Vox populi

In alcuni casi, che la storia ci tramanda, prima ancora della voce ufficiale della Chiesa, è stato il popolo, la opinione pubblica, a decretare, nella sua istintività affettuosa e ammirata, la santità di una persona. È quanto si può dire anche di Salvo D’Acquisto. Infatti, da quel lontano 1943, si è sempre pensato ad un atto eroico sia dal punto di vista militare che da quello cristiano. L’eroico Vicebrigadiere ha fatto non solo fino in fondo il suo dovere di carabiniere, ma ha posto in pratica il comandamento della carità, ad imitazione di Cristo stesso: «non c’è amore piú grande di quello di chi dà la vita per i fratelli». I cittadini italiani, sia del territorio nazionale che abitanti all’estero, hanno sempre tenuto in cuore tale convinzione e già negli anni cinquanta si era parlato d’interessare la S. Sede a questo scopo. Ma è stato con l’inizio del processo di beatificazione del P. Kolbe che gli italiani hanno cominciato a parlare a voce alta di Salvo D’Acquisto come martire della carità. E sono state le numerosissime lettere giunte da ogni parte alla S. Sede, all’Ordinariato Militare e al Comando Generale dei Carabinieri a spingere le autorità competenti a fare il passo decisivo e ad intraprendere, anche per il D’Acquisto, il processo canonico.

 

 

Brevi cenni della vita

Ma chi era Salvo D’Acquisto? Da quali fonti ha attinto la forza per il suo sacrificio?

Bisogna subito dire che era un figlio del nostro popolo generoso, semplice, onesto, laborioso.

Egli nacque da padre palermitano e da madre napoletana il 17-10-1920 nel capoluogo campano. Primo di cinque figli assorbí, col latte materno, il senso religioso e quello umano della vita, che lo faceva sentire, man mano che cresceva, responsabile insieme ai genitori dell’andamento familiare e della sua situazione economica non certo agiata. Lo dimostrerà nella sua vita e lo confermerà nelle sue lettere, ai familiari e agli amici, dalle quali traspare la sua pressante cura per le persone amate, di famiglia o semplici amiche.

Egli frequenta le elementari parte in scuole statali parte nel collegio dei Salesiani, al Vomero di Napoli. Anche qualche classe delle medie trascorse coi Figli di Don Bosco. La sua serietà, la sua riservatezza, il suo sorriso gli attirarono la simpatia dei compagni e degli insegnanti.

I piú deboli avevano in lui un paladino pronto anche ad usare mezzi forti per difenderli. È di questi giorni la notizia dataci da un compagno di scuola che ci informa del bene fatto ad un ragazzo gobbo, alunno nella stessa scuola. Molte volte i ragazzi nella loro incoscienza sanno essere piuttosto cattivi con chi è menomato. Dinanzi alla «reprimenda» di Salvo, certamente con mente e cuore piú grandi della sua età, nessuno osò piú umiliare e far piangere il piccolo minorato.

Pur avendo una normale intelligenza non risulta sia stato uno studente di grande profitto. Fu per la sua timidezza? Fu perché, come tutti i ragazzi, preferiva piú giocare che studiare? Non lo sappiamo. È certo però che da militare i suoi soldi furono divisi tra aiuti alla famiglia e spese per libri.

In una lettera dell’ottobre 1940 scriveva: «Per la fine del mese invierò 40 lire (per questo mese non posso inviarvi di piú) cosí comprerete le scarpe a Rosario e andrà anche lui a scuola e fatelo studiare». È ancora un semplice carabiniere in Italia e lo stipendio è modesto. In un’altra del 6-4-1942 scrive ai suoi: «...oggi invierò un vaglia di 800 lire (era già in Africa, in zona di operazione) delle quali 100 servono per Franca (la sorella) e 100 per quanto vi dirò». Prega i genitori di far recapitare un pacco ad un collega in licenza che si è impegnato a portarglielo. «Nel pacco dovrete accludere i seguenti oggetti: 1) un volume di temi svolti per le scuole medie, che tratti argomenti letterari e d’attualità; 2) una grammatica italiana; 3) un libro che tratta ampiamente la storia di tutti i tempi; 4) il libro «Cuore»; 5) tre dentifrici...» e continua con l’elencazione di altri piccoli oggetti utili per la pulizia e l’ordine personale.

Questo è un piccolo esempio del suo attaccamento alla famiglia e della sua partecipazione alle necessità familiari, che però non gli facevano perdere di vista l’esigenza di progredire e di affermarsi nella vita. Per ottenere questo però non fidava solo nelle proprie capacità e nella propria volontà. Sapeva, e ciò traspare evidentissimo da tutti i suoi scritti, che è necessario, indispensabile l’aiuto di Dio, della Provvidenza e per meritarlo è necessario una vita fatta di fede, di speranza nel Suo intervento, di amore per Lui, manifestato anche con l’amore del prossimo.

Non è facile poter citare tutte le espressioni che si leggono nei suoi scritti: «con l’aiuto di Dio», «se Dio vuole», «ringrazio Dio», «speriamo nel Signore» ecc. Alla madrina di guerra, che gli aveva acclusa in una lettera l’immagine del Sacro Cuore di Gesú benedicente i militari, egli scrive: «Non potevi farmi un regalo piú bello e gradito. Da tanto desideravo una immagine cosí...».

Niente di trascendente, è vero. Ma è appunto questa naturalezza, questa compostezza, mai perduta pur nelle difficoltà che il tempo e le circostanze gli presentavano, che lo fanno ammirevole. È questo suo modo di vivere e di sentire che spiegano il suo olocausto per la salvezza di 22 abitanti di Torrimpietra. Egli certamente li conosceva, per averli incontrati in quei pochi mesi di servizio svolto tra di loro. Con alcuni di essi avrà scambiato qualche osservazione, qualche battuta, con altri forse solo il saluto. Eppure tutti, compresi i figli e i nipoti dei contemporanei di Salvo, lo ricordano con rispetto e si fanno improvvisamente seri, quasi devoti, quando si parla di lui. E ne hanno ragione. Il sacrificio silenzioso, modesto, umile di un giovane quasi sconosciuto e certamente estraneo all’ambiente, li fa pensare e li commuove. Sí, ancora oggi dopo quarant’anni da quel 23 settembre 1943.

 

 

Amore eroico per i fratelli

Era una bella giornata di sole e come tutti i giorni in caserma la vita era iniziata presto. Per il Vicebrigadiere D’Acquisto, che comandava la stazione in assenza del titolare, era iniziata ancora prima. Secondo una notizia giuntaci dal Cappellano Militare dei Carabinieri, P. L. Apolloni S.J., quella mattina Salvo era stato in Chiesa, si era confessato e aveva ricevuto l’Eucarestia. Premonizione? Ispirazione? Forse solo il 1° venerdí del mese, che egli abitualmente praticava? Poi, tornato in caserma, inizia l’attività di sempre: comanda i servizi, legge il brogliaccio, si interessa della posta.

Ed è durante lo svolgimento di questa routine mattutina che scocca per lui l’ora della grande prova. Una voce lo chiama dal cortile del Castello dove era alloggiata la caserma.

È una voce nota e quindi nessun sospetto sorge in lui. Quando, affacciatosi alla finestra dell’ufficio, vede giú due militari tedeschi, egli scende con naturalezza, cosí come si trovava, in maniche di camicia. Il settembre romano, specie nei pressi del mare, suole essere ancora abbastanza caldo. La sua sorpresa e il suo sgomento sono grandi quando a lui, sceso per incontrare degli alleati, si risponde con l’intimazione di alzare le braccia e con un colpo di calcio di fucile in faccia. Sorpresa e sgomento, perché egli non aveva saputo forse quanto era avvenuto al «Torraccio», là in riva al mare, dove i tedeschi avevano occupato la sede della Guardia di Finanza. Costretto a salire sulla motocicletta è portato nella piazza di Palidoro. Qui è interrogato brutalmente sul responsabile di un presunto attentato, che ha provocato la morte di due tedeschi e il ferimento di un terzo. Egli, protestando la sua innocenza, esclude che tra gli abitanti di quelle contrade si possa trovare l’autore dell’attentato.

Le percosse non cambiano la sua versione, alla quale fa seguito un rastrellamento che vede accomunati alla stessa sorte dei borghigiani sorpresi nei loro casolari o nell’officina o nei campi. Sono ventidue uomini la cui colpa è solo quella di essere stati trovati là, a Torrimpietra o nelle vicinanze.

È ormai quasi mezzogiorno quando questi disgraziati, caricati su un camion e tremanti di paura, giungono nella piazzetta di Palidoro. La vista del loro sottufficiale dei Carabinieri, pesto e sanguinante per le percosse ricevute, li angoscia ancora di piú. A lui, che viene caricato con loro sul camion, tutti chiedono aiuto, spiegazioni, notizie sulla loro sorte.

Il D’Acquisto li incoraggia, dice che non hanno da temere, perché tra loro non ci sono responsabili di attentati, ma solo persone oneste e laboriose. Erano parole di esortazione sentite, di chi, avendo la coscienza a posto, ha nulla da temere. Ma erano parole destinate a non avere eco nel cuore dei tedeschi e che vennero subito cancellate dalla mente e dal cuore di quei poveretti dall’ordine perentorio di mettersi a scavare una lunga e profonda fossa, quasi una trincea, nella quale, a dire dei tedeschi, sarebbero stati sepolti.

Altri interrogativi, ora con minacce, ora con lusinghe, vennero fatti ai poveri ostaggi, sempre con eguale risultato: non sapevano di attentati o di autori di attentati.

L’avvicinarsi della sera rendeva sempre piú deboli le speranze di salvezza e piú forte l’attaccamento alla vita. Ognuno dei ventidue aveva famiglia, qualcuno era sposato solo da qualche settimana, uno era appena un adolescente. Le domande si facevano sempre piú pressanti e il D’Acquisto rispondeva sempre confortando ed incoraggiando.

Racconta il Signor..., uno dei superstiti di quei ventidue: «Alla mia domanda: ma allora ci uccideranno tutti?, vidi il V.Brigadiere lasciare di scavare ed ergersi in piedi. Poi con volto serio si avvia e chiede di parlare col Comandante. L’interprete lo accompagna e un colloquio di qualche minuto si svolge tra il Sottufficiale e il Comandante tedesco. Poi torna in mezzo a noi. È molto serio e molto sereno. A tutti viene spontaneo chiedere: E allora? Non temete, è la risposta. Non vi faranno nulla. Io ho fatto il mio dovere». Ed un altro, il Signor Vittorio Bernardi, specifica: «Non vi faranno nulla perché ho detto che sono io il responsabile». Infatti poco dopo, è ormai pomeriggio inoltrato, tutti vengono invitati ad uscire dalla fossa. Increduli i prigionieri si aiutano a vicenda a superare la trincea. Vi rimangono il V.Brigadiere D’Acquisto e il piú giovane degli ostaggi Angelo Amodio. Quest’ultimo piange e protesta di essere innocente, di non saper nulla. Dopo un ulteriore dose di botte, viene cacciato via anche lui.

Ci narra il Signor... «Mentre mi allontanavo mi sono voltato a guardare dentro la fossa. Il V.Brigadiere ci guardava sereno, quasi sorridente, come a volerci dire: Non ve lo avevo detto che vi avrebbero liberati? Poi mi sono rigirato e sono corso verso la libertà...».

E l’Amodio, oggi 57enne racconta: «Mi ero allontanato di corsa incredulo, quando improvvisamente fui bloccato da una scarica di mitra. Mi girai, pensando che mi sparassero dietro, ed invece vidi il nostro V.Brigadiere leggermente piegato su se stesso, con la camicia che si andava arrossando. Poi un’altra scarica e lo vidi cadere giú. Quindi i tedeschi scalciarono della sabbia dentro la fossa e se n’andarono. Io, come svegliatomi da un incubo ricominciai a correre...».

Dopo qualche settimana alcune persone, tra cui delle donne, hanno riesumato il corpo del D’Acquisto seppellendolo nel cimitero di Palidoro. In seguito fu trasferito a Napoli, dove oggi si trova, in un sacrario costruito in vista del suo muro, tante volte certamente sognato, durante i suoi servizi notturni in Patria e in Africa.

Con Decreto del 15-2-1945 al Sottufficiale venne concessa la Medaglia d’Oro al Valor Militare con la seguente motivazione:

«Esempio luminoso di altruismo, spinto fino alla suprema rinunzia della vita, sul luogo stesso del supplizio, dove, per barbara rappresaglia, erano stati condotti dalle orde naziste, 22 ostaggi civili del territorio della sua stazione, non esitava a dichiararsi unico responsabile d’un presunto attentato contro le forze armate tedesche. Affrontava cosí da solo, impavido, la morte imponendosi al rispetto dei suoi stessi carnefici e scrivendo una nuova pagina indelebile di purissimo eroismo nella storia gloriosa dell’Arma».

 

 

 

Cfr. CIPOLLA S., Il Vicebrigadiere Salvo D’Acquisto, in Bonus Miles Christi, 1 (1984), 41-44.

 

 

 

 

 Il martirio di Palidoro

Il martirio di Palidoro

 

 

 

 

 

 

 

VERBALE DELLA RICOGNIZIONE DELLA SALMA

 

 

 

«Sabato mattina, 18 corrente [1987], alle ore 9.15, ha avuto luogo nel Monastero di S. Chiara di Napoli, la ricognizione canonica dei resti mortali del Servo di Dio Salvo D’Acquisto, del quale è in corso il processo di canonizzazione, tumulati, nel 1947, nel Mausoleo di Posillipo.

S. Em., il Card. Corrado Ursi, Arcivescovo di Napoli con suo decreto del 15 ottobre corrente [1987], costituí il tribunale ecclesiastico per la ricognizione, cosí composto:

Delegato Arcivescovile: il P. Gaudenzio dell’Aja, dell’Ordine dei Frati Minori;

Promotore di Giustizia: il Rev. Mons. Aniello Castiello;

Notario Attuario: il Sac. Giuseppe Testa;

Periti Medici: Proff. Felice D’Onofrio e Carlo Romano.

Prima di dare inizio alla ricognizione i singoli membri del tribunale hanno prestato il giuramento prescritto, quindi si sono portati nella sala del Monastero in cui nel pomeriggio del 14 corrente era stata trasferita la bara.

Aperta la cassa di legno e quella di metallo è apparso lo scheletro del Servo di Dio.

Le ossa, previo lavaggio, sono state esaminate, ed è stato ricostruito lo scheletro, legando i singoli elementi su una tavola. Dalla ricognizione, è emersa, sotto l’aspetto medico-legale, la dinamica della fucilazione dell’eroico Vice-Brigadiere dei Carabinieri.

Ad un primo esame si è identificato il forame di entrata di un colpo di arma da fuoco sulla quinta costola sinistra, sulla linea emiclaveare (in corrispondenza del cuore) ed il forame di uscita sulla quinta costola destra in adiacenza alla colonna vertebrale. Il cranio presentava fenomeni di scoppio e dopo la ricostruzione si sono potuti identificare due forami di entrata tra loro adiacenti sull’osso temporale di destra e due forami di uscita sulle ossa parietali, uno a destra e uno a sinistra. La misurazione del diametro dei forami di entrata fa pensare che sia stata usata un arma automatica con proiettili di calibro 9.

La morte del valoroso carabiniere fu immediata per la gravità delle ferite al torace e al cranio, queste ultime furono inferte quando il corpo era a terra.

All’operazione della ricognizione oltre ai periti medici Professori Felice D’Onofrio e Carlo Romano, hanno partecipato il Prof. Mario De Robertis, il Dott. Giuseppe Vacchiano e il tecnico Salvatore Proto. Erano presenti Mons. Marcello Costalunga, Delegato vescovile di S. Ecc.za Mons. Gaetano Bonicelli, Ordinario Militare per l’Italia e Mons. Domenico Salvatico, Vicario Generale dell’Ordinario Militare; vi erano inoltre il M.R.P. Adolfo Pagano, Provinciale dei Frati Minori di Napoli e la comunità dei Francescani di S. Chiara.

Per l’Arma dei Carabinieri erano presenti il Colonnello Medico Francesco Lavano, Direttore di Sanità del Comando generale, e il Maggiore dei carabinieri Rocco Paglialunga. Dei familiari del Servo di Dio era presente il fratello Alessandro.

Al termine della ricognizione lo scheletro ricostruito è stato collocato in una bara su cui sono stati apposti i sigilli del Cardinale Arcivescovo di Napoli».

 

 

 

 

 

Cfr. Verbale della ricognizione della salma, in Bonus Miles Christi, 1 (1987), 35.