In diversi contesti la lettura dei Lineamenta sinodali ha provocato reazioni piú o meno accese assieme ad entusiasmo e sconcerto. Entusiasmo per un Sinodo che secondo alcuni sembra “prendere il largo” verso nuovi ed “esotici lidi”, sconcerto invece per una Chiesa che appare sempre piú confusa sulla sua identità e missione. Nei Lineamenta stessi, si notano posizioni insolite rispetto alla dottrina cattolica e mai notate prima in un simile documento. In essi, per esempio, lungi dal denunciare mali gravissimi come l’aborto, l’eutanasia e gli attacchi ai diritti genitoriali - questioni omesse dalla relazione finale sul Sinodo - si fa poco o nulla per contrastare l’ideologia dissennata, distruttiva e disumana del gender.

Ciò premesso, non si può tacere sul fatto che nella Relatio si notano diverse proposizioni che non possono essere condivise. In essa si leggono asserzioni come:

«Nell’approfondire la terza parte della Relatio Synodi, è importante lasciarsi guidare dalla svolta pastorale che il Sinodo Straordinario ha iniziato a delineare, radicandosi nel Vaticano II e nel magistero di Papa Francesco»,

oppure:

«È necessario far di tutto perché non si ricominci da zero, ma si assuma il cammino già fatto nel Sinodo Straordinario come punto di partenza».

Con tali proposizioni pare che si intenda attribuire ad un semplice Sinodo, ancora neppur concluso, un valore di “punto di partenza” a dir poco spropositato. A quale svolta pastorale poi si vuole alludere? A meno che per “svolta pastorale” non si intenda la congerie di parole e di interventi via via piú arrischiati da cui siamo stati sommersi. Le fonti di partenza magisteriali poi, come ampiamente noto, sono ben altre che quelle di un Sinodo. Il Magistero della Chiesa infatti non si radica sic et simpliciter nel Vaticano II o nel magistero dell’ultimo Pontefice ma nell’integrale e piú che bimillenario depositum fidei. Si tratta di premesse inammissibili in una seria metodologia teologica che non possono non essere criticate con decisione.

A molte delle domande poste potrebbero rispondere piú opportunamente e chiaramente le diocesi, le facoltà teologiche e gli esperti negli specifici settori d’interesse. Forse le domande dovevano essere formulate/diversificate in modo tale da tenere presente il livello strutturale/gerarchico degli interpellati, dando cosí a ciascuno la possibilità di rispondere nel modo piú corretto e compiuto.

In alcuni punti si chiede conto della sensibilità al “cambiamento antropologico culturale” e al “pluralismo culturale” dei nostri tempi. Si tratta di problematiche sufficientemente note e avvertite, tuttavia, in un mondo in perenne mutamento il punto di forza della comunità ecclesiale non può essere la pretesa velleitaria di inseguire tutti i suddetti mutamenti, che pur bisogna annoverare, ma nell’offrire un’alternativa che è quella dei valori perenni del Vangelo: dum volvitur orbis Crux stat. In una “società liquida” la “Chiesa-roccia” diviene inevitabilmente un punto di riferimento nel mondo. Essa non sarà mai al passo con il mondo, neppure se si illuderà di poter giocare sul suo stesso terreno, dove si sperimenterà sempre perdente. Il passo e il cammino della Chiesa dunque non possono essere altri che quelli di Cristo (cfr. Gv 16,33), con un volto quindi - e un’identità - che caratterizzano e ispirano: un passo deciso, un cammino sicuro, un’identità chiara e forte.

La risposta a tante delle domande poste nei Lineamenta è già contenuta nei ricchissimi documenti conciliari e magisteriali degli ultimi decenni. Non si comprende l’urgenza di ulteriori documenti/strategie, specie in assenza di un debito approfondimento di quelli ricchissimi, già visti. Discussioni continue e riflessioni ridondanti come quelle proposte al Sinodo rischiano di essere fuorvianti. C’è un patrimonio immenso da assimilare e da valorizzare e si è ancora lungi dall’averlo fatto, a cominciare dai documenti conciliari che sotto molti aspetti sono ancora lettera morta.

Nei Lineamenta si tratta giustamente della dimensione affettiva, ma l’esperienza pastorale insegna che in molte persone non c’è neppure l’idea chiara di cosa sia l’amore, troppo spesso confuso con il sentimento/sentimentalismo. Di ciò anche la catechesi e la predicazione devono tenere conto, soprattutto oggi, dato l’impatto devastante dei mass-media in tale campo. Anche da ciò deriva il fatto che molti aspetti della morale sessuale proposti dalla Chiesa - in particolar modo (ma non solo) le dichiarazioni magisteriali relative ai metodi anticoncezionali e alla sessualità extraconiugale - non vengano capiti o condivisi da molti. La formazione del clero, in tal senso, non pare sempre adeguata e i seminari lasciano non poche volte a desiderare. La formazione del clero necessita in primis di un ambiente umano sano e naturale, ben diverso da quello talora artificioso dei seminari. Questo, al fine di favorire quanto piú è possibile una grande maturità ed equilibrio umani, base indispensabile per quella cristiana. In tal senso la selezione dei candidati deve essere certo attentissima, ma senza dare un peso eccessivo alle valutazioni psicologiche. Se i seminari non riusciranno ad offrire un sereno “ambiente di famiglia” dove un giovane possa maturare in età, sapienza e grazia (Lc 2,52), i risultati finali non saranno certo all’altezza delle esigenze della formazione sacerdotale odierna.

I padri sinodali chiedono com’è utilizzato l’insegnamento della Sacra Scrittura nell’azione pastorale verso le famiglie. Si direbbe nella misura consentita dalle proposte liturgiche, indubbiamente molto piú ampie rispetto al passato, ma non di rado impoverite da una selezione talvolta discutibile dei testi, lezionari liturgici in primis. La “Bibbia liturgica” appare troppo spesso vittima di cesure indecifrabili che non paiono rispettose della Parola di Dio ed esautorano il ruolo dell’omileta, in cui forse non si ha molta fiducia, in parte a ragione, in parte a torto. Occorre aprire una breve, dolorosa parentesi. La sola vista delle scelte “artistiche” e linguistiche dei nuovi lezionari liturgici italiani (ma il Messale non è in condizioni migliori) è avvilente ed offensiva per la nostra plurimillenaria tradizione culturale ed è sintomo di quello svilimento liturgico e dottrinale che affligge clero e fedeli e mortifica i vari aspetti della vita ecclesiale. Occorre dire che la riforma liturgica appare tutt’altro che compiuta e necessita di un’attenzione ben maggiore di quella finora assegnatagli.

Molti degli attuali problemi pastorali originano e confluiscono in questo aspetto importante, essenziale, della vita ecclesiale. La pastorale e il munus docendi et sanctificandi vedono nell’azione liturgica un vertice innegabile che non può piú essere ulteriormente ignorato e che è urgente affrontare nel rispetto del Magistero e della Tradizione ecclesiale. Se nella liturgia non confluisce l’apice del nostro patrimonio umano e spirituale non possiamo meravigliarci dei risultati deteriori fin qui osservati. Lex orandi lex credendi... e viceversa. È urgente porre rimedio a tutto questo, evitando accuratamente le penose improvvisazioni e la “libera sperimentazione” che ha caratterizzato gli anni post-conciliari. È essenziale che clero e fedeli comprendano che la liturgia è un elemento fondamentale nella vita della Chiesa e che essa esige il massimo rispetto, considerato anche il suo rilevante e insostituibile contenuto mistagogico.

Forse sarebbe opportuna - in particolare - una riforma organica, attenta e prudente del Rito del Matrimonio che includa un cammino formativo semplice ed incisivo, propedeutico al sacramento e finalizzato ad apprendere in modo vivo i valori del Vangelo e della famiglia (significativo il modello del Rito dell’iniziazione cristiana degli adulti). Il fidanzamento, per esempio, potrebbe rientrare in un cammino formativo, come pure altre tappe. Sarebbe interessante valutare se in altre culture e tradizioni liturgiche non vi sia già qualcosa di simile e proporlo, con i dovuti adattamenti, anche nel rito romano. Occorrerebbe marcare piú profondamente il legame fra Cristo e la Chiesa, la verginità e il matrimonio, offrendo una visione piú spirituale e mistica di questo sacramento, oggi troppo banalizzato e mondanizzato.

I padri sinodali chiedono in che modo si potrebbe aiutare a capire che la relazione con Dio permette di vincere le fragilità che sono inscritte anche nelle relazioni coniugali, oppure come testimoniare che la benedizione di Dio accompagna ogni vero matrimonio, etc... Pare essenziale ridare impulso alla celebrazione del sacramento della Penitenza sottolineando maggiormente il nesso fra i vari sacramenti, troppo spesso visti e vissuti separatamente l’uno dall’altro. Si noti poi che nella liturgia attuale l’elemento famiglia, in quanto tale, è pressoché inesistente. Nella celebrazione eucaristica e nei sacramenti in genere il ruolo principale viene affidato agli individui (celebranti e partecipanti), le famiglie in quanto tali sono assenti e non hanno alcun rilievo, se non nel senso di una compresenza di individui piú o meno casuale. Costituisce un’eccezione a questo fatto il solo Rito del Battesimo. Torna dunque il tema della riforma liturgica che dovrebbe prevedere uno spazio piú ampio per la famiglia in quanto tale, spazio in cui possano essere recuperate (non legittimate) le famiglie ferite e fragili; incluse altre forme di unione (ma non certo omosessuale) in cui si possano riscontrare valori umani autentici.

Non si vede per quale motivo nella terza parte dei Lineamenta sia stata inserita l’attenzione pastorale verso le persone con orientamento omosessuale. Problematica che è anzitutto personale e solo in seconda battuta familiare. Si tratta forse di un tentativo di suggerire e/o imporre artificiosamente la problematica delle cosiddette “famiglie omosessuali”? Questo tentativo non può essere accettato. La problematica omosessuale è agli antipodi di quella familiare e pare del tutto incongruo il suo inserimento nel Sinodo per la famiglia. Ciò che invece pare sia mancato del tutto, nel Sinodo, è il coraggio di denunciare quell’economia che distrugge la famiglia e il civile consorzio; il coraggio di condannare in modo inequivocabile il liberismo economico, con la stessa decisione dimostrata da pontefici come Papa Pio XI, che promulgando l’enciclica Quadragesimo anno (15 maggio 1931), fu profeta inascoltato:

«...ciò che ferisce gli occhi è che ai nostri tempi non vi è solo concentrazione della ricchezza, ma l’accumularsi altresí di una potenza enorme, di una dispotica padronanza dell’economia in mano di pochi, e questi sovente neppure proprietari, ma solo depositari e amministratori del capitale, di cui essi però dispongono a loro grado e piacimento. Questo potere diviene piú che mai dispotico in quelli che, tenendo in pugno il denaro, la fanno da padroni; onde sono in qualche modo i distributori del sangue stesso, di cui vive l’organismo economico, e hanno in mano, per cosí dire, l’anima dell’economia, sicché nessuno, contro la loro volontà, potrebbe nemmeno respirare» (cfr. PIO XI, Quadragesimo anno, nn. 105-106).

E ancora, Papa Pio XII, sulla immoralità economica e fiscale:

«Astenetevi da quelle misure [fiscali], che, malgrado la loro abilità tecnica, urtano e offendono nel popolo il senso del giusto e dell’ingiusto, sottovalutano la sua forza vitale, la sua legittima ambizione di raccogliere il frutto del proprio lavoro, la sollecitudine per la sicurezza familiare: tutte considerazioni che meritano di occupare nella mente del legislatore il primo posto e non l’ultimo. Il sistema finanziario dello stato deve mirare a riorganizzare la situazione economica, cosí da assicurare al popolo le condizioni materiali della vita, indispensabili per conseguire il fine supremo assegnato dal Creatore: lo sviluppo della sua vita intellettuale, spirituale e religiosa» (cfr. PIO XII, Discorso ai partecipanti al Congresso dell’Istituto internazionale delle finanze pubbliche, 2 ottobre 1948).

Sono questi abusi, commessi dagli Stati che oggi minano la stabilità delle famiglie. Dispiace che oggi la voce della Chiesa, in questa materia, non si levi con la medesima chiarezza:

«Il pubblico potere perciò non può mai far sí che l’imposta divenga un comodo mezzo per colmare il deficit provocato da un’amministrazione improvvida, per favorire un’industria od una branca del commercio a discapito di un’altra altrettanto utile. Lo Stato dovrà evitare ogni spreco del denaro pubblico, dovrà prevenire gli abusi e le ingiustizie da parte dei propri funzionari come pure l’evasione di coloro che sono legittimamente tassati» (cfr. PIO XII, Allocuzione al Congresso dell’Associazione fiscale internazionale sula natura e i limiti delle tasse, 2 ottobre 1956).

I padri sinodali chiedono come proporre la famiglia come luogo per molti aspetti unico per realizzare la gioia degli esseri umani. La Chiesa non può farsi carico di tutto, se non cercare di evangelizzare le strutture umane al fine di renderle a loro volta propositive. Essa non può certo illudersi di poter contare sul mondo per fare questa, come tante altre opere; ciò che può fare però, con decisiva efficacia è cambiare se stessa, nel senso di una rinnovata e piú profonda conversione a Cristo.

Pare giunto il momento poi di por fine ad una Chiesa che si autocelebra, che parla continuamente di se stessa, come spesso è accaduto in questi ultimi decenni. La Chiesa testimonia nella misura in cui parla al mondo del mistero di Cristo e offre Dio all’uomo. Una Chiesa aggravata dal peso sempre piú esagerato delle strutture umane, soprattutto nelle diocesi e nelle conferenze episcopali, alla lunga suscita stanchezza e finanche ostilità. Forse è giunto il momento di riconoscerlo e di moderare la pletora di attività umane, convegni, riunioni, associazioni, uffici, segretariati, etc... che, vista l’odierna situazione, non pare abbiano prodotto grandi risultati. In passato si accusava il centralismo della Curia Romana (che tuttavia offriva e offre garanzie procedurali e valoriali di non poco conto), ma oggi si è arrivati a diocesi che ne emulano “in sedicesimo” i limiti peggiori, senza offrire affatto alcuna garanzia di alcun tipo. La Curia Romana è necessaria, non cosí le “coorti diocesane”.

I padri sinodali chiedono come possono i fedeli mostrare nei confronti delle persone non ancora giunte alla piena comprensione del dono d’amore di Cristo, un’attitudine di accoglienza e accompagnamento fiducioso, senza mai rinunciare all’annuncio delle esigenze del Vangelo. La Chiesa ha un tesoro incalcolabile in tal senso. E il problema spesso non è nella Chiesa, quanto piuttosto nel clero. Una visita informale alle parrocchie e agli istituti religiosi di tante diocesi pone in rilievo una semplice realtà: l’indisponibilità diffusa del clero nei confronti dei fedeli. Parroci - e soprattutto confessori - sono spesso irreperibili, eccetto che per le celebrazioni di messe. A nulla serve l’attitudine all’accoglienza se il clero materialmente non è presente. Il Concilio di Trento impose finalmente la residenza ai vescovi diocesani, sarebbe ora di imporre non solo la residenza ma anche la “reperibilità” ai vescovi e ai presbiteri in cura d’anime.

Ancora, si chiede come si possono creare le condizioni perché ogni famiglia sia come Dio la vuole e venga socialmente riconosciuta nella sua dignità e missione. La Chiesa non può farsi carico di analisi e risposte socio-politiche, che esulano in parte dalle sue competenze, quanto piuttosto cercare di evangelizzare le strutture umane al fine di renderle - come già rilevato - a loro volta propositive. Domande come questa danno l’impressione che la Chiesa possa e debba occuparsi praticamente di tutto. Ora, la Chiesa è sí, “sacramento di salvezza” ma solo in relazione e in dipendenza da Cristo. La Chiesa non salva e non converte e non guarisce se non in Cristo; vescovi, presbiteri, diaconi, e gli altri ministri della Chiesa, non salvano e non convertono e non guariscono se non in Cristo e nella Chiesa. Prima delle analisi umane minuziose e interminabili forse sarebbe bene chiedersi, clero e fedeli, quanto si sia inseriti e vitali in Cristo e nella Chiesa. Solo cosí sarà possibile rispondere al mondo che ci interroga, senza avere la velleità di offrire soluzioni socio-politiche parziali ed effimere.

Denunciare i mali del mondo è certamente importante, a patto che non si cada nella tentazione già vista delle varie “teologie della liberazione”, dove alla denuncia seguono la lotta politica e perfino armata, opzioni tutt’altro che evangeliche.

I padri sinodali chiedono quali possano essere le “procedure piú agili” dal punto di vista processuale canonico. Allo stato odierno non si vede una soluzione giuridica migliore dell’attuale. Indubbiamente va assicurata una seria informatizzazione delle medesime procedure e degli uffici competenti, forse ancora troppo legati a metodi gestionali tradizionali. La gratuità può essere ampliata ridimensionando il ruolo degli avvocati rotali che devono poter vivere, ma senza speculare sul loro servizio e su un uso piú ampio delle sovvenzioni fatte alla Chiesa.

Quanto alla prassi ortodossa delle seconde nozze, cui alcuni cardinali si sono riferiti per sostenere che anche i cattolici divorziati e risposati dovrebbero essere ammessi alla Comunione, occorre rilevare che gli ortodossi non fanno la Comunione nel rito delle seconde nozze, in quanto nel Rito bizantino del matrimonio non è prevista la Comunione, ma solo lo scambio della coppa comune di vino, che non è quello consacrato. Inoltre, si suol dire che gli ortodossi permettono le seconde nozze, quindi tollerano il divorzio dal primo coniuge. In verità non è proprio cosí, la Chiesa ortodossa è disposta a tollerare le seconde nozze di persone il cui vincolo matrimoniale sia stato sciolto da essa, non dallo Stato, in base al potere dato da Gesú alla Chiesa di “sciogliere e legare”, e concedendo una seconda opportunità in alcuni casi particolari (tipicamente, i casi di adulterio continuato, ma per estensione anche certi casi nei quali il vincolo matrimoniale sia divenuto una finzione). È prevista, per quanto scoraggiata, anche la possibilità di un terzo matrimonio. Inoltre, la possibilità di accedere alle seconde nozze, nei casi di scioglimento del matrimonio, viene concessa solo al coniuge innocente (cfr. LIVI A., Dogma e liturgia. Istruzioni dottrinali e norme pastorali sul culto eucaristico e sulla riforma liturgica promossa dal Vaticano II, Roma, 2014, passim).

Le seconde e terze nozze, a differenza del primo matrimonio, sono celebrate tra gli ortodossi con un rito speciale, definito “di tipo penitenziale”. Poiché nel rito delle seconde nozze mancava in antico il momento dell’incoronazione degli sposi - che la teologia ortodossa ritiene il momento essenziale del matrimonio - le seconde nozze non sono un vero sacramento, ma, per usare la terminologia latina, un “sacramentale”, che consente ai nuovi sposi di considerare la propria unione come pienamente accettata dalla comunità ecclesiale. Il rito delle seconde nozze si applica anche nel caso di sposi rimasti vedovi.

La non sacramentalità delle seconde nozze trova conferma nella scomparsa della Comunione eucaristica dai riti matrimoniali bizantini, sostituita dalla coppa intesa come simbolo della vita comune. Ciò appare come un tentativo di “desacramentalizzare” il matrimonio, forse per l’imbarazzo crescente che le seconde e terze nozze inducevano, a motivo della deroga al principio dell’indissolubilità del vincolo, ordinato al sacramento dell’unità: l’Eucaristia (cfr. LIVI A., Dogma e liturgia. Istruzioni dottrinali e norme pastorali sul culto eucaristico e sulla riforma liturgica promossa dal Vaticano II, Roma, 2014, passim). A tal proposito, il teologo ortodosso Alexander Schmemann ha scritto che proprio la coppa, elevata a simbolo della vita comune...

«mostra la desacramentalizzazione del matrimonio ridotto ad una felicità naturale. In passato, questa era raggiunta con la Comunione, la condivisione dell’Eucaristia, sigillo ultimo del compimento del matrimonio in Cristo. Cristo deve essere la vera essenza della vita insieme» (cfr. LIVI A., Dogma e liturgia. Istruzioni dottrinali e norme pastorali sul culto eucaristico e sulla riforma liturgica promossa dal Vaticano II, Roma, 2014, passim).

Come rimarrebbe in piedi questa “essenza”? Dunque, si tratta di un “qui pro quo” imputabile in ambito cattolico alla scarsa o nulla considerazione per la dottrina. L’erronea “opinione” è oggi diffusa tra chierici e fedeli, per cui, come osservò il Card. Joseph Ratzinger:

«Si deve nuovamente prendere molto piú chiara coscienza del fatto che la celebrazione eucaristica non è priva di valore per chi non si comunica. [...] Siccome l’Eucaristia non è un convito rituale, ma la preghiera comunitaria della Chiesa, in cui il Signore prega con noi e a noi si partecipa, essa rimane preziosa e grande, un vero dono, anche se non possiamo comunicarci. Se riacquistassimo una conoscenza migliore di questo fatto e rivedessimo cosí l’Eucaristia stessa in modo piú corretto, vari problemi pastorali, come per esempio quello della posizione dei divorziati risposati, perderebbero automaticamente molto del loro peso opprimente» (cfr. BENEDETTO XVI (JOSEPH RATZINGER), La festa della fede. Saggi di escatologia liturgica, Milano 19902, 121).

Quanto descritto è un effetto della divisione e perfino della contrapposizione tra dogma e liturgia. L’apostolo Paolo ha chiesto l’auto-esame di coloro che intendono comunicarsi, onde non mangiare e bere la propria condanna (1Cor 11,29). Ciò significa: “Chi vuole il cristianesimo soltanto come lieto annuncio, in cui non deve esserci la minaccia del giudizio, lo falsifica” (cfr. LIVI A., Dogma e liturgia. Istruzioni dottrinali e norme pastorali sul culto eucaristico e sulla riforma liturgica promossa dal Vaticano II, Roma, 2014, passim).

Quanto alla normativa e alla pastorale attuale circa gli omosessuali, al di fuori di contesti ideologicamente e artificiosamente orientati, non emergono problemi nell’esperienza della pastorale ordinaria. Purtroppo la natura stessa della questione tende ad isolare la persona che ne è affetta dal contesto sociale e ancor piú da quello ecclesiale. Non si può avvicinare chi non vuole essere avvicinato. La prima conseguenza del peccato purtroppo è quella di “dividere”, di compromettere la comunione interpersonale. Talvolta la preghiera silenziosa è l’unico aiuto che è possibile offrire.

Nei suoi diari, il Cardinal Jean Daniélou, scrive di essere pronto ad offrire la propria vita per la salvezza del suo fratello omosessuale, Alain Daniélou, mentre a sua volta quest’ultimo, nel Chemin du labyrinthe, rende omaggio a Jean e al suo amore sincero, pur non condividendo le sue posizioni. Si vede risplendere nella vita del cardinale un approccio ‘pastorale’ e delicato, un genuino amore evangelico, assieme al prezzo altissimo che tale amore esige. Nel Cardinal Daniélou l’amore ai lontani non era finzione, ma una realtà che valeva persino il martirio.

Dal 1943, assieme al grande studioso dell’islam, Louis Massignon, Daniélou celebrò ogni mese, nella piú grande discrezione, una messa per gli omosessuali, “per la loro salvezza”. Ne dà conferma la pronipote Emmanuelle de Boysson nel suo libro dedicato ai due fratelli, Le Cardinal et l’Hindouiste. Crediamo che questo del Card. Daniélou sia l’unico atteggiamento degno di nota in mezzo allo “strepito” del mondo, anche di un certo mondo ecclesiastico che aspira a confondersi con esso.

Quanto alle gravi conseguenze della denatalità, promossa anche con strumenti criminosi da lobbies politiche, finanziarie e culturali ostili all’antropologia cristiana e diffuse anche nell’odierno contesto ecclesiale, se ne è ben consapevoli, ma ben poco si può fare a livello di pastorale ordinaria, salvo un’attenta e perseverante catechesi.

I padri sinodali chiedono se, allo stato attuale, i genitori trovino solidarietà e sostegno nella comunità cristiana, oppure quali passi compiere perché il compito educativo dei genitori venga riconosciuto anche a livello socio-politico. In Italia, decenni di politica e di scandalosa doppiezza “democristiana”, specie a causa del “cattolicesimo” cosiddetto “democratico” avrebbero dovuto far comprendere da tempo che a livello socio-politico spesso si può fare ben poco. Molto meglio forse avrebbe fatto la Chiesa italiana a darsi dei solidi mass-media e ad evangelizzare il mondo della cultura e della scuola, piuttosto che confidare nella “presenza cattolica in politica”. Questo grande male andrebbe ormai denunciato apertamente per impedire che esso continui ad annidarsi impunemente nelle strutture ecclesiali, a tutti i livelli.

Un caso fra i tanti è quello della cosiddetta “scuola di Bologna”, che da anni tenta di imporre l’interpretazione del Concilio Vaticano II come rottura con la Tradizione e come indiscussa conciliazione della Chiesa con il mondo moderno. Una cattiva interpretazione che è stata autorevolmente smentita in un magistrale discorso di Benedetto XVI, del 22 dicembre 2005 alla Curia romana. Egli denunciò “l’ermeneutica della discontinuità e della rottura” che “si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media” e “ha causato confusione” fra i credenti. È da questa “scuola” e da altre analoghe “cattedre” che nasce un intreccio di interessi che coinvolgono potentati economico-politici e culturali favorevoli al relativismo e al multiculturalismo, via privilegiata per l’affermazione di un laicismo sempre piú radicale. Questi potentati che operano nell’ambiguità non hanno avuto ancora sufficienti e nette smentite.

In molti contesti il rifiuto delle loro politiche, soprattutto nel campo della bioetica e della famiglia, ha dimostrato che essi non sono nel cuore del mondo cattolico, che spesso resta legato al magistero della Chiesa, tuttavia avendo il controllo dei mass-media e l’appoggio della politica essi riescono ad imporre pesanti e gravi condizionamenti. Eliminare alla radice queste ambiguità è solo un primo passo per il recupero di quella fede e di quell’unità cattolica necessaria per una piú incisiva testimonianza evangelica. L’auspicio è che la Chiesa italiana si renda finalmente conto di tutto ciò e prenda una posizione chiara, anche sul suo passato recente. Nel 1919, perfino il comunista Antonio Gramsci previde ciò che sarebbe accaduto negli anni post-conciliari e che parte della Chiesa e dell’episcopato italiano ancora oggi non hanno capito:

«I Popolari [di Don Sturzo] rappresentano una fase necessaria del processo di sviluppo del Proletariato italiano verso il Comunismo... Il Cattolicismo democratico fa ciò che il Socialismo non potrebbe: amalgama, ordina, vivifica e si suicida... Perciò non fa paura ai Socialisti l’avanzata impetuosa dei Popolari, non fa paura il nuovo Partito che ai 60.000 tesserati del PSU contrappone i suoi 600.000 tesserati. I Popolari stanno ai Socialisti come Kerenski a Lenin» (cfr. GRAMSCI A., “L’Ordine Nuovo” del 1° novembre 1919 (ripubblicato in “L’Ordine Nuovo. 1919-1920”, Einaudi, Torino 1954, p. 286)).

Nella situazione attuale forse la Chiesa italiana farebbe bene ad offrire e chiedere piú supporto economico alle scuole cattoliche, facendo anche leva sulla normativa europea. Il vecchio monopolio statalista della scuola, nell’odierno contesto, non è piú accettabile né difendibile in alcun modo.

Nei Lineamenta viene pure chiesto come promuovere nei genitori e nella famiglia cristiana la coscienza del dovere della trasmissione della fede quale dimensione intrinseca alla stessa identità cristiana. Non si vede altra risposta se non un’attenta riforma liturgica e il rilancio della “catechesi degli adulti”. Il calendario liturgico universale potrebbe essere arricchito da nuove celebrazioni a contenuto “dottrinale” che consentano un maggiore spazio “catechetico”. Il calendario nazionale gestito dalla CEI appare ancora troppo legato a questioni prevalentemente sociali e/o politico-economiche, non sempre sentite. La grande scuola della Chiesa, l’unica, veramente a disposizione di tutti, è quella della liturgia, una liturgia che può e deve essere piú ricca e aperta alla catechesi. Si noti che il Catechismo della Chiesa Cattolica, nelle facoltà ecclesiastiche e nei mass-media cattolici occupa uno spazio infimo, per non parlare dell’omiletica, anche ad alto livello. L’uso dei mass-media nel mondo cattolico appare sempre piú ambiguo, confuso e privo di seri riferimenti dottrinali. Occorre una seria inversione di rotta anche nei vertici, pena il ricadere in situazioni ancora piú gravi del passato, dove tuttavia il coraggio della denuncia era ben maggiore:

«Nonnulli pontifices tui praedecessores, prurientes auribus, ut inquit apostolus Paulus, coacervaverunt sibi magistros ad desideria sua, non ut ab eis discerent, quid facere deberent, sed ut eorum studio et calliditate inveniretur ratio, qua liceret id quod liberet. [...] Ex hoc fonte, Sancte Pater, tanquam ex equo Troiano, irrupere in ecclesiam Dei tot abusus et tam graves morbi, quibus nunc conspicimus eam ad desperationem fere salutis laborasse, et manasse harum rerum famam ad infideles usque (credat Sanctitas vestra scientibus) qui ob hanc praecipue causam, Christianam religionem derident, adeo, ut per nos, per nos inquimus, nomen Christi blasphemetur inter gentes» (Consilium de emendanda Ecclesia, cfr. Mansi, Supplementa, XXXV, col. 347).

Non sappiamo cosa accadrà fra qualche anno, parlando in termini puramente umani: salvo un serio e deciso cambiamento di rotta si corre il rischio di vedere esiti ben piú gravi di quelli fin qui paventati. Occorre pregare alquanto perché ciò non accada, soprattutto pensando al fatto che il punto su cui il Sinodo si è in parte arenato è proprio il contrasto tra chi pretende di dissociare la dottrina dalla prassi cristiana e chi, come il Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, card. Müller (e la maggior parte degli altri Vescovi), ribadisce che...

«...non c’è la verità senza la vita e non c’è vita senza verità» (cfr. Gerhard Ludwig Müller, Discorso alla Radio Vaticana, 2 dicembre 2014).

 

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