patria e di tutela del debole ingiustamente aggredito e c’è l’opinione che vuole pavido e debole chi si professa timorato di Dio.

Sono entrambe visioni distorte: un vero cristiano sarà anche un buon soldato e cosí un vero soldato sarà anche un buon cristiano. Nel mondo, non solo di oggi (tant’è che queste considerazioni scaturiscono da un libro pubblicato oltre un secolo fa), v’è una miriade di falsi profeti che diffondono falsi ideali e l’unica vera arma che potrà sconfiggerli è la fede. Solo nella fede, infatti, l’uomo potrà trovare la forza per combattere i nemici peggiori come ce li indica il Faa’ di Bruno: «impurità, ubriachezza, bestemmia, rispetto umano ossia timore dell’altrui biasimo o beffa ed ozio». La crisi di valori, che si riflette nella vita militare come crisi esistenziale, può essere superata indicando al giovane alle armi la via che porta al Cristo e sorreggendolo nell’arduo cammino.

 

 

 

 

 

Cfr. VARESIO G., Francesco Faà di Bruno soldato del re e soldato di Cristo in “Rivista militare”, 1 (1985), 8-15.