Nel diritto internazionale il termine genocidio denota il crimine commesso da chiunque partecipi alla distruzione di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, cosí come definito dalla Convenzione sulla prevenzione e la punizione del reato di genocidio adottata dall'Assemblea generale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite nel 1948.

Il primo genocidio dell'era moderna fu quello della Vandea in una Francia ormai oscurata dai tristi "lumi" di una ragione ideologica. La rivolta fu innescata dall'imposizione della leva militare obbligatoria decisa dalla Convenzione nazionale nel febbraio 1793 e da gravi violazioni della libertà religiosa. I primi scontri, iniziati a Cholet, portarono alla sollevazione del 13 marzo, guidata da Jacques Cathelineau, Gaston Bourdic e Jean-Nicolas Stofflet, a cui si unirono alcuni nobili. In giugno gli insorti si impossessarono delle città di Saumur e di Angers. Di fronte al dilagare della rivolta nelle regioni circostanti, il governo rivoluzionario rispose con estrema brutalità applicando indiscriminatamente la pena di morte e adottando la tattica della terra bruciata. La repressione repubblicana a Cholet (17 ottobre), poi a Le Mans e a Savenay (dicembre), portò allo sterminio di oltre 100.000 persone e fu seguita nel 1794 da altre feroci ritorsioni sulla popolazione.

Il primo genocidio di cui si abbia traccia nel XX secolo invece risale agli anni della Prima guerra mondiale, quando parecchie centinaia di migliaia di armeni (Genocidio degli armeni) furono barbaramente sterminati dal governo ottomano. Ancora oggi la Turchia nega ufficialmente ogni responsabilità al riguardo. Il genocidio piú noto però è quello atrocemente sistematico messo in opera dalla Germania nazista contro gli ebrei e tutti gli oppositori del regime. Nel 1945, con la fine della Seconda guerra mondiale, si poté accertare che solo di ebrei ne erano stati sterminati circa sei milioni.

Sempre nel 1945, nel corso dei processi ai crimini di guerra, il tribunale di Norimberga stabilí il principio della responsabilità individuale dei militari che eseguirono gli ordini nazisti di sterminio. L'anno successivo, con l'adozione della Convenzione delle Nazioni Unite contro il reato di genocidio, fu stabilito che fosse considerato genocidio qualunque sterminio commesso in tempo di guerra o di pace e che dovessero essere perseguiti tutti i responsabili (dai governanti ai semplici cittadini); fu inoltre deciso che le nazioni firmatarie della Convenzione avrebbero adottato misure legislative interne per dare efficacia alla Convenzione stessa, impegnandosi a non includere il genocidio fra i delitti politici, a negargli ogni forma di immunità e disponendo infine la competenza dei tribunali nazionali in materia.

La Convenzione adottata nel 1948 però non ha potuto evitare che altre forme di sterminio macchiassero la storia del XX secolo: ad esempio quello perpetrato nel 1975 dal regime dispotico dei Khmer Rossi ai danni della popolazione della Cambogia, deportata in aree rurali e sottoposta a trattamenti disumani, spesso causa di morte (si calcola che in tre anni furono piú di un milione le vittime del regime comunista di Pol Pot).

Altri esempi di genocidio si sono avuti con il conflitto tra nigeriani e biafrani nel 1969 (Guerra del Biafra); in Uganda durante gli anni Settanta; con il trattamento riservato ai curdi in Iraq dal 1986 in poi; e con i massacri tra serbi, croati e musulmani di Bosnia nell'ex Iugoslavia fra il 1992 e il 1996 (Guerra civile jugoslava). Anche durante il conflitto etnico scoppiato in Rwanda il massacro costò la vita a quasi un milione di persone.

 

 Monumento in memoria del genocidio armeno

Il monumento in memoria del genocidio armeno eretto a Yerevan, capitale dell'Armenia,
commemora le centinaia di migliaia di armeni morti tra il 1915 e il 1923 per mano dei
turchi in uno dei più sanguinosi massacri del XX secolo

 

 

 

 

La tragedia del Rwanda

 

«In nome del mio Paese, in nome del mio popolo, vi chiedo perdono». Sono le parole che Guy Verhofstadt, primo ministro belga, aveva pronunciato il 7 aprile 2000 a Kigali, Rwanda, davanti a migliaia di persone che partecipavano alla commemorazione del genocidio rwandese. «La comunità internazionale, tutta intera, porta un'immensa e pesante responsabilità. Un drammatico seguito di negligenze, noncuranze, incompetenze, esitazioni ed errori ha creato le condizioni per una tragedia senza nome. Io assumo qui le responsabilità del mio Paese, delle autorità politiche e militari belghe».

Il Belgio ha riconosciuto, come nessun altro Paese, la sua parte di responsabilità nel genocidio avvenuto in Rwanda. Ci sono voluti alcuni anni, le rivelazioni dei giornali sulle informazioni di cui le autorità disponevano circa l'imminenza del genocidio, la mobilitazione delle famiglie dei caschi blu assassinati in quelle circostanze, le petizioni e le pressioni dell'opinione pubblica perché venisse istituita una vera e propria commissione d'indagine. Alla fine del 1997, dopo otto mesi, venne presentato un rapporto completo e privo di reticenze dove veniva descritta sinteticamente la storia della tutela belga in Rwanda. Per la prima volta in un documento ufficiale di rilievo si attesta il fatto che il Belgio contribuí a seminare i germi della violenza etnica appoggiandosi sui Tutsi, allevatori, per dirigere il Paese e dominare gli Hutu, agricoltori, che pure costituivano la maggioranza della popolazione. All'alba dell'indipendenza il Belgio portò il suo sostegno alla maggioranza hutu che proclamò la Repubblica nel 1961, dimenticando centinaia di migliaia di tutsi che furono perseguitati e presero la via dell'esilio.

Durante tre decenni, benché consapevole del ricorso all'odio etnico come strumento politico da parte del nuovo potere, il Belgio si adattò al regime allora al governo, ma all'inizio degli anni '90 il Fronte Patriottico Ruandese, composto essenzialmente da esiliati tutsi, attaccò il Paese partendo dall'Uganda, mentre il Belgio, col favore di un cambio di maggioranza, adottò una politica di neutralità nei rapporti con le fazioni avverse dando il suo sostegno al processo di pace di Arusha e offrendosi di condurre la missione dell'ONU per il mantenimento della pace in Rwanda, la MINUAR.

È in questa circostanza che emergeranno clamorosamente le gravi responsabilità del Belgio. Nella sua opera Les Belges au Rwanda, le parcours de la honte, Jean-Claude Willame ritorna a lungo sulla carenza di analisi, sugli errori di valutazione, sulla fede cieca della diplomazia belga negli accordi di Arusha e sulla mancata percezione della pericolosità della situazione, tutti elementi che portarono al disastro. Ma le colpe non furono solo del Belgio, tutte le cancellerie occidentali, la Francia e gli Stati Uniti in primo luogo, mancarono di trarre le dovute conseguenze. Già nel 1992-1993 c'era stata una sorta di prova generale, vennero costituite le milizie e iniziarono i primi massacri. Ma la comunità internazionale non fece nulla. Neppure l'assassinio di alcuni leader politici aveva suscitato la riprovazione delle diplomazie dei vari paesi, che continuarono a dare credito ad un processo di pace stentato. Dalle audizioni della Commissione d'inchiesta risulta chiaramente che, al governo belga e all'ONU, una settimana dopo la decisione di inviare i caschi blu, pervennero le prime voci sulla minaccia di genocidio che gravava nel Paese, come pure precise indicazioni sui depositi clandestini di armi. Ma nonostante i segni inquietanti l'ottenebramento continuò fra l'impreparazione delle truppe, la mancanza di equipaggiamenti e l'interpretazione eccessivamente restrittiva che venne data del mandato dell'ONU.

«Il grande errore del Belgio fu di aver ritirato il suo contingente militare e di aver fatto pressioni per il ritiro della forza dell'ONU. Il 7 aprile 10 caschi blu belgi furono uccisi, mentre il massacro cominciò a imperversare nel Paese. Sotto lo choc dell'aggressione i belgi ritirarono le proprie truppe contribuendo cosí all'espandersi del genocidio. Ritiratisi i contingenti militari occidentali gli estremisti hutu non trovarono piú ostacoli al loro odio.

 

 Il generale Roméo Dallaire

Il generale canadese Roméo Dallaire era Comandante della MINUAR
all'epoca del genocidio rwandese

 

 

 

Il generale Dallaire

 

Il generale canadese Roméo Dallaire era responsabile della MINUAR all'epoca del genocidio rwandese. Fu su di lui che ricadde in modo drammatico il peso della tragedia. Impegnato a contenere il disastro con soli 2.500 uomini venne abbandonato al suo destino da quell'ONU che aveva promesso di servire.

Dallaire divenne il martire morale di quel genocidio che da aprile a giugno 1994 fece quasi un milione di morti. Nella sua opera J'ai serré la main du diable grida tutto il suo dolore, la sua vergogna e la sua collera contro l'ONU, la Francia, gli Stati Uniti, tutti quelli che hanno abbandonato il Rwanda. Emblematico fra tutti il caso di un bambino che egli riporta nel suo libro e che non dimenticherà mai.

Quel bambino comparve all'improvviso dinanzi alla sua macchina, «era coperto da una t-shirt sporca che pareva un avanzo di indumento intimo e di un perizoma che ricadeva su un ventre gonfio. Era sudicio, i suoi capelli imbiancati e infeltriti dalla polvere. Lo avviluppava una nuvola di mosche. Forse era dovuto allo stato pietoso in cui si trovava, ma per me quel bambino aveva il viso di un angelo. Avevo visto talmente tanti bambini fatti a pezzi che quel piccolo ragazzo fu per me una visione di speranza». Poco dopo, il bambino è corso verso una capanna davanti alla quale si trovava «il cadavere di un uomo che doveva essere morto molte settimane prima, perché la sua carne consumata dai vermi cominciava a staccarsi dalle ossa. È entrato nella capanna; l'ho seguito. Dentro era molto buio. E mi fu possibile vedere, disposti in modo piú o meno circolare, i corpi decomposti di un uomo, di una donna e di due bambini. Gli ossami bianchiti dei morti spuntavano da una specie di cuoio rinsecchito che un tempo doveva essere stata la pelle. Il bambino era accovacciato accanto ai resti di sua madre.».

Prendendo nelle sue braccia il bambino per portarlo fuori dalla capanna, il generale Dallaire si sentí paradossalmente riempito da un senso di pace e di serenità che, disse, «mi elevò al disopra del caos. Benché affamato, quel bambino era vivo; anche se coperto di sporcizia, era bello; per quanto intontito, non aveva paura. Presi allora una decisione: quel bambino sarebbe stato il quarto della famiglia Dallaire. Non potevo salvare il Rwanda, ma potevo salvare un innocente». «Eppure, racconta ancora il generale Dallaire, non lo si è potuto fare». Un soldato del Fronte patriottico rwandese si fece avanti dalla collina vicina e dichiarò che il ragazzino doveva restare dove stava, insieme ai suoi, anche se non ha nome e neppure piú famiglia.

 

 Generale Dallaire

 

 

 

Una religiosa, responsabile di una congregazione belga, ha sostenuto spesso il generale, ripetendogli: «Quello che avete vissuto l'ha vissuto anche il Cristo. Scrivete la vostra storia, per quanto possa essere doloroso per voi, e vedrete che, come il Cristo dopo la crocifissione, avrete la vostra "risurrezione". Per Cristo ci sono voluti tre giorni, per voi tre anni».

Da cattolico qual è il generale Dallaire ha attinto cosí nuove forze, la lucidità, il coraggio di dire la verità e di piangere ancor oggi sul fatto d'aver «stretto la mano del diavolo», quella dei piccoli e dei grandi "genocidari", contro i quali ha testimoniato davanti al tribunale di Arusha. E là è andato lontano con le sue accuse nel nome della verità storica che deve venire a galla. «Il genocidio - fa notare - è stato dapprima banalizzato per essere poi continuamente occultato... Talvolta questo sfiora il revisionismo. Sento ancora alti responsabili americani, grandi assenti al momento del genocidio, ripetere: "C'era un genocidio? Non potevamo farci nulla". Vi rendete conto! Questo genere d'atteggiamento, al piú alto livello politico, offre il fianco a teorie, a interpretazioni. Tutto questo imbroglia le carte della Storia». Piú rivoltante ancora per il generale Dallaire è il fatto che allora si sia parlato molto in fretta di un "contro-genocidio", questa volta dei Tutsi contro gli Hutu, al tempo dell'invasione da parte dei militari del presidente ruandese Paul Kagame dal Congo orientale (allora ancora Zaire), dall'inizio del settembre 1996. «I soldati tutsi rwandesi sono lontani dall'essere dei santi, riconosce. Nella loro caccia ai miliziani hutu INTERAHAMWE, ai "genocidari", hanno commesso violenze, massacri, ricacciando popolazioni nelle foreste, perché vi morissero. Ma da qui a parlare di contro-genocidio è scandaloso»!

«In questa regione - ricorda - si trovavano i campi dei rifugiati hutu rwandesi, presi in ostaggio da "genocidari", estremisti hutu che vi si erano nascosti». Anche su questo punto il generale Dallaire è assertivo: «I militari francesi, con l'operazione "Turquoise", nel 1994 hanno aiutato i "genocidari" rwandesi a fuggire, a passare dall'altra parte, nell'ex Zaire. Io ho visto, con i miei propri occhi, importanti "genocidari" in vetture militari francesi al momento dell'operazione "Turquoise"! La Francia, ritiene, dovrà pur tuttavia riconoscere un bel giorno la sua colpevolezza. Ma quando sarà possibile»?

È significativo al riguardo il massacro di circa 1.400 civili causato dall'incoscienza delle Nazioni Unite: in un complesso scolastico alla periferia di Kigali erano accampati i soldati francesi del contingente ONU per eventuali azioni che il comando avesse disposto. Quando scoppiarono i tumulti in città molti civili si precipitarono verso il campo francese per trovare protezione, essendo rimasta l'unica zona sicura per i pochi sopravvissuti. Donne, bambini e soprattutto anziani invasero il campo e i francesi dettero loro protezione e alimenti, ma questo non durò che pochi giorni fino a quando il comando dell'ONU diede loro l'ordine di rientrare essendo la situazione troppo pericolosa per gli stessi soldati. Le persone chiesero di partire con loro o di essere scortate in luoghi sicuri lontano dagli assassini, ma il comando delle Nazioni Unite rifiutò. Allora quelle persone in preda al terrore per quello che gli sarebbe successo si posero davanti alla colonna militare francese chiedendo di essere uccise subito piuttosto che essere seviziate, torturate, stuprate e squartate dagli assassini. Ma i francesi se ne andarono senza portare nessuno con loro. Due giorni dopo la loro partenza nel campo restavano 1.400 cadaveri. Quelle persone erano sotto la giurisdizione e la protezione delle forze militari delle Nazioni Unite che non le ha volute proteggere e le ha abbandonate a morte certa.

Se il Rwanda non fosse stato abbandonato, se la viltà e gli interessi politici ed economici non avessero avuto l'ultima parola, se si fosse inviato un contingente militare adeguato e determinato non avremmo macchiato la nostra storia di un altro grande e orribile genocidio:

Uno fra i tanti, troppi, che hanno gettato per sempre la nostra presuntuosa epoca nella vergogna e nel disonore.

 

 

**

 

 

 In memoria del genocidio

Il generale Roméo Dallaire visita il sacrario in memoria del genocidio rwandese

 

 

 

 

COSTA P. - SCALETTARI L., La lista del console. Ruanda: cento giorni un milione di morti, Paoline Editoriale Libri, 2004.

DALLAIRE R., Shake Hands with the Devil: The Failure of Humanity in Rwanda, Ed. Carroll & Graf Publishers 2005.

DIOP BOUBACAR B., Rwanda. Murambi, il libro delle ossa, Editore E/O, 2004.

PRUNIER G., Rwanda 1959-1996, histoire d'un génocide, Ed. Dagorno.

Rapporto congiunto di Human Rights Watch e della Fédération internationale des droits de l'homme (FIDH) sul genocidio, Edizioni Karthala.

 

 

 Shake hands with the devil

Shake Hands with the Devil: The Failure of Humanity in Rwanda