PROEMIO

ORIGINE E SIGNIFICATO DEL DOCUMENTO

 

1. Parlare di riconciliazione e penitenza è, per gli uomini e le donne del nostro tempo, un invito a ritrovare, tradotte nel loro linguaggio, le parole stesse con cui il nostro salvatore e maestro Gesú Cristo volle inaugurare la sua predicazione: «Convertitevi e credete al Vangelo» (Mc 1,15), accogliete, cioè, la lieta novella dell’amore, dell’adozione a figli di Dio e, quindi, della fratellanza.

Perché la Chiesa ripropone questo tema e questo invito? L’ansia di conoscere meglio e di comprendere l’uomo d’oggi e il mondo contemporaneo, di decifrarne l’enigma e di svelarne il mistero, di discernere i fermenti di bene o di male che vi si agitano, da non poco tempo ormai porta molti a rivolgere a questo uomo e a questo mondo uno sguardo interrogativo. È lo sguardo dello storico e del sociologo, del filosofo e del teologo, dello psicologo e dell’umanista, del poeta e del mistico: è, soprattutto, lo sguardo preoccupato, eppur carico di speranza, del pastore.

Un tale sguardo si rivela in maniera esemplare in ciascuna pagina dell’importante costituzione pastorale del Concilio Vaticano II «Gaudium et Spes» sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, particolarmente nella sua ampia e penetrante introduzione. Esso si rivela, altresí, in taluni documenti emanati dalla sapienza e dalla carità pastorale dei miei venerati predecessori, i cui luminosi pontificati furono segnati dall’evento storico e profetico di quel Concilio ecumenico.

Come gli altri sguardi, anche quello del pastore scorge, purtroppo, fra diverse caratteristiche del mondo e dell’umanità del nostro tempo, l’esistenza di numerose, profonde e dolorose divisioni.

 

Un mondo frantumato

2. Queste divisioni si manifestano nei rapporti fra le persone e fra i gruppi, ma anche a livello delle piú vaste collettività: nazioni contro nazioni, e blocchi di paesi contrapposti, in un’affannosa ricerca di egemonia. Alla radice delle rotture non è difficile individuare conflitti che, anziché risolversi mediante il dialogo, si acuiscono nel confronto e nel contrasto.

Indagando sugli elementi generatori di divisione, attenti osservatori ne riscontrano i piú svariati: dalla crescente sperequazione tra gruppi, classi sociali e paesi agli antagonismi ideologici tutt’altro che spenti; dalla contrapposizione degli interessi economici alle polarizzazioni politiche; dalle divergenze tribali alle discriminazioni per motivi socio-religiosi. Del resto, alcune realtà che sono sotto gli occhi di tutti costituiscono come il volto pietoso della divisione, di cui sono frutto, e ne fanno rilevare la gravità con inconfutabile concretezza. Si possono ricordare, fra tanti altri dolorosi fenomeni sociali del nostro tempo:

1) il calpestamento dei diritti fondamentali della persona umana, primo fra essi il diritto alla vita e a una degna qualità di vita;

2) il che è tanto piú scandaloso, in quanto coesiste con una retorica non mai prima conosciuta circa gli stessi diritti;

3) le insidie e pressioni contro la libertà dei singoli e delle collettività, non esclusa, anzi piú offesa e minacciata, la libertà di avere, di professare e di praticare la propria fede;

4) le varie forme di discriminazione: razziale, culturale, religiosa ecc.;

5) la violenza e il terrorismo;

6) l’uso della tortura e le forme ingiuste e illegittime di repressione;

7) l’accumulo delle armi convenzionali o atomiche, la corsa agli armamenti, con spese belliche che potrebbero servire a sollevare l’immeritata miseria di popoli socialmente ed economicamente depressi;

8) l’iniqua distribuzione delle risorse del mondo e dei beni della civiltà, che tocca il suo vertice in un tipo di organizzazione sociale, per cui la distanza fra le condizioni umane dei ricchi e dei poveri si accresce sempre di piú. La potenza travolgente di questa divisione fa del mondo, in cui viviamo, un mondo frantumato fin nelle sue fondamenta.

D’altra parte, poiché la Chiesa, senza identificarsi col mondo né essere del mondo, è inserita nel mondo ed è in dialogo col mondo, non è da meravigliarsi se si avvertono nella sua stessa compagine ripercussioni e segni della divisione che ferisce l’umana società. Oltre alle scissioni tra le comunioni cristiane che la affliggono da secoli, la Chiesa sperimenta oggi qua e là nel suo seno divisioni fra le sue stesse componenti, causate dalla diversità di vedute e di scelte nel campo dottrinale e pastorale. Anche queste divisioni possono a volte sembrare inguaribili.

Per quanto tali lacerazioni già ad un primo sguardo appaiano impressionanti, soltanto osservando in profondità si riesce a individuare la loro radice: questa si trova in una ferita nell’intimo dell’uomo. Alla luce della fede noi la chiamiamo il peccato: cominciando dal peccato originale, che ciascuno porta dalla nascita come un’eredità ricevuta dai progenitori, fino al peccato che ciascuno commette, abusando della propria libertà.

 

Nostalgia di riconciliazione

3. Eppure, lo stesso sguardo indagatore, se è sufficientemente acuto, coglie nel vivo della divisione un inconfondibile desiderio da parte degli uomini di buona volontà e dei veri cristiani di ricomporre le fratture, di rimarginare le lacerazioni, di instaurare, a tutti i livelli, un’essenziale unità. Tale desiderio comporta in molti una vera nostalgia di riconciliazione, pur se questa parola non è usata.

Per taluni si tratta quasi di un’utopia, che potrebbe diventare la leva ideale per un vero mutamento della società; per altri, invece, è oggetto di un’ardua conquista e, quindi, un traguardo da raggiungere con un serio impegno di riflessione e di azione. In ogni caso, l’aspirazione a una riconciliazione sincera e consistente è, senza ombra di dubbio, un motivo fondamentale della nostra società, quasi riflesso di un’incoercibile volontà di pace; lo è - anche se ciò è paradossale - tanto vigorosamente, quanto pericolosi sono gli stessi fattori di divisione.

Tuttavia, la riconciliazione non può essere meno profonda di quanto non sia la divisione. La nostalgia della riconciliazione e la riconciliazione stessa saranno piene ed efficaci nella misura in cui giungeranno - per guarirla - a quella lacerazione primigenia, che è radice di tutte le altre ed è il peccato.

 

Lo sguardo del Sinodo

4. Pertanto, ogni istituzione o organizzazione, volta a servire l’uomo e interessata a salvarlo nelle sue dimensioni fondamentali, deve rivolgere uno sguardo penetrante alla riconciliazione, per approfondirne il significato e la piena portata e trarne le necessarie conseguenze operative.

A questo sguardo non poteva rinunciare la Chiesa di Gesú Cristo. Con dedizione di madre e intelligenza di maestra, essa si applica, premurosa e attenta, a raccogliere dalla società, con i segni della divisione, anche quelli non meno eloquenti e significativi della ricerca di una riconciliazione. Essa, infatti, sa che specialmente a lei è stata data la possibilità e assegnata la missione di far conoscere il senso vero, profondamente religioso, e le dimensioni integrali della riconciliazione, contribuendo, già solo per questo, a chiarire i termini essenziali della questione dell’unità e della pace.

I miei predecessori non hanno cessato di predicare la riconciliazione, di invitare ad essa l’intera umanità, nonché ogni ceto e ogni porzione della comunità umana che vedevano lacerata e divisa. E io stesso, per un impulso interiore che obbediva a un tempo - ne son certo - all’ispirazione dall’alto e agli appelli dell’umanità, in due modi diversi, ambedue solenni e impegnativi, ho voluto mettere a fuoco il tema della riconciliazione: in primo luogo, convocando la VI Assemblea generale del Sinodo dei vescovi; in secondo luogo, facendo della riconciliazione il centro dell’anno giubilare, indetto per celebrare il 1950° anniversario della redenzione. Dovendo assegnare un tema al Sinodo, mi sono trovato pienamente consenziente con quello suggerito da numerosi miei fratelli nell’episcopato, cioè quello, tanto fecondo, della riconciliazione in stretto collegamento con quello della penitenza.

Il termine e il concetto stesso di penitenza sono assai complessi. Se la colleghiamo alla metanoia, a cui si riferiscono i sinottici, allora la penitenza significa l’intimo cambiamento del cuore sotto l’influsso della parola di Dio e nella prospettiva del Regno. Ma penitenza vuol dire anche cambiare la vita in coerenza col cambiamento del cuore, e in questo senso il fare penitenza si completa col fare degni frutti di penitenza: è tutta l’esistenza che diventa penitenziale, tesa cioè a un continuo cammino verso il meglio. Fare penitenza, però, è qualcosa di autentico ed efficace soltanto se si traduce in atti e gesti di penitenza. In questo senso, penitenza significa, nel vocabolario cristiano teologico e spirituale, l’ascesi, vale a dire lo sforzo concreto e quotidiano dell’uomo, sorretto dalla grazia di Dio, per perdere la propria vita per Cristo, quale unico modo di guadagnarla; per spogliarsi del vecchio uomo e rivestirsi del nuovo; per superare in se stesso ciò che è carnale, affinché prevalga ciò che è spirituale; per innalzarsi continuamente dalle cose di quaggiú a quelle di lassú, dove è Cristo. La penitenza, pertanto, è la conversione che passa dal cuore alle opere e, quindi, all’intera vita del cristiano.

In ciascuno di questi significati la penitenza è strettamente congiunta alla riconciliazione, poiché il riconciliarsi con Dio, con se stessi e con gli altri suppone che si sconfigga la rottura radicale, che è il peccato; il che si realizza soltanto attraverso la trasformazione interiore o conversione, che fruttifica nella vita mediante gli atti di penitenza.

Il documento-base del Sinodo (chiamato anche «Lineamenta»), preparato all’unico scopo di presentare il tema accentuandone alcuni aspetti fondamentali, ha consentito alle comunità ecclesiali, ovunque esistenti nel mondo, di riflettere per quasi due anni su questi aspetti di una questione - quella della conversione e della riconciliazione - che interessa tutti, e di trarne, altresí, un rinnovato slancio per la vita e l’apostolato cristiano. La riflessione si è ulteriormente approfondita, in preparazione piú immediata ai lavori sinodali, grazie all’«Instrumentum laboris», inviato tempestivamente ai vescovi e ai loro collaboratori. Infine, per un mese intero, i padri sinodali, assistiti da quanti furono chiamati all’assise propriamente detta, hanno trattato con grande senso di responsabilità il tema stesso e le questioni, numerose e svariate, ad esso connesse. Dal dibattito, dallo studio comune, dall’assidua e accurata ricerca è scaturito un ampio e prezioso tesoro, che le «Propositiones» finali riassumono nella sua sostanza.

Lo sguardo del Sinodo non ignora gli atti di riconciliazione (alcuni dei quali passano quasi inosservati nella loro quotidianità), che pur in varia misura servono a risolvere le tante tensioni, a superare i tanti conflitti e a vincere le piccole e grandi divisioni, rifacendo l’unità. Ma la preoccupazione principale del Sinodo era quella di trovare, nel profondo di questi atti sparsi, la radice nascosta, una riconciliazione, per cosí dire, «fontale», operante nel cuore e nella coscienza dell’uomo.

Il carisma e, nel contempo, l’originalità della Chiesa, per quanto riguarda la riconciliazione, a qualunque livello sia da effettuare, risiedono nel fatto che essa risale sempre a quella riconciliazione fontale. In forza, infatti, della sua missione essenziale, la Chiesa sente il dovere di giungere fino alle radici della lacerazione primigenia del peccato, per operarvi il risanamento e ristabilirvi, per cosí dire, una riconciliazione anch’essa primigenia, che sia principio efficace di ogni vera riconciliazione. Questo la Chiesa ha avuto in vista e ha proposto mediante il Sinodo.

Di questa riconciliazione parla la Sacra Scrittura, invitandoci a fare per essa tutti gli sforzi (2Cor 5,20); ma dice, altresí, che essa è, anzitutto, un dono misericordioso di Dio all’uomo (Rm 5,11). La storia della salvezza - quella dell’intera umanità, come quella di ciascun uomo, in qualsiasi tempo - è la storia mirabile di una riconciliazione: quella per cui Dio, che è Padre, nel sangue e nella croce del suo Figlio fatto uomo ha riconciliato con sé il mondo, facendo nascere cosí una nuova famiglia di riconciliati.

La riconciliazione si fa necessaria, perché c’è stata la rottura del peccato, dalla quale sono derivate tutte le altre forme di rottura nell’intimo dell’uomo e intorno a lui. La riconciliazione, dunque, per essere piena, esige necessariamente la liberazione dal peccato, rifiutato nelle sue piú profonde radici. Perciò, uno stretto legame interno unisce conversione e riconciliazione: è impossibile disgiungere le due realtà, o parlare dell’una tacendo dell’altra.

Al tempo stesso, il Sinodo ha parlato della riconciliazione di tutta la famiglia umana e della conversione del cuore di ogni persona, del suo ritorno a Dio, volendo riconoscere e proclamare che l’unione degli uomini non può darsi senza un cambiamento interno di ciascuno. La conversione personale è la via necessaria alla concordia fra le persone («Gaudium et Spes», 10). Quando la Chiesa proclama la lieta novella della riconciliazione, o propone di realizzarla attraverso i sacramenti, esercita un vero ruolo profetico, denunciando i mali dell’uomo nella loro sorgente contaminata, indicando la radice delle divisioni e infondendo la speranza di poter superare le tensioni e i conflitti per giungere alla fratellanza, alla concordia e alla pace a tutti i livelli e in tutti i ceti dell’umana società. Essa cambia una condizione storica di odio e di violenza in una civiltà di amore. Essa offre a tutti il principio evangelico e sacramentale di quella riconciliazione «fontale», dalla quale scaturisce ogni altro gesto o atto di riconciliazione, anche a livello sociale.

Di tale riconciliazione, frutto della conversione, tratta la presente esortazione. Infatti, come era accaduto al termine delle tre precedenti assemblee del Sinodo, gli stessi padri hanno voluto anche questa volta consegnare al vescovo di Roma, pastore universale della Chiesa e capo del collegio episcopale, nella sua qualità di presidente del Sinodo, le conclusioni del loro lavoro. Ho accettato, come un grave e grato dovere del mio ministero, il compito di attingere all’ingente dovizia del Sinodo per offrire al popolo di Dio, quale frutto del Sinodo stesso, un messaggio dottrinale e pastorale sul tema della penitenza e riconciliazione. Tratterò, pertanto, nella prima parte, della Chiesa nel compimento della sua missione riconciliatrice, nell’opera di conversione dei cuori per il rinnovato abbraccio fra l’uomo e Dio, fra l’uomo e il suo fratello, fra l’uomo e tutto il creato. Nella seconda parte sarà indicata la causa radicale di ogni lacerazione o divisione fra gli uomini e, prima di tutto, nei confronti di Dio: il peccato. Infine, segnalerò quei mezzi che consentono alla Chiesa di promuovere e di suscitare la piena riconciliazione degli uomini con Dio e, di conseguenza, degli uomini fra di loro.

Il documento, che ora consegno ai figli della Chiesa, ma anche a tutti coloro che, credenti o no, ad essa guardano con interesse e animo sincero, vuol essere una doverosa risposta a quanto il Sinodo mi ha chiesto. Ma è anche - tengo a dichiararlo per soddisfare un debito di verità e di giustizia - opera del medesimo Sinodo. Il contenuto di queste pagine, infatti, proviene da esso: dalla sua lontana o prossima preparazione, dall’«Instrumentum laboris», dagli interventi nell’aula sinodale e nei «circuli minores» e, soprattutto, dalle sessantatre «Propositiones». Si trova qui il frutto del lavoro congiunto dei padri, tra i quali non mancavano i rappresentanti delle Chiese orientali, il cui patrimonio teologico, spirituale e liturgico è cosí ricco e venerando anche in ordine alla materia che qui ci interessa. Inoltre, il consiglio della segreteria del Sinodo ha valutato in due importanti sedute i risultati e gli orientamenti dell’assise sinodale appena conclusa, ha messo in evidenza la dinamica delle suddette «Propositiones» e ha tracciato, poi, le linee ritenute piú idonee per la stesura del presente documento. Sono grato a tutti coloro che hanno compiuto questo lavoro, mentre, fedele alla mia missione, voglio qui trasmettere ciò che, nel tesoro dottrinale e pastorale del Sinodo, mi appare provvidenziale per la vita di tanti uomini in quest’ora magnifica e difficile della storia.

Giova farlo - e risulta quanto mai significativo - mentre è ancor vivo il ricordo dell’anno santo, interamente vissuto nel segno della penitenza, conversione e riconciliazione. Che questa mia esortazione, affidata ai fratelli nell’episcopato e ai loro collaboratori presbiteri e diaconi, ai religiosi e religiose, a tutti i fedeli, agli uomini e alle donne di retta coscienza, possa essere non soltanto uno strumento di purificazione, di arricchimento e approfondimento della propria fede personale, ma anche un lievito capace di far crescere nel cuore del mondo la pace e la fratellanza, la speranza e la gioia, valori che scaturiscono dal Vangelo accolto, meditato e vissuto giorno per giorno sull’esempio di Maria, madre del Signore nostro Gesú Cristo, per mezzo del quale piacque a Dio riconciliare a sé tutte le cose.

 

 

 

 

 

PRIMA PARTE

CONVERSIONE E RICONCILIAZIONE COMPITO E IMPEGNO DELLA CHIESA

I.

UNA PARABOLA DELLA RICONCILIAZIONE

 

5. All’inizio di questa esortazione apostolica si presenta al mio spirito la straordinaria pagina di san Luca, che ho già cercato di illustrare in un precedente mio documento. Mi riferisco alla parabola del figlio prodigo.

 

Dal fratello che era perduto...

«Un uomo aveva due figli. Il piú giovane disse al padre: “Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta”», racconta Gesú nel mettere a fuoco la drammatica vicenda di quel giovane: l’avventurosa partenza dalla casa paterna, lo sperpero di tutti i suoi beni in una vita dissoluta e vuota, i giorni tenebrosi della lontananza e della fame, ma, piú ancora, della dignità perduta, dell’umiliazione e della vergogna, e infine, la nostalgia della propria casa, il coraggio di ritornarvi, l’accoglienza del padre. Questi non aveva certo dimenticato il figlio, anzi gli aveva conservato intatti l’affetto e la stima. Cosí l’aveva sempre atteso e ora lo abbraccia, mentre dà il via alla grande festa del ritorno di «colui che era morto ed è risuscitato, era perduto ed è stato ritrovato».

L’uomo - ogni uomo - è questo figlio prodigo: ammaliato dalla tentazione di separarsi dal Padre per vivere indipendentemente la propria esistenza; caduto nella tentazione; deluso dal nulla che, come miraggio, lo aveva affascinato; solo, disonorato, sfruttato allorché cerca di costruirsi un mondo tutto per sé; travagliato, anche nel fondo della propria miseria, dal desiderio di tornare alla comunione col Padre. Come il padre della parabola, Dio spia il ritorno del figlio, lo abbraccia al suo arrivo e imbandisce la tavola per il banchetto del nuovo incontro, col quale si festeggia la riconciliazione.

Ciò che piú spicca nella parabola è l’accoglienza festosa e amorosa del padre al figlio che ritorna: segno della misericordia di Dio, sempre pronto al perdono. Diciamolo subito: la riconciliazione è principalmente un dono del Padre celeste.

 

...al fratello rimasto a casa

6. Ma la parabola mette in scena anche il fratello maggiore, che rifiuta il suo posto nel banchetto. Egli rinfaccia al fratello piú giovane i suoi sbandamenti e al padre l’accoglienza che gli ha riservato, mentre a lui, temperante e laborioso, fedele al padre e alla casa, non è stato mai concesso - dice - di far festa con gli amici. Segno che egli non capisce la bontà del padre. Fintantoché questo fratello, troppo sicuro di se stesso e dei propri meriti, geloso e sprezzante, colmo di amarezza e di rabbia, non si converte e non si riconcilia col padre e col fratello, il banchetto non è ancora pienamente la festa dell’incontro e del ritrovamento.

L’uomo - ogni uomo - è anche questo fratello maggiore. L’egoismo lo rende geloso, gli indurisce il cuore, lo acceca e lo chiude agli altri e a Dio. La benignità e misericordia del padre lo irritano e indispettiscono; la felicità del fratello ritrovato ha per lui un sapore amaro. Anche sotto questo aspetto egli ha bisogno di convertirsi per riconciliarsi.

La parabola del figlio prodigo è, anzitutto, l’ineffabile storia del grande amore di un Padre - Dio - che offre al figlio, tornato a lui, il dono della piena riconciliazione. Ma essa, nell’evocare, con la figura del fratello maggiore, l’egoismo che divide fra di loro i fratelli, diventa anche la storia della famiglia umana: segna la nostra situazione e indica la via da percorrere. Il figlio prodigo, nella sua ansia di conversione, di ritorno fra le braccia del padre e di perdono, raffigura coloro che avvertono nel fondo della propria coscienza la nostalgia di una riconciliazione a tutti i livelli e senza riserva, e intuiscono con intima certezza che questa è possibile soltanto se deriva da una prima e fondamentale riconciliazione: quella che porta l’uomo dalla lontananza all’amicizia filiale con Dio, del quale riconosce l’infinita misericordia. Letta però nella prospettiva dell’altro figlio, la parabola dipinge la situazione della famiglia umana divisa dagli egoismi, mette in luce la difficoltà di assecondare il desiderio e la nostalgia di una medesima famiglia riconciliata e unita; richiama, pertanto, la necessità di una profonda trasformazione dei cuori nella riscoperta della misericordia del Padre e nella vittoria sull’incomprensione e l’ostilità tra fratelli.

Alla luce di questa inesauribile parabola della misericordia che cancella il peccato, la Chiesa, accogliendo l’appello in essa contenuto, comprende la sua missione di operare, sulle orme del Signore, per la conversione dei cuori e per la riconciliazione degli uomini con Dio e fra di loro, due realtà, queste, intimamente connesse.

 

 

 

II.

ALLE FONTI DELLA RICONCILIAZIONE

 

Nella luce di Cristo riconciliatore

7. Come si deduce dalla parabola del figlio prodigo, la riconciliazione è un dono di Dio e una sua iniziativa. Ma la nostra fede ci insegna che questa iniziativa si concretizza nel mistero di Cristo redentore, riconciliatore, liberatore dell’uomo dal peccato sotto tutte le sue forme. Lo stesso san Paolo non esita a riassumere in tale compito e funzione l’incomparabile missione di Gesú di Nazaret, Verbo e Figlio di Dio fatto uomo.

Anche noi possiamo partire da questo mistero centrale dell’economia della salvezza, punto-chiave della cristologia dell’Apostolo. «Se mentre eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, - egli scrive ai Romani - molto piú, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio per mezzo del Signore nostro Gesú Cristo, dal quale ora abbiamo ottenuto la riconciliazione» (Rm 5,10 s.). Poiché dunque «Dio ci ha riconciliati con sé per mezzo di Cristo», Paolo si sente ispirato ad esortare i cristiani di Corinto: «Lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,18.20).

Di tale missione riconciliatrice mediante la morte sulla croce, parlava in altri termini l’evangelista Giovanni nell’osservare che Cristo doveva morire «per riunire insieme i figli di Dio, che erano dispersi» (Gv 11,52).

Ma ancora san Paolo ci consente di allargare la nostra visione dell’opera di Cristo a dimensioni cosmiche, quando scrive che in lui il Padre ha riconciliato con sé tutte le creature, quelle del cielo e quelle della terra. Giustamente si può dire di Cristo redentore che «nel tempo dell’ira è stato fatto riconciliazione», e che, se egli è «la nostra pace» (Ef 2,14), è anche la nostra riconciliazione.

Ben a ragione la sua passione e morte, sacramentalmente rinnovate nell’eucaristia, vengono chiamate dalla liturgia «sacrificio di riconciliazione» («Prex Eucharistica III»): riconciliazione con Dio e con i fratelli, se Gesú stesso insegna che la riconciliazione fraterna deve operarsi prima del sacrificio. È legittimo, dunque, partendo da questi e da altri significativi passi neo-testamentari, far convergere le riflessioni sull’intero mistero di Cristo intorno alla sua missione di riconciliatore. È pertanto da proclamare ancora una volta la fede della Chiesa nell’atto redentivo di Cristo, nel mistero pasquale della sua morte e risurrezione, come causa della riconciliazione dell’uomo, nel suo duplice aspetto di liberazione dal peccato e di comunione di grazia con Dio.

E proprio dinanzi al quadro doloroso delle divisioni e delle difficoltà della riconciliazione fra gli uomini, invito a guardare al «mysterium crucis» come al piú alto dramma, nel quale Cristo percepisce e soffre fino in fondo il dramma stesso della divisione dell’uomo da Dio, sí da gridare con le parole del salmista: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46; Mc 15,34; Sal 22,2), e attua, nello stesso tempo, la nostra riconciliazione. Lo sguardo fisso al mistero del Golgota deve farci ricordare sempre quella dimensione «verticale» della divisione e della riconciliazione riguardante il rapporto uomo-Dio, che in una visione di fede prevale sempre sulla dimensione «orizzontale», cioè sulla realtà della divisione e sulla necessità della riconciliazione tra gli uomini. Noi sappiamo, infatti, che una tale riconciliazione tra loro non è e non può essere che il frutto dell’atto redentivo di Cristo, morto e risorto per sconfiggere il regno del peccato, ristabilire l’alleanza con Dio e abbattere cosí il muro di separazione, che il peccato aveva innalzato tra gli uomini.

 

La Chiesa riconciliatrice

8. Ma - come diceva san Leone Magno parlando della passione di Cristo - «tutto quello che il Figlio di Dio ha fatto e ha insegnato per la riconciliazione del mondo, non lo conosciamo soltanto dalla storia delle sue azioni passate, ma lo sentiamo anche nell’efficacia di ciò che egli compie al presente». Sentiamo la riconciliazione, operata nella sua umanità, nell’efficacia dei sacri misteri celebrati dalla sua Chiesa, per la quale egli ha dato se stesso e che ha costituito segno e insieme strumento di salvezza.

Ciò afferma san Paolo, quando scrive che Dio ha dato agli apostoli di Cristo una partecipazione alla sua opera riconciliatrice. «Dio - egli dice - ci ha affidato il ministero della riconciliazione... e la parola della riconciliazione» (2Cor 5,18 s.).

Nelle mani e sulla bocca degli apostoli, suoi messaggeri, il Padre ha posto misericordiosamente un ministero di riconciliazione, che essi adempiono in maniera singolare, in virtú del potere di agire «in persona Christi». Ma anche a tutta la comunità dei credenti, all’intera compagine della Chiesa è affidata la parola di riconciliazione, il compito cioè di fare quanto è possibile per testimoniare la riconciliazione e per attuarla nel mondo.

Si può dire che anche il Concilio Vaticano II, nel definire la Chiesa come «sacramento, o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» e nel segnalare come sua funzione quella di ottenere la «piena unità in Cristo» per gli «uomini oggi piú strettamente congiunti da vari vincoli» («Lumen Gentium», 1), riconosceva che essa deve tendere soprattutto a riportare gli uomini alla piena riconciliazione. In intima connessione con la missione di Cristo, si può dunque riassumere la missione, pur ricca e complessa, della Chiesa nel compito per lei centrale della riconciliazione dell’uomo: con Dio, con se stesso, con i fratelli, con tutto il creato; e questo in modo permanente, perché - come ho detto altra volta - «la Chiesa è per sua natura sempre riconciliante».

Riconciliatrice è la Chiesa in quanto proclama il messaggio della riconciliazione, come ha sempre fatto nella sua storia dal Concilio apostolico di Gerusalemme fino all’ultimo Sinodo e al recente giubileo della redenzione. L’originalità di questa proclamazione sta nel fatto che per la Chiesa la riconciliazione è strettamente collegata alla conversione del cuore: questa è la via necessaria verso l’intesa fra gli esseri umani.

Riconciliatrice è la Chiesa anche in quanto mostra all’uomo le vie e gli offre i mezzi per la suddetta quadruplice riconciliazione. Le vie sono, appunto, quelle della conversione del cuore e della vittoria sul peccato, sia questo l’egoismo, l’ingiustizia, la prepotenza o lo sfruttamento altrui, l’attaccamento ai beni materiali o la ricerca sfrenata del piacere. I mezzi sono quelli del fedele e amoroso ascolto della parola di Dio, della preghiera personale e comunitaria e, soprattutto, dei sacramenti, veri segni e strumenti di riconciliazione, tra i quali eccelle, proprio sotto questo aspetto, quello che con ragione usiamo chiamare il sacramento della riconciliazione, o della penitenza, sul quale ritornerò in seguito.

 

La Chiesa riconciliata

9. Il mio venerato predecessore Paolo VI ha avuto il merito di mettere in chiaro che, per essere evangelizzatrice, la Chiesa deve cominciare col mostrarsi essa stessa evangelizzata, aperta cioè al pieno e integrale annuncio della buona novella di Gesú Cristo per ascoltarla e metterla in pratica. Anch’io, raccogliendo in un documento organico le riflessioni della IV assemblea generale del Sinodo, ho parlato di una Chiesa che si catechizza nella misura in cui è operatrice di catechesi.

Non esito ora a riprendere qui il confronto, per quanto si applica al tema che sto trattando, per affermare che la Chiesa, per essere riconciliatrice, deve cominciare con l’essere una Chiesa riconciliata. Sotto questa semplice e lineare espressione soggiace la convinzione che la Chiesa, per annunciare e proporre sempre piú efficacemente al mondo la riconciliazione, deve diventare sempre piú una comunità (fosse anche il «piccolo gregge» dei primi tempi) di discepoli di Cristo, uniti nell’impegno di convertirsi continuamente al Signore e di vivere come uomini nuovi nello spirito e nella pratica della riconciliazione.

Dinanzi ai nostri contemporanei, cosí sensibili alla prova delle concrete testimonianze di vita, la Chiesa è chiamata a dare l’esempio della riconciliazione anzitutto al suo interno; e per questo tutti dobbiamo operare per pacificare gli animi, moderare le tensioni, superare le divisioni, sanare le ferite eventualmente inferte tra fratelli, quando si acuisce il contrasto delle opzioni nel campo dell’opinabile, e cercare invece di essere uniti in ciò che è essenziale per la fede e la vita cristiana, secondo l’antica massima: «In dubiis libertas, in necessariis unitas, in omnibus caritas».

Secondo questo stesso criterio, la Chiesa deve attuare anche la sua dimensione ecumenica. Infatti, per essere interamente riconciliata, essa sa di dover proseguire nella ricerca dell’unità fra coloro che si onorano di chiamarsi cristiani, ma sono separati tra loro, anche come Chiese o Comunioni, e dalla Chiesa di Roma. Questa cerca un’unità che, per esser frutto ed espressione di vera riconciliazione, non intende fondarsi né sulla dissimulazione dei punti che dividono, né su compromessi tanto facili quanto superficiali e fragili. L’unità deve essere il risultato di una vera conversione di tutti, del perdono reciproco, del dialogo teologico e delle relazioni fraterne, della preghiera, della piena docilità all’azione dello Spirito Santo, che è anche Spirito di riconciliazione.

Infine la Chiesa, per dirsi pienamente riconciliata, sente di doversi impegnare sempre di piú nel portare il Vangelo a tutte le genti, promovendo il «dialogo della salvezza», a quei vasti ambienti dell’umanità nel mondo contemporaneo che non condividono la sua fede e che addirittura, a causa di un crescente secolarismo, prendono le distanze nei suoi riguardi e le oppongono una fredda indifferenza, quando non la osteggiano e perseguitano. A tutti la Chiesa sente di dover ripetere con san Paolo: «Lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20).

In ogni caso, la Chiesa promuove una riconciliazione nella verità, sapendo bene che non sono possibili né la riconciliazione né l’unità fuori o contro la verità.

 

 

 

III.

L’INIZIATIVA DI DIO E IL MINISTERO DELLA CHIESA

 

10. Comunità riconciliata e riconciliatrice, la Chiesa non può dimenticare che alle sorgenti del suo dono e della sua missione di riconciliazione si trova l’iniziativa, piena di amore compassionevole e di misericordia, di quel Dio che è amore e che per amore ha creato gli uomini: li ha creati, affinché vivano in amicizia con lui e in comunione fra di loro.

 

La riconciliazione viene da Dio

Dio è fedele al suo disegno eterno anche quando l’uomo, spinto dal maligno e trascinato dal suo orgoglio, abusa della libertà, datagli per amare e cercare generosamente il bene, rifiutando l’obbedienza al suo Signore e Padre; anche quando l’uomo, invece di rispondere con amore all’amore di Dio, gli si oppone come a un suo rivale, illudendosi e presumendo delle sue forze, con la conseguente rottura dei rapporti con colui che lo ha creato. Nonostante questa prevaricazione dell’uomo, Dio rimane fedele nell’amore. Certo, il racconto del giardino dell’Eden ci fa meditare sulle funeste conseguenze del rifiuto del Padre, che si traduce nel disordine interno all’uomo e nella rottura dell’armonia tra l’uomo e la donna, tra fratello e fratello. Anche la parabola evangelica dei due figli che si allontanano, in diverso modo, dal padre, scavando un abisso fra di loro, è significativa. Il rifiuto dell’amore paterno di Dio e dei suoi doni di amore è sempre alla radice delle divisioni dell’umanità.

Ma noi sappiamo che Dio, «ricco di misericordia» (Ef 2,4), come il padre della parabola, non chiude il cuore a nessuno dei suoi figli. Egli li attende, li cerca, li raggiunge là dove il rifiuto della comunione li imprigiona nell’isolamento e nella divisione, li chiama a raccogliersi intorno alla sua mensa, nella gioia della festa del perdono e della riconciliazione.

Questa iniziativa di Dio si concretizza e manifesta nell’atto redentivo di Cristo, che si irradia nel mondo mediante il ministero della Chiesa.

Infatti, secondo la nostra fede, il Verbo di Dio si è fatto carne ed è venuto ad abitare la terra degli uomini, è entrato nella storia del mondo, assumendola e ricapitolandola in sé. Egli ci ha rivelato che Dio è amore e ci ha dato il «comandamento nuovo» (Gv 13,34) dell’amore, comunicandoci al tempo stesso la certezza che la via dell’amore si dischiude a tutti gli uomini, cosicché non è vano lo sforzo per instaurare la fratellanza universale. Vincendo, con la sua morte sulla croce, il male e la potenza del peccato, con la sua obbedienza piena di amore egli ha portato la salvezza a tutti ed è diventato per tutti «riconciliazione». In lui Dio ha riconciliato l’uomo con sé.

La Chiesa, continuando l’annuncio di riconciliazione fatto risuonare da Cristo nei villaggi della Galilea e di tutta la Palestina, non cessa di invitare l’umanità intera a convertirsi e a credere alla buona novella. Essa parla in nome di Cristo, facendo suo l’appello dell’apostolo Paolo, che abbiamo già ricordato: «Noi fungiamo... da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: Lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20).

Chi accetta questo appello entra nell’economia della riconciliazione e fa l’esperienza della verità contenuta in quell’altro annuncio di san Paolo, secondo il quale Cristo «è nostra pace, egli che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia (...), facendo la pace per riconciliare tutti e due con Dio» (Ef 2,14-16). Se questo testo riguarda direttamente il superamento della divisione religiosa tra Israele, come popolo eletto dell’Antico Testamento, e gli altri popoli, chiamati tutti a far parte della nuova alleanza, esso contiene però l’affermazione della nuova universalità spirituale, voluta da Dio e operata da lui mediante il sacrificio del suo Figlio, il Verbo fatto uomo, senza limiti ed esclusioni di sorta, per tutti coloro che si convertono e credono a Cristo. Tutti, dunque, siamo chiamati a godere i frutti di questa riconciliazione voluta da Dio: ogni uomo, ogni popolo.

 

La Chiesa, grande sacramento di riconciliazione

11. La Chiesa ha la missione di annunciare questa riconciliazione e di esserne il sacramento nel mondo. Sacramento, cioè segno e strumento di riconciliazione, è la Chiesa a diversi titoli, di diverso valore, ma tutti convergenti nell’ottenere ciò che la divina iniziativa di misericordia vuol concedere agli uomini.

Lo è, anzitutto, per la sua stessa esistenza di comunità riconciliata, che testimonia e rappresenta nel mondo l’opera di Cristo. Lo è, poi, per il suo servizio di custode e di interprete della Sacra Scrittura, che è lieta novella di riconciliazione, in quanto fa conoscere di generazione in generazione il disegno d’amore di Dio e indica a ciascuno le vie dell’universale riconciliazione in Cristo. Lo è, infine, per i sette sacramenti, che in un modo proprio a ciascuno «fanno la Chiesa». Infatti, poiché commemorano e rinnovano il mistero della pasqua di Cristo, tutti i sacramenti sono sorgente di vita per la Chiesa e, nelle sue mani, sono strumento di conversione a Dio e di riconciliazione degli uomini.

 

Altre vie di riconciliazione

12. La missione riconciliatrice è propria di tutta la Chiesa, anche e soprattutto di quella già ammessa alla piena partecipazione della gloria divina con Maria vergine, con gli angeli e i santi, i quali contemplano e adorano il Dio tre volte santo. Chiesa del cielo, Chiesa della terra, Chiesa del purgatorio sono misteriosamente unite in questa cooperazione con Cristo nel riconciliare il mondo con Dio.

La prima via di questa azione salvifica è quella della preghiera. Senza dubbio la Vergine, madre di Cristo e della Chiesa, e i santi, giunti ormai alla fine del cammino terreno e in possesso della gloria di Dio, con la loro intercessione sostengono i loro fratelli pellegrini nel mondo, nell’impegno di conversione, di fede, di ripresa dopo ogni caduta, di azione per far crescere la comunione e la pace nella Chiesa e nel mondo. Nel mistero della comunione dei santi la riconciliazione universale si attua nella sua forma piú profonda e piú fruttuosa per la comune salvezza.

C’è poi un’altra via: quella della predicazione. Discepola dell’unico maestro Gesú Cristo, la Chiesa a sua volta, come madre e maestra, non si stanca di proporre agli uomini la riconciliazione e non esita a denunciare la malizia del peccato, a proclamare la necessità della conversione, a invitare e a chiedere agli uomini di «lasciarsi riconciliare». In realtà, è questa la sua missione profetica nel mondo d’oggi, come in quello di ieri: è la stessa missione del suo maestro e capo, Gesú. Come lui, la Chiesa adempirà sempre tale missione con sentimenti di amore misericordioso e porterà a tutti le parole del perdono e l’invito alla speranza, che vengono dalla croce.

C’è, ancora, la via spesso cosí difficile e aspra dell’azione pastorale per riportare ogni uomo - chiunque sia e dovunque si trovi - sul cammino, a volte lungo, del ritorno al Padre nella comunione con tutti i fratelli.

C’è, infine, la via della testimonianza, quasi sempre silenziosa, che nasce da una duplice consapevolezza della Chiesa: quella di essere in sé «indefettibilmente santa» («Lumen Gentium», 39), ma anche bisognosa di andare «di giorno in giorno purificandosi, fino a che Cristo se la faccia comparire dinanzi gloriosa, senza macchia né ruga», giacché, per i nostri peccati, talvolta «il suo volto rifulge meno» agli occhi di chi la guarda. Questa testimonianza non può non assumere due aspetti fondamentali: essere segno di quella carità universale che Gesú Cristo ha lasciato in eredità ai suoi seguaci, come prova dell’appartenenza al suo Regno; tradursi in fatti sempre nuovi di conversione e di riconciliazione all’interno e all’esterno della Chiesa col superamento delle tensioni, col perdono reciproco, con la crescita nello spirito di fraternità e di pace, da propagare nel mondo intero. Lungo questa via la Chiesa potrà operare validamente per far nascere quella che il mio predecessore Paolo VI chiamava la «civiltà dell’amore».

 

 

 

 

 

SECONDA PARTE

L’AMORE PIÚ GRANDE DEL PECCATO

 

Il dramma dell’uomo

13. Come scrive l’apostolo san Giovanni, «se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se riconosciamo i nostri peccati, egli che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati» (1Gv 1,8 s.). Queste parole ispirate, scritte agli albori della Chiesa, avviano meglio di qualsiasi altra espressione umana quel discorso sul peccato, che è strettamente connesso con quello sulla riconciliazione. Esse colgono il problema del peccato nel suo orizzonte antropologico, in quanto parte integrante della verità sull’uomo, ma lo inseriscono subito nell’orizzonte divino, nel quale il peccato è confrontato con la verità dell’amore divino, giusto, generoso e fedele, che si manifesta soprattutto col perdono e la redenzione. Perciò, lo stesso san Giovanni scrive poco oltre che «qualunque cosa (il nostro cuore) ci rimproveri, Dio è piú grande del nostro cuore» (1Gv 3,20).

Riconoscere il proprio peccato, anzi - andando ancora piú a fondo nella considerazione della propria personalità - riconoscersi peccatore, capace di peccato e portato al peccato, è il principio indispensabile del ritorno a Dio. È l’esperienza esemplare di Davide, che dopo «aver fatto male agli occhi del Signore», rimproverato dal profeta Natan, esclama: «Riconosco la mia colpa, il mio peccato mi sta sempre dinanzi. Contro di te, contro te solo ho peccato; quello che è male ai tuoi occhi io l’ho fatto» (Sal 51,5 s.). Del resto, Gesú mette sulla bocca e nel cuore del figlio prodigo quelle significative parole: «Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te» (Lc 15,18.21).

In realtà, riconciliarsi con Dio suppone e include il distaccarsi con lucidità e determinazione dal peccato, in cui si è caduti. Suppone e include, dunque, il fare penitenza nel senso piú completo del termine: pentirsi, manifestare il pentimento, assumere l’atteggiamento concreto del pentito, che è quello di chi si mette sulla via del ritorno al Padre. Questa è una legge generale, che ciascuno deve seguire nella situazione particolare in cui si trova. Il discorso sul peccato e sulla conversione, infatti, non può essere svolto solo in termini astratti.

Nella condizione concreta dell’uomo peccatore, in cui non può esservi conversione senza riconoscimento del proprio peccato, il ministero di riconciliazione della Chiesa interviene in ogni caso con una finalità schiettamente penitenziale, cioè per riportare l’uomo al «cognoscimento di sé», secondo l’espressione di santa Caterina da Siena, al distacco dal male, al ristabilimento dell’amicizia con Dio, al riordinamento interiore, alla nuova conversione ecclesiale. Anzi, oltre l’ambito della Chiesa e dei credenti, il messaggio e il ministero della penitenza sono rivolti a tutti gli uomini, perché tutti hanno bisogno di conversione e di riconciliazione.

Per adempiere adeguatamente tale ministero penitenziale, è necessario anche valutare, con gli «occhi illuminati» della fede, le conseguenze del peccato, che sono motivo di divisione e di rottura non solo all’interno di ogni uomo, ma anche nelle varie cerchie in cui egli vive: familiare, ambientale, professionale, sociale, come tante volte si può sperimentalmente constatare, a conferma della pagina biblica riguardante la città di Babele e la sua torre. Intenti a costruire ciò che doveva essere a un tempo simbolo e focolare di unità, quegli uomini si ritrovarono piú dispersi di prima, confusi nel linguaggio, divisi tra loro, incapaci di consenso e di convergenza.

Perché fallí l’ambizioso progetto? Perché «si affaticarono invano i costruttori»? Perché gli uomini avevano posto quale segno e garanzia dell’auspicata unità soltanto un’opera delle loro mani, dimentichi dell’azione del Signore. Essi avevano puntato sulla sola dimensione orizzontale del lavoro e della vita sociale, noncuranti di quella verticale, per la quale si sarebbero trovati radicati in Dio, loro Creatore e Signore, e protesi verso di lui come fine ultimo del loro cammino.

Ora si può dire che il dramma dell’uomo d’oggi, come dell’uomo di tutti i tempi, consista proprio nel suo carattere babelico.

 

 

 

I.

IL MISTERO DEL PECCATO

 

14. Se leggiamo la pagina biblica della città e della torre di Babele alla luce della novità evangelica, e la confrontiamo con l’altra pagina della caduta dei progenitori, possiamo ricavarne preziosi elementi per una presa di coscienza del mistero del peccato. Questa espressione, nella quale echeggia ciò che san Paolo scrive circa il mistero dell’iniquità, tende a farci percepire quel che di oscuro e di inafferrabile si cela nel peccato. Questo, senza dubbio, è opera della libertà dell’uomo; ma dentro il suo stesso spessore umano agiscono fattori, per i quali esso si situa al di là dell’umano, nella zona di confine dove la coscienza, la volontà e la sensibilità dell’uomo sono in contatto con le forze oscure che, secondo san Paolo, agiscono nel mondo fin quasi a signoreggiarlo.

 

La disobbedienza a Dio

Dalla narrazione biblica relativa alla costruzione della torre di Babele emerge un primo elemento, che ci aiuta a capire il peccato: gli uomini hanno preteso di edificare una città, riunirsi in una compagine sociale, esser forti e potenti senza Dio, se non proprio contro Dio. In questo senso, il racconto del primo peccato nell’Eden e il racconto di Babele, malgrado notevoli differenze di contenuto e di forma tra loro, hanno un punto di convergenza: in ambedue ci si trova di fronte a un’esclusione di Dio per l’opposizione frontale a un suo comandamento, per un gesto di rivalità nei suoi confronti, per l’ingannevole pretesa di essere «come lui» (Gen 3,5). Nel racconto di Babele l’esclusione di Dio non appare tanto in chiave di contrasto con lui, ma come dimenticanza e indifferenza di fronte a lui, quasi che Dio non meriti alcun interesse nell’ambito del disegno operativo e associativo dell’uomo. Ma in ambedue i casi viene troncato con violenza il rapporto con Dio. Nel caso dell’Eden appare in tutta la sua gravità e drammaticità ciò che costituisce l’essenza piú intima e piú oscura del peccato: la disobbedienza a Dio, alla sua legge, alla norma morale che egli ha dato all’uomo, scrivendogliela nel cuore e confermandola e perfezionandola con la rivelazione.

Esclusione di Dio, rottura con Dio, disobbedienza a Dio: lungo tutta la storia umana questo è stato ed è, sotto forme diverse, il peccato, che può giungere fino alla negazione di Dio e della sua esistenza: è il fenomeno chiamato ateismo. Disobbedienza dell’uomo, che - con un atto della sua libertà - non riconosce la signoria di Dio sulla sua vita, almeno in quel determinato momento in cui viola la sua legge.

 

La divisione tra i fratelli

15. Nelle narrazioni bibliche sopra ricordate la rottura con Dio sfocia drammaticamente nella divisione tra i fratelli. Nella descrizione del «primo peccato», la rottura con Jahvè spezza al tempo stesso il filo dell’amicizia che univa la famiglia umana, cosicché le pagine successive della Genesi ci mostrano l’uomo e la donna, che puntano quasi il dito accusatore l’uno contro l’altra; poi il fratello che, ostile al fratello, finisce col togliergli la vita. Secondo la narrazione dei fatti di Babele, la conseguenza del peccato è la frantumazione della famiglia umana, già cominciata col primo peccato e ora giunta all’estremo nella sua forma sociale.

Chi vuole indagare il mistero del peccato non può non considerare questa concatenazione di causa e di effetto. Come rottura con Dio, il peccato è l’atto di disobbedienza di una creatura che, almeno implicitamente, rifiuta colui dal quale è uscita e che la mantiene in vita; è, dunque, un atto suicida. Poiché col peccato l’uomo rifiuta di sottomettersi a Dio, anche il suo equilibrio interiore si rompe e proprio al suo interno scoppiano contraddizioni e conflitti. Cosí lacerato, l’uomo produce quasi inevitabilmente una lacerazione nel tessuto dei suoi rapporti con gli altri uomini e col mondo creato. È una legge e un fatto oggettivo, che hanno riscontro in tanti momenti della psicologia umana e della vita spirituale, come pure nella realtà della vita sociale, dov’è facile osservare le ripercussioni e i segni del disordine interiore.

Il mistero del peccato si compone di questa doppia ferita, che il peccatore apre nel suo proprio fianco e nel rapporto col prossimo. Perciò, si può parlare di peccato personale e sociale: ogni peccato è personale sotto un aspetto; sotto un altro aspetto, ogni peccato è sociale, in quanto e perché ha anche conseguenze sociali.

 

Peccato personale e peccato sociale

16. Il peccato, in senso vero e proprio, è sempre un atto della persona, perché è un atto di libertà di un singolo uomo, e non propriamente di un gruppo o di una comunità. Quest’uomo può essere condizionato, premuto, spinto da non pochi né lievi fattori esterni, come anche può essere soggetto a tendenze, tare, abitudini legate alla sua condizione personale. In non pochi casi tali fattori esterni e interni possono attenuare, in maggiore o minore misura, la sua libertà e, quindi, la sua responsabilità e colpevolezza. Ma è una verità di fede, confermata anche dalla nostra esperienza e ragione, che la persona umana è libera. Non si può ignorare questa verità, per scaricare su realtà esterne - le strutture, i sistemi, gli altri - il peccato dei singoli. Oltretutto, sarebbe questo un cancellare la dignità e la libertà della persona, che si rivelano - sia pure negativamente e disastrosamente - anche in tale responsabilità per il peccato commesso. Perciò, in ogni uomo non c’è nulla di tanto personale e intrasferibile quanto il merito della virtú o la responsabilità della colpa.

Atto della persona, il peccato ha le sue prime e piú importanti conseguenze nel peccatore stesso: cioè, nella relazione di questi con Dio, che è il fondamento stesso della vita umana; nel suo spirito, indebolendone la volontà e oscurandone l’intelligenza.

A questo punto dobbiamo chiederci a quale realtà si riferivano coloro che, nella preparazione del Sinodo e nel corso dei lavori sinodali, menzionarono con non poca frequenza il peccato sociale. L’espressione e il concetto, che ad essa è sotteso, hanno invero diversi significati.

Parlare di peccato sociale vuol dire, anzitutto, riconoscere che, in virtú di una solidarietà umana tanto misteriosa e impercettibile quanto reale e concreta, il peccato di ciascuno si ripercuote in qualche modo sugli altri. È, questa, l’altra faccia di quella solidarietà che, a livello religioso, si sviluppa nel profondo e magnifico mistero della comunione dei santi, grazie alla quale si è potuto dire che «ogni anima che si eleva, eleva il mondo». A questa legge dell’ascesa corrisponde, purtroppo, la legge della discesa, sicché si può parlare di una comunione del peccato, per cui un’anima che si abbassa per il peccato abbassa con sé la Chiesa e, in qualche modo, il mondo intero. In altri termini, non c’è alcun peccato, anche il piú intimo e segreto, il piú strettamente individuale, che riguardi esclusivamente colui che lo commette. Ogni peccato si ripercuote, con maggiore o minore veemenza, con maggiore o minore danno, su tutta la compagine ecclesiale e sull’intera famiglia umana. Secondo questa prima accezione, a ciascun peccato si può attribuire indiscutibilmente il carattere di peccato sociale.

Alcuni peccati, però, costituiscono, per il loro oggetto stesso, un’aggressione diretta al prossimo e - piú esattamente, in base al linguaggio evangelico - al fratello. Essi sono un’offesa a Dio, perché offendono il prossimo. A tali peccati si suole dare la qualifica di sociali, e questa è la seconda accezione del termine. In questo senso è sociale il peccato contro l’amore del prossimo, tanto piú grave nella legge di Cristo, perché è in gioco il secondo comandamento, che è «simile al primo». È egualmente sociale ogni peccato commesso contro la giustizia nei rapporti sia da persona a persona, sia dalla persona alla comunità, sia ancora dalla comunità alla persona. È sociale ogni peccato contro i diritti della persona umana, a cominciare dal diritto alla vita, non esclusa quella del nascituro, o contro l’integrità fisica di qualcuno; ogni peccato contro la libertà altrui, specialmente contro la suprema libertà di credere in Dio e di adorarlo; ogni peccato contro la dignità e l’onore del prossimo. Sociale è ogni peccato contro il bene comune e contro le sue esigenze, in tutta l’ampia sfera dei diritti e dei doveri dei cittadini. Sociale può essere il peccato di commissione o di omissione da parte di dirigenti politici, economici, sindacali, che, pur potendolo, non s’impegnano con saggezza nel miglioramento o nella trasformazione della società secondo le esigenze e le possibilità del momento storico; come pure da parte di lavoratori, che vengono meno ai loro doveri di presenza e di collaborazione, perché le aziende possano continuare a procurare il benessere a loro stessi, alle loro famiglie, all’intera società.

La terza accezione di peccato sociale riguarda i rapporti tra le varie comunità umane. Questi rapporti non sempre sono in sintonia col disegno di Dio, che vuole nel mondo giustizia, libertà e pace tra gli individui, i gruppi, i popoli. Cosí la lotta di classe, chiunque ne sia il responsabile e, a volte, il codificatore, è un male sociale. Cosí la contrapposizione ostinata dei blocchi di nazioni e di una nazione contro l’altra, dei gruppi contro altri gruppi in seno alla stessa nazione, è pure un male sociale. In ambedue i casi, ci si può chiedere se si possa attribuire a qualcuno la responsabilità morale di tali mali e, quindi, il peccato. Ora si deve ammettere che realtà e situazioni, come quelle indicate, nel loro generalizzarsi e persino ingigantirsi come fatti sociali, diventano quasi sempre anonime, come complesse e non sempre identificabili sono le loro cause. Perciò, se si parla di peccato sociale, qui l’espressione ha un significato evidentemente analogico. In ogni caso, il parlare di peccati sociali, sia pure in senso analogico, non deve indurre nessuno a sottovalutare la responsabilità dei singoli, ma vuol essere un richiamo alle coscienze di tutti, perché ciascuno si assuma le proprie responsabilità, per cambiare seriamente e coraggiosamente quelle nefaste realtà e quelle intollerabili situazioni.

Ciò premesso nel modo piú chiaro e inequivocabile, bisogna subito aggiungere che non è legittima e accettabile un’accezione del peccato sociale, pur molto ricorrente ai nostri giorni in alcuni ambienti, la quale nell’opporre, non senza ambiguità, peccato sociale a peccato personale, piú o meno inconsapevolmente conduca a stemperare e quasi a cancellare il personale, per ammettere solo colpe e responsabilità sociali. Secondo tale accezione, che rivela facilmente la sua derivazione da ideologie e sistemi non cristiani - forse accantonati oggi da coloro stessi che ne erano già i sostenitori ufficiali - praticamente ogni peccato sarebbe sociale, nel senso di essere imputabile non tanto alla coscienza morale di una persona, quanto ad una vaga entità e collettività anonima, che potrebbe essere la situazione, il sistema, la società, le strutture, l’istituzione.

Orbene la Chiesa, quando parla di situazioni di peccato o denuncia come peccati sociali certe situazioni o certi comportamenti collettivi di gruppi sociali piú o meno vasti, o addirittura di intere nazioni e blocchi di nazioni, sa e proclama che tali casi di peccato sociale sono il frutto, l’accumulazione e la concentrazione di molti peccati personali. Si tratta dei personalissimi peccati di chi genera o favorisce l’iniquità o la sfrutta; di chi, potendo fare qualcosa per evitare, o eliminare, o almeno limitare certi mali sociali, omette di farlo per pigrizia, per paura e omertà, per mascherata complicità o per indifferenza; di chi cerca rifugio nella presunta impossibilità di cambiare il mondo; e anche di chi pretende estraniarsi dalla fatica e dal sacrificio, accampando speciose ragioni di ordine superiore. Le vere responsabilità, dunque, sono delle persone.

Una situazione - e cosí un’istituzione, una struttura, una società - non è, di per sé, soggetto di atti morali; perciò, non può essere, in se stessa, buona o cattiva. Al fondo di ogni situazione di peccato si trovano sempre persone peccatrici. Ciò è tanto vero che, se tale situazione può essere cambiata nei suoi aspetti strutturali e istituzionali per la forza della legge o - come piú spesso avviene, purtroppo - per la legge della forza, in realtà il cambiamento si rivela incompleto, di poca durata e, in definitiva, vano e inefficace - per non dire controproducente -, se non si convertono le persone direttamente o indirettamente responsabili di tale situazione.

 

Mortale, veniale

17. Ma ecco, nel mistero del peccato, una nuova dimensione, sulla quale l’intelligenza dell’uomo non ha mai cessato di meditare: quella della sua gravità. È una questione inevitabile, alla quale la coscienza cristiana non ha mai rinunciato a dare una risposta: perché e in quale misura il peccato è grave nell’offesa che fa a Dio e nella sua ripercussione sull’uomo? La Chiesa ha una sua dottrina in proposito e la riafferma nei suoi elementi essenziali, pur sapendo che non sempre è facile, nella concretezza delle situazioni, operare nette delimitazioni di confini.

Già nell’Antico Testamento, per non pochi peccati - quelli commessi con deliberazione, le varie forme di impudicizia, di idolatria, di culto dei falsi dèi - si dichiarava che il reo doveva essere «eliminato dal suo popolo», ciò che poteva anche significare condannato a morte. Ad essi si contrapponevano altri peccati, soprattutto quelli commessi per ignoranza, che venivano perdonati mediante un sacrificio.

Anche in riferimento a quei testi la Chiesa, da secoli, costantemente parla di peccato mortale e di peccato veniale. Ma questa distinzione e questi termini ricevono luce soprattutto dal Nuovo Testamento, nel quale si trovano molti testi che enumerano e riprovano con forti espressioni i peccati particolarmente meritevoli di condanna, oltre alla conferma del Decalogo fatta da Gesú stesso. Voglio qui riferirmi specialmente a due pagine significative e impressionanti.

In un testo della sua prima lettera, san Giovanni parla di un peccato che conduce alla morte («pròs thánaton») in contrapposizione a un peccato che non conduce alla morte («mè pròs thánaton»). Ovviamente, qui il concetto di morte è spirituale: si tratta della perdita della vera vita o «vita eterna», che per Giovanni è la conoscenza del Padre e del Figlio, la comunione e l’intimità con loro. Il peccato che conduce alla morte sembra essere in quel brano la negazione del Figlio, o il culto di false divinità. Comunque, con tale distinzione di concetti Giovanni sembra voler accentuare l’incalcolabile gravità di ciò che è l’essenza del peccato, il rifiuto di Dio, che si attua soprattutto nell’apostasia e nell’idolatria, cioè nel ripudiare la fede nella verità rivelata e nell’equiparare a Dio certe realtà create, erigendole a idoli o falsi dèi. Ma l’apostolo in quella pagina intende anche mettere in luce la certezza che viene al cristiano dal fatto di essere «nato da Dio» per la venuta del Figlio: c’è in lui una forza che lo preserva dalla caduta nel peccato; Dio lo custodisce, «il maligno non lo tocca». Che se pecca per debolezza o per ignoranza, c’è in lui la speranza della remissione, anche per il sostegno che gli proviene dalla preghiera congiunta dei fratelli.

In un’altra pagina del Nuovo Testamento, nel Vangelo di Matteo (Mt 12,31 s.), Gesú stesso parla di una «bestemmia contro lo Spirito Santo», la quale è «irremissibile», poiché essa è nelle sue manifestazioni un ostinato rifiuto di conversione all’amore del Padre delle misericordie.

Si tratta, beninteso, di espressioni estreme e radicali: rifiuto di Dio, rifiuto della sua grazia e, quindi, opposizione al principio stesso della salvezza, per cui l’uomo sembra volontariamente precludersi la via della remissione. È da sperare che ben pochi vogliano ostinarsi fino alla fine in questo atteggiamento di ribellione o addirittura di sfida contro Dio, il quale, d’altra parte, nel suo amore misericordioso è piú grande del nostro cuore - come ci insegna ancora san Giovanni - e può vincere tutte le nostre resistenze psicologiche e spirituali, sicché - come scrive san Tommaso d’Aquino - «non c’è da disperare della salvezza di nessuno in questa vita, considerata l’onnipotenza e la misericordia di Dio».

Ma dinanzi al problema dell’incontro di una volontà ribelle col Dio infinitamente giusto non si può non nutrire sentimenti di salutare «timore e tremore», come suggerisce san Paolo; mentre l’ammonimento di Gesú circa il peccato che non è «remissibile» conferma l’esistenza di colpe, che possono attirare sul peccatore, come pena, la «morte eterna».

Alla luce di questi e altri testi della Sacra Scrittura, i dottori e i teologi, i maestri spirituali e i pastori hanno distinto i peccati in mortali e veniali. Sant’Agostino, fra gli altri, parla di «letalia» o «mortifera crimina», opponendoli a «venialia», «levia» o «quotidiana». Il significato che egli attribuisce a questi qualificativi influirà nel magistero successivo della Chiesa. Dopo di lui, sarà san Tommaso d’Aquino a formulare nei termini piú chiari possibili la dottrina divenuta costante nella Chiesa.

Nel definire e distinguere i peccati mortali e veniali, non poteva essere estraneo a san Tommaso e alla teologia del peccato, che si rifà a lui, il riferimento biblico e, quindi, il concetto di morte spirituale. Secondo il Dottore Angelico, per vivere spiritualmente l’uomo deve rimanere in comunione col supremo principio della vita, che è Dio, in quanto è il fine ultimo di tutto il suo essere e il suo agire. Ora il peccato è un disordine perpetrato dall’uomo contro questo principio vitale. E quando, «per mezzo del peccato, l’anima commette un disordine che va fino alla separazione dal fine ultimo - Dio -, al quale essa è legata per la carità, allora si ha il peccato mortale; invece, ogni volta che il disordine rimane al di qua della separazione da Dio, allora il peccato è veniale». Per questa ragione, il peccato veniale non priva della grazia santificante, dell’amicizia con Dio, della carità, né quindi della beatitudine eterna, mentre siffatta privazione è appunto conseguenza del peccato mortale.

Considerando, inoltre, il peccato sotto l’aspetto della pena che include, san Tommaso con altri dottori chiama mortale il peccato che, se non rimesso, fa contrarre una pena eterna; veniale il peccato che merita una semplice pena temporale (cioè parziale ed espiabile in terra o nel purgatorio).

Se poi si guarda alla materia del peccato, allora le idee di morte, di rottura radicale con Dio, sommo bene, di deviazione dalla strada che porta a Dio o di interruzione del cammino verso di lui (tutti modi di definire il peccato mortale) si congiungono con l’idea di gravità del contenuto oggettivo: perciò, il peccato grave si identifica praticamente, nella dottrina e nell’azione pastorale della Chiesa, col peccato mortale.

Cogliamo qui il nucleo dell’insegnamento tradizionale della Chiesa, ribadito spesso e con vigore nel corso del recente Sinodo. Questo, infatti, non soltanto ha riaffermato quanto è stato proclamato dal Concilio Tridentino sull’esistenza e la natura dei peccati mortali e veniali, ma ha voluto ricordare che è peccato mortale quello che ha per oggetto una materia grave e che, inoltre, viene commesso con piena consapevolezza e deliberato consenso. È doveroso aggiungere - come è stato anche fatto nel Sinodo - che alcuni peccati, quanto alla loro materia, sono intrinsecamente gravi e mortali. Esistono, cioè, atti che, per se stessi e in se stessi, indipendentemente dalle circostanze, sono sempre gravemente illeciti, in ragione del loro oggetto. Questi atti, se compiuti con sufficiente consapevolezza e libertà, sono sempre colpa grave.

Questa dottrina fondata sul Decalogo e sulla predicazione dell’Antico Testamento, ripresa nel kerigma degli apostoli e appartenente al piú antico insegnamento della Chiesa, che la ripete fino ad oggi, ha un preciso riscontro nell’esperienza umana di tutti i tempi. L’uomo sa bene, per esperienza, che nel cammino di fede e di giustizia che lo porta verso la conoscenza e l’amore di Dio in questa vita e verso la perfetta unione con lui nell’eternità, può sostare o distrarsi, senza però abbandonare la via di Dio: in questo caso si ha il peccato veniale, il quale, tuttavia, non dovrà essere attenuato quasi che sia automaticamente qualcosa di trascurabile o un «peccato di poco conto».

Sennonché l’uomo sa pure, per dolorosa esperienza, che con atto consapevole e libero della sua volontà può fare un’inversione di marcia, camminare nel senso opposto al volere di Dio e cosí allontanarsi da lui («aversio a Deo»), rifiutando la comunione di amore con lui, staccandosi dal principio di vita che è lui, e scegliendo, dunque, la morte.

Con tutta la tradizione della Chiesa noi chiamiamo peccato mortale questo atto, per il quale un uomo, con libertà e consapevolezza, rifiuta Dio, la sua legge, l’alleanza di amore che Dio gli propone, preferendo volgersi a se stesso, a qualche realtà creata e finita, a qualcosa di contrario al volere divino («conversio ad creaturam»). Il che può avvenire in modo diretto e formale, come nei peccati di idolatria, di apostasia, di ateismo; o in modo equivalente, come in tutte le disubbidienze ai comandamenti di Dio in materia grave. L’uomo sente che questa disubbidienza a Dio tronca il collegamento col suo principio vitale: è un peccato mortale, cioè un atto che offende gravemente Dio e finisce col rivolgersi contro l’uomo stesso con un’oscura e potente forza di distruzione.

Durante l’assemblea sinodale è stata proposta da alcuni padri una distinzione tripartita fra i peccati, che sarebbero da classificare come veniali, gravi e mortali. La tripartizione potrebbe mettere in luce il fatto che fra i peccati gravi esiste una gradazione. Ma resta sempre vero che la distinzione essenziale e decisiva è fra peccato che distrugge la carità e peccato che non uccide la vita soprannaturale: fra la vita e la morte non si dà via di mezzo.

Parimenti, si dovrà evitare di ridurre il peccato mortale a un atto di «opzione fondamentale» - come oggi si suol dire - contro Dio, intendendo con essa un esplicito e formale disprezzo di Dio o del prossimo. Si ha, infatti, peccato mortale anche quando l’uomo, sapendo e volendo, per qualsiasi ragione sceglie qualcosa di gravemente disordinato. In effetti, in una tale scelta è già contenuto un disprezzo del precetto divino, un rifiuto dell’amore di Dio verso l’umanità e tutta la creazione: l’uomo allontana se stesso da Dio e perde la carità. L’orientamento fondamentale, quindi, può essere radicalmente modificato da atti particolari. Senza dubbio si possono dare situazioni molto complesse e oscure sotto l’aspetto psicologico, che influiscono sulla imputabilità soggettiva del peccatore. Ma dalla considerazione della sfera psicologica non si può passare alla costituzione di una categoria teologica, qual è appunto l’«opzione fondamentale», intendendola in modo tale che, sul piano oggettivo, cambi o metta in dubbio la concezione tradizionale di peccato mortale.

Se è da apprezzare ogni tentativo sincero e prudente di chiarire il mistero psicologico e teologico del peccato, la Chiesa però ha il dovere di ricordare a tutti gli studiosi di questa materia la necessità, da una parte, di essere fedeli alla parola di Dio che ci istruisce anche sul peccato, e il rischio, dall’altra, che si corre di contribuire ad attenuare ancora di piú, nel mondo contemporaneo, il senso del peccato.

 

Perdita del senso del peccato

18. Dal Vangelo letto nella comunione ecclesiale la coscienza cristiana ha acquisito, lungo il corso delle generazioni, una fine sensibilità e un’acuta percezione dei fermenti di morte, che sono contenuti nel peccato. Sensibilità e capacità di percezione anche per individuare tali fermenti nelle mille forme assunte dal peccato, nei mille volti sotto i quali esso si presenta. È ciò che si suol chiamare il senso del peccato.

Questo senso ha la sua radice nella coscienza morale dell’uomo e ne è come il termometro. È legato al senso di Dio, giacché deriva dal rapporto consapevole che l’uomo ha con Dio come suo creatore, Signore e Padre. Perciò, come non si può cancellare completamente il senso di Dio né spegnere la coscienza, cosí non si cancella mai completamente il senso del peccato.

Eppure, non di rado nella storia, per periodi di tempo piú o meno lunghi e sotto l’influsso di molteplici fattori, succede che viene gravemente oscurata la coscienza morale in molti uomini. «Abbiamo noi un’idea giusta della coscienza»? - domandavo due anni fa in un colloquio con i fedeli -. «Non vive l’uomo contemporaneo sotto la minaccia di un’eclissi della coscienza? di una deformazione della coscienza? di un intorpidimento o di un’”anestesia” delle coscienze?». Troppi segni indicano che nel nostro tempo esiste una tale eclissi, che è tanto piú inquietante, in quanto questa coscienza, definita dal Concilio «il nucleo piú segreto e il sacrario dell’uomo» («Gaudium et Spes», 16), è «strettamente legata alla libertà dell’uomo (...). Per questo la coscienza in misura principale sta alla base della dignità interiore dell’uomo e, nello stesso tempo, del suo rapporto con Dio». È inevitabile, pertanto, che in questa situazione venga obnubilato anche il senso di Dio, il quale è strettamente connesso con la coscienza morale, con la ricerca della verità, con la volontà di fare un uso responsabile della libertà. Insieme con la coscienza viene oscurato anche il senso di Dio, e allora, smarrito questo decisivo punto di riferimento interiore, si perde il senso del peccato. Ecco perché il mio predecessore Pio XII, con una parola diventata quasi proverbiale, poté dichiarare un giorno che «il peccato del secolo è la perdita del senso del peccato».

Perché questo fenomeno nel nostro tempo? Uno sguardo a talune componenti della cultura contemporanea può aiutarci a capire il progressivo attenuarsi del senso del peccato, proprio a causa della crisi della coscienza e del senso di Dio, sopra rilevata.

Il «secolarismo», il quale, per la sua stessa natura e definizione, è un movimento di idee e di costumi che propugna un umanesimo che astrae totalmente da Dio, tutto concentrato nel culto del fare e del produrre e travolto nell’ebbrezza del consumo e del piacere, senza preoccupazione per il pericolo di «perdere la propria anima», non può non minare il senso del peccato. Quest’ultimo si ridurrà tutt’al piú a ciò che offende l’uomo. Ma proprio qui si impone l’amara esperienza, a cui già accennavo nella mia prima enciclica, che cioè l’uomo può costruire un mondo senza Dio, ma questo mondo finirà per ritorcersi contro l’uomo. In realtà, Dio è la radice e il fine supremo dell’uomo, e questi porta in sé un germe divino. Perciò, è la realtà di Dio che svela e illumina il mistero dell’uomo. È vano, quindi, sperare che prenda consistenza un senso del peccato nei confronti dell’uomo e dei valori umani, se manca il senso dell’offesa commessa contro Dio, cioè il senso vero del peccato.

Svanisce questo senso del peccato nella società contemporanea anche per gli equivoci in cui si cade nell’apprendere certi risultati delle scienze umane. Cosí in base a talune affermazioni della psicologia, la preoccupazione di non colpevolizzare o di non porre freni alla libertà, porta a non riconoscere mai una mancanza. Per un’indebita estrapolazione dei criteri della scienza sociologica si finisce - come ho già accennato - con lo scaricare sulla società tutte le colpe, di cui l’individuo vien dichiarato innocente. Anche una certa antropologia culturale, a sua volta a forza di ingrandire i pur innegabili condizionamenti e influssi ambientali e storici che agiscono sull’uomo, ne limita tanto la responsabilità da non riconoscergli la capacità di compiere veri atti umani e, quindi, la possibilità di peccare.

Scade facilmente il senso del peccato anche in dipendenza di un’etica derivante da un certo relativismo storicistico. Essa può essere l’etica che relativizza la norma morale, negando il suo valore assoluto e incondizionato, e negando, di conseguenza, che possano esistere atti intrinsecamente illeciti, indipendentemente dalle circostanze in cui sono posti dal soggetto. Si tratta di un vero «rovesciamento e di una caduta di valori morali», e «il problema non è tanto di ignoranza dell’etica cristiana», ma «piuttosto è quello del senso, dei fondamenti e dei criteri dell’atteggiamento morale». L’effetto di questo rovesciamento etico è sempre anche quello di attutire a tal punto la nozione di peccato, che si finisce quasi con l’affermare che il peccato c’è, ma non si sa chi lo commette.

Svanisce, infine, il senso del peccato quando - come può avvenire nell’insegnamento ai giovani, nelle comunicazioni di massa, nella stessa educazione familiare - esso viene erroneamente identificato col sentimento morboso della colpa o con la semplice trasgressione di norme e precetti legali.

La perdita del senso del peccato, dunque, è una forma o un frutto della negazione di Dio: non solo di quella ateistica, ma anche di quella secolaristica. Se il peccato è l’interruzione del rapporto filiale con Dio per portare la propria esistenza fuori dell’obbedienza a lui, allora peccare non è soltanto negare Dio; peccare è anche vivere come se egli non esistesse, è cancellarlo dal proprio quotidiano. Un modello di società mutilato o squilibrato nell’uno o nell’altro senso, quale è spesso sostenuto dai mezzi di comunicazione, favorisce non poco la progressiva perdita del senso del peccato. In tale situazione l’offuscamento o affievolimento del senso del peccato risulta sia dal rifiuto di ogni riferimento al trascendente in nome dell’aspirazione all’autonomia personale; sia dall’assoggettarsi a modelli etici imposti dal consenso e costume generale, anche se condannati dalla coscienza individuale; sia dalle drammatiche condizioni socio-economiche che opprimono tanta parte dell’umanità, generando la tendenza a vedere errori e colpe soltanto nell’ambito del sociale; sia, infine e soprattutto, dall’oscuramento dell’idea della paternità di Dio e del suo dominio sulla vita dell’uomo.

Persino nel campo del pensiero e della vita ecclesiale alcune tendenze favoriscono inevitabilmente il declino del senso del peccato. Alcuni, ad esempio, tendono a sostituire esagerati atteggiamenti del passato con altre esagerazioni: essi passano dal vedere il peccato dappertutto al non scorgerlo da nessuna parte; dall’accentuare troppo il timore delle pene eterne al predicare un amore di Dio, che escluderebbe ogni pena meritata dal peccato; dalla severità nello sforzo per correggere le coscienze erronee a un presunto rispetto della coscienza, tale da sopprimere il dovere di dire la verità. E perché non aggiungere che la confusione, creata nella coscienza di numerosi fedeli dalle divergenze di opinioni e di insegnamenti nella teologia, nella predicazione, nella catechesi, nella direzione spirituale, circa questioni gravi e delicate della morale cristiana, finisce per far diminuire, fin quasi a cancellarlo, il vero senso del peccato? Né vanno taciuti alcuni difetti nella prassi della penitenza sacramentale: tale è la tendenza a offuscare il significato ecclesiale del peccato e della conversione, riducendoli a fatti meramente individuali, o viceversa, ad annullare la valenza personale del bene e del male per considerarne esclusivamente la dimensione comunitaria; tale è anche il pericolo, non mai totalmente scongiurato, del ritualismo abitudinario che toglie al sacramento il suo pieno significato e la sua efficacia formativa.

Ristabilire il giusto senso del peccato è la prima forma per affrontare la grave crisi spirituale incombente sull’uomo del nostro tempo. Ma il senso del peccato si ristabilisce soltanto con un chiaro richiamo agli inderogabili principi di ragione e di fede, che la dottrina morale della Chiesa ha sempre sostenuto.

È lecito sperare che soprattutto nel mondo cristiano ed ecclesiale riaffiori un salutare senso del peccato. A ciò serviranno una buona catechesi, illuminata dalla teologia biblica dell’alleanza, un attento ascolto e una fiduciosa accoglienza del magistero della Chiesa, che non cessa di offrire luce alle coscienze, e una prassi sempre piú accurata del sacramento della penitenza.

 

 

 

II.

«MYSTERIUM PIETATIS»

 

19. Per conoscere il peccato era necessario fissare lo sguardo sulla sua natura, quale ci è fatta conoscere dalla rivelazione dell’economia della salvezza; esso è «mysterium iniquitatis». Ma in questa economia il peccato non è protagonista né, tantomeno, vincitore. Esso contrasta come antagonista con un altro principio operante, che - usando una bella e suggestiva espressione di san Paolo - possiamo chiamare il «mysterium», o «sacramentum pietatis». Il peccato dell’uomo sarebbe vincente e alla fine distruttivo, il disegno salvifico di Dio rimarrebbe incompiuto o, addirittura, sconfitto, se questo «mysterium pietatis» non si fosse inserito nel dinamismo della storia per vincere il peccato dell’uomo.

Troviamo questa espressione in una delle lettere pastorali di san Paolo, la prima a Timoteo. Essa balza improvvisa quasi per un’ispirazione irrompente. L’apostolo, infatti, in antecedenza ha consacrato lunghi paragrafi del suo messaggio al discepolo prediletto per spiegare il significato dell’ordinamento della comunità (quello liturgico e, legato ad esso, quello gerarchico), ha quindi parlato del ruolo dei capi della comunità, per riferirsi infine al comportamento dello stesso Timoteo nella «Chiesa del Dio vivente, colonna e sostegno della verità». Quindi, alla fine del brano, egli evoca quasi «ex abrupto», ma con un intento profondo, ciò che dà significato a tutto quello che ha scritto: «È senza dubbio grande il mistero della pietà...» (1Tm 3,15 s.).

Senza tradire minimamente il senso letterale del testo, noi possiamo allargare questa magnifica intuizione teologica dell’apostolo a una piú completa visione del ruolo che la verità da lui annunciata ha nell’economia della salvezza. «È grande davvero - ripetiamo con lui - il mistero della pietà», perché vince il peccato.

Ma che cos’è nella concezione paolina questa «pietà»?

 

È il Cristo stesso

20. È profondamente significativo che, per presentare questo «mysterium pietatis», Paolo trascriva semplicemente, senza stabilire un legame grammaticale col testo precedente, tre righe di un inno cristologico, che - secondo la sentenza di autorevoli studiosi - era usato nelle comunità ellenico-cristiane. Con le parole di quell’inno, dense di contenuto teologico e ricche di nobile bellezza, quei credenti del primo secolo professavano la loro fede circa il mistero del Cristo, per il quale egli si è manifestato nella realtà della carne umana e dallo Spirito Santo è stato costituito quale giusto, che si offre per gli ingiusti; egli è apparso agli angeli, fatto piú grande di essi, ed è stato predicato alle genti, portatore di salvezza; egli è stato creduto nel mondo, quale inviato del Padre, e dallo stesso Padre assunto in cielo, quale Signore.

Il mistero o sacramento della pietà, pertanto, è il mistero stesso del Cristo. Esso è, in una sintesi pregnante, il mistero dell’incarnazione e della redenzione, della piena pasqua di Gesú, Figlio di Dio e Figlio di Maria: mistero della sua passione e morte, della sua risurrezione e glorificazione. Ciò che san Paolo, riprendendo le frasi dell’inno, ha voluto ribadire è che questo mistero è il segreto principio vitale che fa della Chiesa la casa di Dio, la colonna e il sostegno della verità. Nel solco dell’insegnamento paolino, noi possiamo affermare che questo medesimo mistero dell’infinita pietà di Dio verso di noi è capace di penetrare fino alle nascoste radici della nostra iniquità, per suscitare nell’anima un movimento di conversione, per redimerla e scioglierne le vele verso la riconciliazione.

Riferendosi senza dubbio a questo mistero, anche san Giovanni, pur col suo caratteristico linguaggio, che è diverso da quello di san Paolo, poteva scrivere che «chiunque è nato da Dio, non pecca»: il Figlio di Dio lo salva e «il maligno non lo tocca» (1Gv 5,18 s.). In questa affermazione giovannea c’è un’indicazione di speranza, fondata sulle promesse divine: il cristiano ha ricevuto la garanzia e le forze necessarie per non peccare. Non si tratta, dunque, di un’impeccabilità acquisita per virtú propria o, addirittura, insita nell’uomo, come pensavano gli gnostici. È un risultato dell’azione di Dio. Per non peccare il cristiano dispone della conoscenza di Dio, ricorda san Giovanni in questo stesso passo. Ma poco prima egli aveva scritto: «Chiunque è nato da Dio, non commette peccato, perché un seme divino dimora in lui» (1Gv 3,9). Se per questo «seme di Dio» intendiamo - come propongono alcuni commentatori - Gesú, il Figlio di Dio, allora possiamo dire che per non peccare - o per liberarsi dal peccato - il cristiano dispone della presenza in sé dello stesso Cristo e del mistero di Cristo, che è mistero di pietà.

 

Lo sforzo del cristiano

21. Ma c’è nel «mysterium pietatis» un altro versante: la pietà di Dio verso il cristiano deve aver corrispondenza nella pietà del cristiano verso Dio. In questa seconda accezione, la pietà («eusébeia») significa appunto il comportamento del cristiano, che alla pietà paterna di Dio risponde con la sua pietà filiale.

Anche in questo senso possiamo affermare con san Paolo che «è grande il mistero della pietà». Anche in questo senso la pietà, quale forza di conversione e di riconciliazione, affronta l’iniquità e il peccato. Anche in questo caso gli aspetti essenziali del mistero del Cristo sono oggetto della pietà nel senso che il cristiano accoglie il mistero, lo contempla, ne trae la forza spirituale necessaria per condurre la vita secondo il Vangelo. Anche qui si deve dire che «chi è nato da Dio, non commette peccato»; ma l’espressione ha un senso imperativo: sostenuto dal mistero del Cristo, come da un’interiore sorgente di energia spirituale, il cristiano è diffidato dal peccare e, anzi, riceve il comandamento di non peccare, ma di comportarsi degnamente «nella casa di Dio, che è la Chiesa del Dio vivente» (1Tm 3,15), essendo un figlio di Dio.

 

Verso una vita riconciliata

22. Cosí la parola della Scrittura, nel rivelarci il mistero della pietà, apre l’intelligenza umana alla conversione e alla riconciliazione, intese non come alte astrazioni, ma come valori cristiani concreti da conquistare nella nostra quotidianità. Insidiati dalla perdita del senso del peccato, talora tentati da qualche illusione ben poco cristiana di impeccabilità, anche gli uomini d’oggi hanno bisogno di riascoltare, come diretto a ciascuno personalmente, l’ammonimento di san Giovanni: «Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi» (1Gv 1,8), e anzi «tutto il mondo giace sotto il potere del maligno» (1Gv 5,19). Ciascuno, dunque, è invitato dalla voce della verità divina a leggere realisticamente nella sua coscienza e a confessare che è stato generato nell’iniquità, come diciamo nel salmo Miserere.

Tuttavia, minacciati dalla paura e dalla disperazione, gli uomini d’oggi possono sentirsi sollevati dalla divina promessa, che li apre alla speranza della piena riconciliazione.

Il mistero della pietà, da parte di Dio, è quella misericordia di cui il Signore e Padre nostro - lo ripeto ancora - è infinitamente ricco. Come ho detto nell’enciclica dedicata al tema della divina misericordia, essa è un amore piú potente del peccato, piú forte della morte. Quando ci accorgiamo che l’amore che Dio ha per noi non si arresta di fronte al nostro peccato, non indietreggia dinanzi alle nostre offese, ma si fa ancora piú premuroso e generoso; quando ci rendiamo conto che questo amore è giunto fino a causare la passione e la morte del Verbo fatto carne, il quale ha accettato di redimerci pagando col suo sangue, allora prorompiamo nel riconoscimento: «Sí, il Signore è ricco di misericordia», e diciamo perfino: «Il Signore è misericordia». Il mistero della pietà è la via aperta dalla divina misericordia alla vita riconciliata.

 

 

 

 

 

TERZA PARTE

LA PASTORALE DELLA PENITENZA E DELLA RICONCILIAZIONE

 

Promozione della penitenza e della riconciliazione

23. Suscitare nel cuore dell’uomo la conversione e la penitenza e offrirgli il dono della riconciliazione è la connaturale missione della Chiesa, come continuatrice dell’opera redentrice del suo fondatore divino. È, questa, una missione che non si esaurisce in alcune affermazioni teoriche e nella proposta di un ideale etico non accompagnata da energie operative, ma tende ad esprimersi in precise funzioni ministeriali in ordine a una pratica concreta della penitenza e della riconciliazione.

A questo ministero, fondato e illuminato dai principi di fede sopra illustrati, orientato verso obiettivi precisi e sostenuto da mezzi adeguati, possiamo dare il nome di pastorale della penitenza e della riconciliazione. Suo punto di partenza è la convinzione della Chiesa che l’uomo, al quale si rivolge ogni forma di pastorale, ma principalmente la pastorale della penitenza e della riconciliazione, è l’uomo segnato dal peccato, la cui immagine pregnante si può trovare nel re Davide. Rimproverato dal profeta Natan, egli accetta di confrontarsi con le proprie nefandezze e confessa: «Ho peccato contro il Signore» (2Sam 12,13), e proclama: «Riconosco il mio delitto, il mio peccato mi sta sempre dinanzi» (Sal 51,5); ma prega anche: «Purificami, Signore, e sarò mondo; lavami, e sarò piú bianco della neve» (Ps 9), ricevendo la risposta della divina misericordia: «Il Signore ha perdonato il tuo peccato: non morirai» (2Sam 12,13).

La Chiesa si trova, dunque, di fronte all’uomo - ad un intero mondo umano - vulnerato dal peccato e da esso toccato in ciò che possiede di piú intimo nella profondità del suo essere, ma al tempo stesso mosso verso un incoercibile desiderio di liberazione dal peccato e, specialmente se cristiano, consapevole che il mistero della pietà, Cristo Signore, già opera in lui e nel mondo con la forza della redenzione.

La funzione riconciliatrice della Chiesa deve cosí svolgersi secondo quell’intimo nesso, che raccorda strettamente il perdono e la remissione del peccato di ciascun uomo alla fondamentale e piena riconciliazione dell’umanità, avvenuta con la redenzione. Questo nesso ci fa capire che, essendo il peccato il principio attivo della divisione - divisione fra l’uomo e il Creatore, divisione nel cuore e nell’essere dell’uomo, divisione fra gli uomini singoli e fra i gruppi umani, divisione fra l’uomo e la natura creata da Dio -, soltanto la conversione dal peccato è capace di operare una profonda e duratura riconciliazione dovunque sia penetrata la divisione.

Non c’è bisogno di ripetere quanto ho già detto circa l’importanza di questo «ministero della riconciliazione», e della relativa pastorale che lo attua, nella coscienza e nella vita della Chiesa. Questa fallirebbe in un aspetto essenziale del suo essere e mancherebbe a una sua irrinunciabile funzione, se non pronunciasse con chiarezza e fermezza, a tempo e fuori tempo, la «parola della riconciliazione» e non offrisse al mondo il dono della riconciliazione. Ma conviene ripetere che tale importanza del servizio ecclesiale di riconciliazione si estende, oltre i confini della Chiesa, al mondo intero.

Parlare di pastorale della penitenza e della riconciliazione, dunque, vuol dire riferirsi all’insieme dei compiti che incombono alla Chiesa, a tutti i livelli, per la promozione di esse. Piú concretamente, parlare di questa pastorale vuol dire evocare tutte le attività, mediante le quali la Chiesa, per il tramite di tutte e di ciascuna delle sue componenti - pastori e fedeli, a tutti i livelli e in tutti gli ambiti - e con tutti i mezzi a sua disposizione - parola e azione, insegnamento e preghiera -, conduce gli uomini, singoli o in gruppo, alla vera penitenza e li introduce cosí nel cammino della piena riconciliazione.

I padri del Sinodo, come rappresentanti dei loro confratelli vescovi, guide del popolo loro affidato, si sono occupati di questa pastorale nei suoi elementi piú pratici e concreti. E io sono lieto di far loro eco, associandomi alle loro inquietudini e speranze, accogliendo i frutti delle loro ricerche ed esperienze, incoraggiandoli nei loro progetti e realizzazioni. Possano essi ritrovare in questa parte dell’esortazione apostolica l’apporto che hanno dato essi stessi al Sinodo, apporto la cui utilità intendo allargare, mediante queste pagine, alla Chiesa intera.

Ritengo, pertanto, di mettere in luce l’essenziale della pastorale della penitenza e della riconciliazione rilevandone, con l’assemblea del Sinodo, i due punti seguenti:

1) i mezzi usati e le vie seguite dalla Chiesa per promuovere la penitenza e la riconciliazione;

2) il sacramento per eccellenza della penitenza e della riconciliazione.

 

 

 

I.

MEZZI E VIE PER LA PROMOZIONE DELLA PENITENZA E DELLA RICONCILIAZIONE

 

24. Per promuovere la penitenza e la riconciliazione la Chiesa ha a disposizione principalmente due mezzi, che le sono stati affidati dal suo stesso fondatore: la catechesi e i sacramenti. Il loro impiego, sempre ritenuto dalla Chiesa come pienamente consono alle esigenze della sua missione salvifica e rispondente, nello stesso tempo, alle esigenze e ai bisogni spirituali degli uomini di tutti i tempi, può essere fatto in forme e modi antichi e nuovi, tra i quali sarà bene ricordare particolarmente quello che, seguendo il mio predecessore Paolo VI, possiamo chiamare il metodo del dialogo.

 

Il dialogo

25. Il dialogo per la Chiesa è, in certo senso, un mezzo e soprattutto un modo di svolgere la sua azione nel mondo contemporaneo. Il Concilio Vaticano II, infatti, dopo aver proclamato che «la Chiesa, in virtú della missione che ha di illuminare tutto il mondo col messaggio evangelico e di radunare in un solo Spirito tutti gli uomini (...), diventa segno di quella fraternità che permette e rafforza un sincero dialogo», aggiunge che essa deve essere capace di «stabilire un dialogo sempre piú fecondo fra tutti coloro che formano l’unico popolo di Dio» («Gaudium et Spes», 92), come anche di «stabilire un dialogo con l’umana società» («Christus Dominus», 13).

Il mio predecessore Paolo VI ha dedicato al dialogo una parte notevole della sua prima enciclica «Ecclesiam suam», in cui lo descrive e caratterizza significativamente quale dialogo della salvezza. La Chiesa, infatti, usa il metodo del dialogo per meglio condurre gli uomini - quelli che per il battesimo e la professione di fede si riconoscono membra della comunità cristiana e quelli che le sono estranei - alla conversione e alla penitenza, sulla via di un profondo rinnovamento della propria coscienza e della propria vita, alla luce del mistero della redenzione e della salvezza, operata da Cristo e affidata al ministero della sua Chiesa. L’autentico dialogo, quindi, è rivolto innanzitutto alla rigenerazione di ciascuno mediante la conversione interiore e la penitenza, sempre con profondo rispetto per le coscienze e con la pazienza e la gradualità indispensabili nelle condizioni degli uomini del nostro tempo.

Il dialogo pastorale in vista della riconciliazione continua a essere oggi un impegno fondamentale della Chiesa in diversi ambiti e a vari livelli. Essa promuove, anzitutto, un dialogo ecumenico, cioè tra Chiese e comunità ecclesiali che si richiamano alla fede in Cristo, Figlio di Dio e unico salvatore, e un dialogo con le altre comunità di uomini che cercano Dio e vogliono avere un rapporto di comunione con lui.

Alla base di tale dialogo con le altre Chiese e comunità ecclesiali e con le altre religioni, e quale condizione della sua credibilità ed efficacia, deve esserci un sincero sforzo di permanente e rinnovato dialogo all’interno della stessa Chiesa cattolica. Questa Chiesa è consapevole di essere, per sua natura, sacramento della comunione universale di carità; ma è, altresí, consapevole delle tensioni esistenti al suo interno, che rischiano di diventare fattori di divisione.

L’invito accorato e fermo, già rivolto dal mio predecessore in vista dell’anno santo 1975, vale anche per il momento presente. Per ottenere il superamento dei conflitti e far sí che le normali tensioni non risultino dannose all’unità della Chiesa, occorre che tutti ci confrontiamo con la parola di Dio e, abbandonate le proprie vedute soggettive, cerchiamo la verità laddove essa si trova, cioè nella stessa divina Parola e nell’interpretazione autentica, che ne dà il magistero della Chiesa. A questa luce l’ascolto reciproco, il rispetto e l’astensione da ogni giudizio affrettato, la pazienza, la capacità di evitare che la fede, che unisce, sia subordinata alle opinioni, alle mode, alle scelte ideologiche, che dividono, sono tutte doti di un dialogo che all’interno della Chiesa deve essere assiduo, volenteroso, sincero. È chiaro che esso non sarebbe tale e non diventerebbe un fattore di riconciliazione, senza l’attenzione al magistero e l’accettazione di esso.

Cosí impegnata fattivamente nella ricerca della propria comunione interna, la Chiesa cattolica può rivolgere l’appello alla riconciliazione - come ha già fatto da tempo - alle altre Chiese, con le quali non c’è piena comunione, nonché alle altre religioni e persino a chi cerca Dio con cuore sincero.

Alla luce del Concilio e del magistero dei miei predecessori, la cui preziosa eredità ho ricevuto e mi sforzo di conservare e attuare, posso affermare che la Chiesa cattolica in tutte le sue componenti si impegna con lealtà nel dialogo ecumenico, senza facili ottimismi, ma anche senza sfiducia e senza esitazioni o ritardi. Le leggi fondamentali che essa cerca di seguire in tale dialogo sono, da una parte, la persuasione che soltanto un ecumenismo spirituale - cioè fondato nella preghiera comune e nella comune docilità all’unico Signore - permette di rispondere sinceramente e seriamente alle altre esigenze dell’azione ecumenica; dall’altra, la convinzione che un certo facile irenismo in materia dottrinale e, soprattutto, dogmatica potrebbe forse portare a una forma di convivenza superficiale e non durevole, ma non a quella comunione profonda e stabile che tutti noi auspichiamo. A questa comunione si giungerà nell’ora voluta dalla divina provvidenza; ma per giungervi la Chiesa cattolica, per quanto la concerne, sa di dover essere aperta e sensibile a tutti «i valori veramente cristiani, promananti dal comune patrimonio, che si trovano presso i fratelli da noi separati», ma di dover parimenti porre alla base di un dialogo leale e costruttivo la chiarezza delle impostazioni, la fedeltà e la coerenza con la fede trasmessa e definita nel solco della tradizione perenne del suo magistero. Nonostante la minaccia, poi, di un certo disfattismo, e malgrado le inevitabili lentezze che l’avventatezza non potrà mai correggere, la Chiesa cattolica continua a cercare con tutti gli altri fratelli cristiani le vie dell’unità e con i seguaci delle altre religioni un dialogo sincero. Possa questo dialogo inter-religioso condurre al superamento di ogni atteggiamento di ostilità, di diffidenza, di mutua condanna e persino di mutua invettiva, condizione preliminare almeno all’incontro nella fede in un unico Dio e nella certezza della vita eterna per l’anima immortale. Voglia il Signore specialmente che il dialogo ecumenico conduca a una sincera riconciliazione intorno a tutto ciò che possiamo avere già in comune con le altre Chiese cristiane: la fede in Gesú Cristo, Figlio di Dio fatto uomo, Salvatore e Signore, l’ascolto della Parola, lo studio della Rivelazione, il sacramento del battesimo.

Nella misura in cui la Chiesa è capace di generare la concordia attiva - l’unità nella varietà - al suo proprio interno, e di offrirsi come testimone e umile operatrice di riconciliazione nei confronti delle altre Chiese e comunità ecclesiali e delle altre religioni, essa diventa, secondo l’espressiva definizione di sant’Agostino, «mondo riconciliato». Allora potrà essere segno di riconciliazione nel mondo e per il mondo.

Nella consapevolezza della smisurata gravità della situazione creata dalle forze della divisione e della guerra, che costituisce oggi una pesante minaccia non soltanto per l’equilibrio e l’armonia delle nazioni, ma per la sopravvivenza stessa dell’umanità, la Chiesa sente di dover offrire e proporre la sua specifica collaborazione per il superamento dei conflitti e la ricomposizione della concordia.

È un complesso e delicato dialogo di riconciliazione, in cui la Chiesa si impegna, anzitutto, con l’opera della Santa Sede e dei suoi diversi organismi. La Santa Sede si sforza sia di intervenire presso i governanti delle nazioni e i responsabili delle varie istanze internazionali, sia di associarsi ad essi, dialogando con essi o stimolandoli a dialogare fra di loro, a beneficio della riconciliazione in mezzo ai numerosi conflitti. Essa fa questo non per secondi fini o per interessi occulti - poiché non ne ha -, ma «per una preoccupazione umanitaria», mettendo la sua struttura istituzionale e la sua autorità morale, del tutto singolari, a servizio della concordia e della pace. Essa fa questo convinta che come «nella guerra due parti insorgono l’una contro l’altra», cosí «nella questione della pace sono pure sempre e necessariamente due parti che debbono sapersi impegnare», e in ciò «si trova il vero senso del dialogo per la pace».

Nel dialogo per la riconciliazione la Chiesa si impegna anche per mezzo dei vescovi secondo la competenza e responsabilità che è loro propria, sia individualmente nella direzione delle rispettive Chiese particolari, sia riuniti nelle conferenze episcopali, con la collaborazione dei presbiteri e di tutte le componenti delle comunità cristiane. Essi adempiono puntualmente i loro compiti, quando promuovono quell’indispensabile dialogo e proclamano le esigenze umane e cristiane di riconciliazione e di pace. In comunione con i loro pastori, i laici, i quali hanno come «campo proprio della loro attività evangelizzatrice il mondo vasto e complicato della politica, della realtà sociale, dell’economia (...) della vita internazionale», sono chiamati ad impegnarsi direttamente nel dialogo o in favore del dialogo per la riconciliazione. Per loro tramite è ancora la Chiesa che svolge la sua azione riconciliatrice. La rigenerazione dei cuori mediante la conversione e la penitenza è, pertanto, il presupposto fondamentale e la base sicura per ogni rinnovamento sociale e per la pace tra le nazioni.

Resta da ribadire che da parte della Chiesa e dei suoi membri il dialogo, in qualsiasi forma si svolga - e sono e possono essere molto diverse, sicché lo stesso concetto di dialogo ha un valore analogico - non potrà mai partire da un atteggiamento di indifferenza verso la verità, ma esserne, piuttosto, una presentazione fatta in modo sereno e rispettoso dell’intelligenza e della coscienza altrui. Il dialogo della riconciliazione non potrà mai sostituire o attenuare l’annuncio della verità evangelica, che ha come scopo preciso la conversione dal peccato e la comunione con Cristo e con la Chiesa, ma dovrà servire alla sua trasmissione e attuazione attraverso i mezzi lasciati da Cristo alla Chiesa per la pastorale della riconciliazione: la catechesi e la penitenza.

 

La Catechesi

26. Nella vasta area, in cui la Chiesa ha la missione di operare con lo strumento del dialogo, la pastorale della penitenza e della riconciliazione si rivolge ai membri del corpo della Chiesa, innanzitutto, con un’adeguata catechesi circa le due realtà distinte e complementari, alle quali i padri sinodali hanno dato una particolare importanza, e che hanno messo in rilievo in alcune delle «Propositiones» conclusive: appunto la penitenza e la riconciliazione. La catechesi, dunque, è il primo mezzo da impiegare.

Alla radice della raccomandazione del Sinodo, cosí opportuna, si trova un presupposto fondamentale: ciò che è pastorale non si oppone al dottrinale, né può l’azione pastorale prescindere dal contenuto dottrinale, dal quale, anzi, trae la sua sostanza e la sua reale validità. Ora, se la Chiesa è «colonna e sostegno della verità» (1Tm 3,15) ed è posta nel mondo come madre e maestra, come potrebbe tralasciare il compito di insegnare la verità che costituisce un cammino di vita?

Dai pastori della Chiesa si attende, prima di tutto, una catechesi sulla riconciliazione. Questa non può non fondarsi sull’insegnamento biblico, specialmente quello neo-testamentario, circa la necessità di ricostituire l’alleanza con Dio in Cristo redentore e riconciliatore e, alla luce e come espansione di questa nuova comunione e amicizia, circa la necessità di riconciliarsi col fratello, a costo di dover interrompere l’offerta del sacrificio. Su questo tema della riconciliazione fraterna Gesú insiste molto: ad esempio, quando invita a porgere l’altra guancia a chi ci ha percosso e a lasciare anche il mantello a chi ci ha preso la tunica, o quando inculca la legge del perdono: perdono che ciascuno riceve nella misura in cui sa perdonare, perdono da offrire anche ai nemici, perdono da concedere settanta volte sette, cioè, in pratica, senza alcuna limitazione. A queste condizioni, realizzabili solo in un clima genuinamente evangelico, è possibile una vera riconciliazione sia fra gli individui, sia fra le famiglie, le comunità, le nazioni e i popoli. Da questi dati biblici sulla riconciliazione deriverà naturalmente una catechesi teologica, la quale integrerà nella sua sintesi anche gli elementi della psicologia, della sociologia e delle altre scienze umane, che possono servire per chiarire le situazioni, impostare bene i problemi, persuadere gli ascoltatori o i lettori a prendere risoluzioni concrete.

Dai pastori della Chiesa si attende pure una catechesi sulla penitenza. Anche qui la ricchezza del messaggio biblico ne deve essere la sorgente. Questo messaggio sottolinea nella penitenza, anzitutto, il suo valore di conversione, termine col quale si cerca di tradurre la parola del testo greco «metanoia», che letteralmente significa lasciar capovolgere lo spirito per farlo volgere a Dio. Sono questi, del resto, i due elementi fondamentali emergenti dalla parabola del figlio perduto e ritrovato: il «rientrare in sé» e la decisione di tornare al padre. Non ci può essere riconciliazione senza questi atteggiamenti primordiali della conversione, e la catechesi deve spiegarli con concetti e termini adatti alle varie età, alle diverse condizioni culturali, morali e sociali.

È un primo valore della penitenza che si prolunga nel secondo: penitenza significa anche pentimento. I due sensi della «metanoia» appaiono nella significativa consegna data da Gesú: «Se un tuo fratello si pente (= ritorna a te), perdonagli. E se pecca sette volte al giorno contro di te e sette volte torna a te dicendo: “Mi pento”, tu gli perdonerai» (Lc 17,3 s.). Una buona catechesi mostrerà come il pentimento, tanto quanto la conversione, lungi dall’essere un sentimento superficiale, è un vero capovolgimento dell’anima.

Un terzo valore è contenuto nella penitenza, ed è il movimento per il quale i precedenti atteggiamenti di conversione e di pentimento si manifestano all’esterno: è il fare penitenza. Questo significato è ben percepibile nel termine «metanoia», come è usato dal Precursore secondo il testo dei sinottici. Fare penitenza vuol dire, oltre tutto, ristabilire l’equilibrio e l’armonia rotti dal peccato, cambiare direzione anche a costo di sacrificio.

Insomma, una catechesi sulla penitenza, la piú completa e adeguata possibile, è inderogabile in un tempo come il nostro, nel quale gli atteggiamenti dominanti nella psicologia e nel comportamento sociale sono cosí in contrasto col triplice valore, già illustrato: l’uomo contemporaneo sembra far piú fatica che mai a riconoscere i propri sbagli e a decidere di tornare sui suoi passi per riprendere il cammino dopo aver rettificato la marcia; egli sembra molto riluttante a dire «me ne pento» o «mi dispiace»; sembra rifiutare istintivamente, e spesso irresistibilmente, tutto ciò che è penitenza nel senso del sacrificio accolto e praticato per la correzione del peccato. A questo riguardo, vorrei sottolineare che, anche se mitigata da qualche tempo, la disciplina penitenziale della Chiesa non può essere abbandonata senza grave nocumento sia per la vita interiore dei cristiani e della comunità ecclesiale, sia per la loro capacità di irradiazione missionaria. Non è raro che non-cristiani siano sorpresi per la scarsa testimonianza di vera penitenza da parte dei discepoli di Cristo. È chiaro, peraltro, che la penitenza cristiana sarà autentica, se sarà ispirata dall’amore, e non dal mero timore; se consisterà in un serio sforzo di crocifiggere l’«uomo vecchio», perché possa rinascere il «nuovo», ad opera di Cristo; se seguirà come modello Cristo che, pur essendo innocente, scelse la via della povertà, della pazienza, dell’austerità e, si può dire, della vita penitente.

Dai pastori della Chiesa si attende ancora - come ha ricordato il Sinodo - una catechesi sulla coscienza e la sua formazione. Anche questo è un tema di acuta attualità, visto che, nei sussulti a cui è soggetta la cultura del nostro tempo, viene troppo spesso aggredito, messo a prova, sconvolto, ottenebrato questo santuario interiore, cioè l’io piú intimo dell’uomo: la sua coscienza. Per una sapiente catechesi sulla coscienza si possono trovare indicazioni preziose sia nei dottori della Chiesa, sia nella teologia del Concilio Vaticano II e, specialmente, nei due documenti sulla Chiesa nel mondo contemporaneo e sulla libertà religiosa. Su questa stessa linea il pontefice Paolo VI intervenne spesso, per ricordare la natura e il ruolo della coscienza nella nostra vita. Io stesso, seguendo le sue orme, non tralascio nessuna occasione per far luce su questa altissima componente della grandezza e dignità dell’uomo, su questa «sorta di senso morale, che ci porta a discernere ciò che è bene da ciò che è male (...) come un occhio interiore, una capacità visiva dello spirito, in grado di guidare i nostri passi sulla via del bene», ribadendo la necessità di formare cristianamente la propria coscienza, affinché essa non diventi «una forza distruttrice dell’umanità vera (della persona), anziché il luogo santo dove Dio gli rivela il suo vero bene».

Anche su altri punti di non minore rilevanza per la riconciliazione si attende la catechesi dei pastori della Chiesa.

Né la Chiesa può omettere, senza grave mutilazione del suo messaggio essenziale, una costante catechesi su quelli che il linguaggio cristiano tradizionale designa come i quattro novissimi dell’uomo: morte, giudizio (particolare e universale), inferno e paradiso. In una cultura, che tende a racchiudere l’uomo nella sua vicenda terrena piú o meno riuscita, ai pastori della Chiesa si chiede una catechesi che dischiuda e illumini con le certezze della fede l’aldilà della vita presente: oltre le misteriose porte della morte si profila un’eternità di gioia nella comunione con Dio o di pena nella lontananza da lui. Soltanto in questa visione escatologica si può avere la misura esatta del peccato e sentirsi spinti decisamente alla penitenza e alla riconciliazione.

Ai pastori zelanti e capaci di inventiva non mancano mai le occasioni per impartire questa ampia e varia catechesi, tenendo conto della diversità di cultura e di formazione religiosa di coloro ai quali si rivolgono. Le offrono spesso le letture bibliche e i riti della santa messa e degli altri sacramenti, come le stesse circostanze in cui essi vengono celebrati. Allo stesso scopo possono esser prese molte iniziative, quali predicazioni, lezioni, dibattiti, incontri e corsi di cultura religiosa, ecc., come avviene in molti luoghi. Desidero qui segnalare, in particolare, l’importanza e l’efficacia che, ai fini di tale catechesi, hanno le antiche missioni popolari. Se adattate alle peculiari esigenze del nostro tempo, esse possono essere, oggi come ieri, un valido strumento di educazione nella fede anche per quanto riguarda il settore della penitenza e della riconciliazione.

Per la grande rilevanza che ha la riconciliazione, fondata sulla conversione, nel delicato campo dei rapporti umani e della convivenza sociale a tutti i livelli, compreso quello internazionale, non può mancare alla catechesi il prezioso apporto della dottrina sociale della Chiesa. Il puntuale e preciso insegnamento dei miei predecessori, a partire dal papa Leone XIII, a cui è venuto a unirsi il sostanzioso apporto della costituzione pastorale «Gaudium et Spes» del Concilio Vaticano II con quello dei diversi episcopati sollecitati da varie circostanze nei rispettivi paesi, ha costituito un ampio e solido corpo di dottrina riguardante le molteplici esigenze inerenti alla vita della comunità umana, ai rapporti tra individui, famiglie, gruppi nei suoi diversi ambiti, e alla stessa costituzione di una società che voglia esser coerente con la legge morale, che è fondamento della civiltà.

Alla base di questo insegnamento sociale della Chiesa si trova, ovviamente, la visione che essa trae dalla parola di Dio circa i diritti e i doveri degli individui, della famiglia e della comunità; circa il valore della libertà e le dimensioni della giustizia; circa il primato della carità; circa la dignità della persona umana e le esigenze del bene comune, al quale devono mirare la politica e la stessa economia. Su questi fondamentali principi del magistero sociale, che confermano e ripropongono i dettami universali della ragione e della coscienza dei popoli, poggia in gran parte la speranza di una pacifica soluzione di tanti conflitti sociali e, in definitiva, della riconciliazione universale.

 

I sacramenti

27. Il secondo mezzo di istituzione divina, che dalla Chiesa è offerto alla pastorale della penitenza e della riconciliazione, è costituito dai sacramenti. Nel misterioso dinamismo dei sacramenti, cosí ricco di simbolismi e di contenuti, è possibile ravvisare un aspetto non sempre messo in luce: ciascuno di essi, oltreché della sua grazia propria, è segno anche di penitenza e riconciliazione e, dunque, in ciascuno di essi è possibile rivivere queste dimensioni dello spirito.

Il battesimo è, certo, un lavacro salvifico, che - come dice san Pietro - vale «non (come) rimozione di sporcizia del corpo, ma (come) invocazione di salvezza, rivolta a Dio da parte di una buona coscienza» (1Pt 3,21). È morte, sepoltura e risurrezione con Cristo morto, sepolto e risorto. È dono dello Spirito Santo per il tramite di Cristo. Ma questo costitutivo essenziale e originale del battesimo cristiano, lungi dall’eliminare, arricchisce l’elemento penitenziale già presente nel battesimo, che Gesú stesso ricevette da Giovanni «per adempiere ogni giustizia»: un fatto, cioè, di conversione e di reintegrazione nel giusto ordine di rapporti con Dio, di riconciliazione con Dio, con la cancellazione della macchia originale e il conseguente inserimento nella grande famiglia dei riconciliati.

Parimenti la cresima, anche in quanto confermazione del battesimo e, con esso, sacramento di iniziazione, nel conferire la pienezza dello Spirito Santo e nel portare all’età adulta la vita cristiana, significa e realizza per ciò stesso una maggiore conversione del cuore e una piú intima ed effettiva appartenenza alla medesima assemblea di riconciliati, che è la Chiesa di Cristo.

La definizione, che sant’Agostino dà dell’eucaristia come «sacramentum pietatis, signum unitatis, vinculum caritatis», mette in chiara luce gli effetti di santificazione personale («pietas») e di riconciliazione comunitaria («unitas» e «caritas»), che derivano dall’essenza stessa del mistero eucaristico, come rinnovamento incruento del sacrificio della croce, fonte di salvezza e di riconciliazione per tutti gli uomini. È necessario, tuttavia, ricordare che la Chiesa, guidata dalla fede in questo augusto sacramento, insegna che nessun cristiano, consapevole di peccato grave, può ricevere l’eucaristia prima di aver ottenuto il perdono di Dio. Come si legge nell’istruzione «Eucharisticum mysterium», la quale, debitamente approvata da Paolo VI, conferma in pieno l’insegnamento del Concilio Tridentino: «L’eucaristia sia proposta ai fedeli anche «come antidoto, che ci libera dalle colpe quotidiane, e ci preserva dai peccati mortali», e sia loro indicato il modo conveniente di servirsi delle parti penitenziali della liturgia della messa. «A colui che vuole comunicarsi venga ricordato... il precetto: L’uomo provi se stesso (1Cor 11,28). E la consuetudine della Chiesa dimostra che quella prova è necessaria, perché nessuno consapevole di essere in peccato mortale, per quanto si creda contrito, si accosti alla santa eucaristia prima della confessione sacramentale. Che, se si trova in caso di necessità e non ha modo di confessarsi, faccia prima un atto di contrizione perfetta».

Il sacramento dell’ordine è destinato a dare alla Chiesa i pastori, i quali, oltreché maestri e guide, sono chiamati a essere testimoni e operatori di unità, costruttori della famiglia di Dio, difensori e preservatori della comunione di questa famiglia contro i fermenti di divisione e di dispersione.

Il sacramento del matrimonio, esaltazione dell’amore umano sotto l’azione della grazia, è segno, sí, dell’amore di Cristo per la Chiesa, ma anche della vittoria che egli concede agli sposi di riportare sulle forze che deformano e distruggono l’amore, sicché la famiglia, nata da tale sacramento, diventa segno anche della Chiesa riconciliata e riconciliatrice per un mondo riconciliato in tutte le sue strutture e istituzioni.

L’unzione degli infermi, infine, nella prova della malattia e della vecchiaia e specialmente nell’ora finale del cristiano, è segno della definitiva conversione al Signore, nonché della totale accettazione del dolore e della morte come penitenza per i peccati. E in questo si attua la suprema riconciliazione col Padre.

Tuttavia, fra i sacramenti ce n’è uno che, se spesso è stato chiamato della confessione a motivo dell’accusa dei peccati che in esso vien fatta, piú propriamente può ritenersi il sacramento della penitenza per antonomasia, come di fatto si chiama, e quindi è il sacramento della conversione e della riconciliazione. Di questo sacramento si è particolarmente occupata la recente assemblea del Sinodo per l’importanza che ha in ordine alla riconciliazione.

 

 

 

II.

IL SACRAMENTO DELLA PENITENZA E DELLA RICONCILIAZIONE

 

28. In tutte le fasi e a tutti i livelli del suo svolgimento, il Sinodo ha considerato con la massima attenzione quel segno sacramentale che rappresenta e insieme realizza la penitenza e la riconciliazione. Questo sacramento certamente non esaurisce in se stesso i concetti di conversione e di riconciliazione. La Chiesa, infatti, sin dalle sue origini conosce e valorizza numerose e svariate forme di penitenza: alcune liturgiche o paraliturgiche, che vanno dall’atto penitenziale della messa alle funzioni propiziatorie, ai pellegrinaggi; altre di carattere ascetico, come il digiuno. Tuttavia, di tutti gli atti nessuno è piú significativo, né piú divinamente efficace, né piú elevato e in pari tempo accessibile nel suo stesso rito, del sacramento della penitenza.

Sin dalla sua preparazione, poi nei numerosi interventi succedutisi durante il suo svolgimento, nei lavori dei gruppi e nelle «Propositiones» finali, il Sinodo ha tenuto conto dell’affermazione pronunciata molte volte, con toni diversi e diverso contenuto: il sacramento della penitenza è in crisi, e di tale crisi ha preso atto. Ha raccomandato un’approfondita catechesi, ma anche una non meno approfondita analisi di carattere teologico, storico, psicologico, sociologico e giuridico circa la penitenza in generale e il sacramento della penitenza in particolare. Con tutto ciò esso ha inteso chiarire i motivi della crisi e aprire le vie per una soluzione positiva, a beneficio dell’umanità. Intanto, dal Sinodo stesso la Chiesa ha ricevuto una chiara conferma della sua fede riguardo al sacramento, per il quale viene data ad ogni cristiano e all’intera comunità dei credenti la certezza del perdono per la potenza del sangue redentore di Cristo.

Giova rinnovare e riaffermare questa fede nel momento in cui essa potrebbe affievolirsi, perdere qualcosa della sua integrità o entrare in una zona d’ombra e di silenzio, minacciata com’è dalla già menzionata crisi in ciò che essa ha di negativo. Insidiano, infatti, il sacramento della confessione, da un lato, l’oscuramento della coscienza morale e religiosa, l’attenuazione del senso del peccato, il travisamento del concetto di pentimento, la scarsa tensione verso una vita autenticamente cristiana; dall’altro lato, la mentalità, talora diffusa, che si possa ottenere il perdono direttamente da Dio anche in maniera ordinaria, senza accostarsi al sacramento della riconciliazione, e l’abitudine di una pratica sacramentale priva talora di fervore e di vera spontaneità, originata forse da una considerazione errata e deviante degli effetti del sacramento.

Conviene, pertanto, ricordare le principali dimensioni di questo grande sacramento.

 

«A chi rimetterete»

29. Il primo dato fondamentale ci è offerto dai libri santi dell’Antico e del Nuovo Testamento riguardo alla misericordia del Signore e al suo perdono. Nei salmi e nella predicazione dei profeti il nome di misericordioso è forse quello che piú spesso viene attribuito al Signore, contrariamente al persistente cliché, secondo il quale il Dio dell’Antico Testamento viene presentato soprattutto come severo e punitivo. Cosí, fra i salmi, un lungo discorso sapienziale, attingendo alla tradizione dell’Esodo, rievoca l’azione benefica di Dio in mezzo al suo popolo. Tale azione, pur nella sua rappresentazione antropomorfica, è forse una delle piú eloquenti proclamazioni veterotestamentarie della misericordia divina. Basti qui riportare il versetto: «Ed egli, pietoso, perdonava la colpa, li perdonava invece di distruggerli. Molte volte placò la sua ira e trattenne il suo furore, ricordando che essi sono carne, un soffio che va e non ritorna» (Sal 78,38 s.).

Nella pienezza dei tempi il Figlio di Dio, venendo come l’Agnello che toglie e porta su di sé il peccato del mondo, appare come colui che ha il potere sia di giudicare sia di perdonare i peccati, e che è venuto non per condannare, ma per perdonare e salvare.

Ora, questo potere di rimettere i peccati Gesú lo conferisce, mediante lo Spirito Santo, a semplici uomini, soggetti essi stessi all’insidia del peccato, cioè ai suoi apostoli: «Ricevete lo Spirito Santo: a chi rimetterete i peccati, saranno rimessi, e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi» (Gv 20,22; Mt 18,18). È, questa, una delle piú formidabili novità evangeliche! Egli conferisce tale potere agli apostoli anche come trasmissibile - cosí lo ha inteso la Chiesa sin dai suoi primi albori - ai loro successori, investiti dagli stessi apostoli della missione e della responsabilità di continuare la loro opera di annunciatori del Vangelo e di ministri dell’opera redentrice di Cristo.

Qui si rivela in tutta la sua grandezza la figura del ministro del sacramento della penitenza, chiamato, per antichissima consuetudine, il confessore.

Come all’altare dove celebra l’eucaristia e come in ciascuno dei sacramenti, il sacerdote, ministro della penitenza, opera «in persona Christi». Il Cristo, che da lui è reso presente e che per suo mezzo attua il mistero della remissione dei peccati, è colui che appare come fratello dell’uomo, pontefice misericordioso, fedele e compassionevole, pastore deciso a cercare la pecora smarrita, medico che guarisce e conforta, maestro unico che insegna la verità e indica le vie di Dio, giudice dei vivi e dei morti, che giudica secondo la verità e non secondo le apparenze.

Questo è, senza dubbio, il piú difficile e delicato, il piú faticoso ed esigente, ma anche uno dei piú belli e consolanti ministeri del sacerdote, e proprio per questo, attento anche al forte richiamo del Sinodo, non mi stancherò mai di richiamare i miei fratelli, vescovi e presbiteri, al suo fedele e diligente adempimento. Di fronte alla coscienza del fedele, che a lui si apre con un misto di trepidazione e di fiducia, il confessore è chiamato a un alto compito che è servizio alla penitenza e alla riconciliazione umana: conoscere di quel fedele le debolezze e cadute, valutarne il desiderio di ripresa e gli sforzi per ottenerla, discernere l’azione dello Spirito santificatore nel suo cuore, comunicargli un perdono che solo Dio può concedere, «celebrare» la sua riconciliazione col Padre raffigurata nella parabola del figlio prodigo, reinserire quel peccatore riscattato nella comunione ecclesiale con i fratelli, ammonire paternamente quel penitente con un fermo, incoraggiante e amichevole «D’ora in poi non peccare piú» (Gv 8,11).

Per l’efficace adempimento di tale ministero, il confessore deve avere necessariamente qualità umane di prudenza, discrezione, discernimento, fermezza temperata da mansuetudine e bontà. Egli deve avere, altresí, una seria e accurata preparazione, non frammentaria ma integrale e armonica, nelle diverse branche della teologia, nella pedagogia e nella psicologia, nella metodologia del dialogo e, soprattutto, nella conoscenza viva e comunicativa della parola di Dio. Ma ancora piú necessario è che egli viva una vita spirituale intensa e genuina. Per condurre altri sulla via della perfezione cristiana il ministro della penitenza deve percorrere egli stesso, per primo, questa via e, piú con gli atti che con abbondanti discorsi, dar prova di reale esperienza dell’orazione vissuta, di pratica delle virtú evangeliche teologali e morali, di fedele obbedienza alla volontà di Dio, di amore alla Chiesa e di docilità al suo magistero.

Tutto questo corredo di doti umane, di virtú cristiane e di capacità pastorali non si improvvisa né si acquista senza sforzo. Per il ministero della penitenza sacramentale ogni sacerdote deve essere preparato già dagli anni del seminario, insieme con lo studio della teologia dogmatica, morale, spirituale e pastorale (che son sempre una sola teologia), con le scienze dell’uomo, la metodologia del dialogo e, specialmente, del colloquio pastorale. Egli dovrà poi essere avviato e sostenuto nelle prime esperienze. Dovrà sempre curare il proprio perfezionamento e aggiornamento con lo studio permanente. Quale tesoro di grazia, di vita vera e di spirituale irradiazione non verrebbe alla Chiesa, se ciascun sacerdote si mostrasse premuroso di non mancare mai, per negligenza o pretesti vari, all’appuntamento con i fedeli al confessionale, e fosse ancor piú premuroso di non andarvi mai impreparato, o privo delle indispensabili qualità umane e delle condizioni spirituali e pastorali!

A questo proposito non posso non evocare con devota ammirazione le figure di straordinari apostoli del confessionale, quali san Giovanni Nepomuceno, san Giovanni Maria Vianney, san Giuseppe Cafasso e san Leopoldo da Castelnuovo, per parlare di quelli piú noti che la Chiesa ha iscritto nell’albo dei suoi santi. Ma io desidero rendere omaggio anche all’innumerevole schiera di confessori santi e quasi sempre anonimi, ai quali è dovuta la salvezza di tante anime, da loro aiutate nella conversione, nella lotta contro il peccato e le tentazioni, nel progresso spirituale e, in definitiva, nella santificazione. Non esito a dire che anche i grandi santi canonizzati sono generalmente usciti da quei confessionali e, con i santi, il patrimonio spirituale della Chiesa e la stessa fioritura di una civiltà, permeata di spirito cristiano! Onore, dunque, a questo silenzioso esercito di nostri confratelli, che hanno ben servito e servono ogni giorno la causa della riconciliazione mediante il ministero della penitenza sacramentale.

 

Il Sacramento del perdono

30. Dalla rivelazione del valore di questo ministero e del potere di rimettere i peccati, da Cristo conferito agli apostoli e ai loro successori, si è sviluppata nella Chiesa la coscienza del segno del perdono, conferito mediante il sacramento della penitenza. La certezza, cioè, che lo stesso Signore Gesú ha istituito e affidato alla Chiesa - quale dono della sua benignità e della sua «filantropia», da offrire a tutti - uno speciale sacramento per la remissione dei peccati commessi dopo il battesimo.

La pratica di questo sacramento, per quanto riguarda la sua celebrazione e la sua forma, ha conosciuto un lungo processo di sviluppo, come attestano i piú antichi sacramentari, gli atti di concili e di sinodi episcopali, la predicazione dei padri e l’insegnamento dei dottori della Chiesa. Ma circa la sostanza del sacramento è rimasta sempre solida e immutata nella coscienza della Chiesa la certezza che, per volontà di Cristo, il perdono è offerto a ciascuno per mezzo dell’assoluzione sacramentale, data dai ministri della penitenza: è certezza riaffermata con particolare vigore sia dal Concilio di Trento, che dal Concilio Vaticano II: «Quelli che si accostano al sacramento della penitenza ricevono dalla misericordia di Dio il perdono delle offese fatte a lui e, nello stesso tempo, la riconciliazione con la Chiesa, alla quale hanno inflitto una ferita col peccato: la Chiesa che coopera alla loro conversione con la carità, con l’esempio e la preghiera» («Lumen Gentium», 11). E come dato essenziale di fede sul valore e lo scopo della penitenza si deve riaffermare che il nostro salvatore Gesú Cristo istituí nella sua Chiesa il sacramento della penitenza, perché i fedeli caduti in peccato dopo il battesimo ricevessero la grazia e si riconciliassero con Dio.

La fede della Chiesa in questo sacramento comporta alcune altre verità fondamentali, che sono ineludibili. Il rito sacramentale della penitenza, nella sua evoluzione e variazione di forme pratiche, ha sempre conservato e messo in luce queste verità. Il Concilio Vaticano II, nel prescrivere la riforma di questo rito, intendeva far sí che esso esprimesse ancor piú chiaramente tali verità, e ciò è avvenuto nel nuovo «Rito della penitenza». Questo, infatti, ha assunto nella sua integrità la dottrina della tradizione raccolta dal Concilio Tridentino, trasferendola dal suo particolare contesto storico (quello di un deciso sforzo di chiarimento dottrinale di fronte alle gravi deviazioni dal genuino insegnamento della Chiesa) per tradurla fedelmente in termini piú aderenti al contesto del nostro tempo.

 

Alcune convinzioni fondamentali

31. Le menzionate verità, ribadite con forza e chiarezza dal Sinodo e presenti nelle «Propositiones», possono riassumersi nelle seguenti convinzioni di fede, intorno alle quali si raccolgono tutte le altre affermazioni della dottrina cattolica sul sacramento della penitenza.

I. La prima convinzione è che, per un cristiano, il sacramento della penitenza è la via ordinaria per ottenere il perdono e la remissione dei suoi peccati gravi commessi dopo il battesimo. Certo, il Salvatore e la sua azione salvifica non sono cosí legati ad un segno sacramentale, da non potere in qualsiasi tempo e settore della storia della salvezza operare al di fuori e al di sopra dei sacramenti. Ma alla scuola della fede noi apprendiamo che il medesimo Salvatore ha voluto e disposto che gli umili e preziosi sacramenti della fede siano ordinariamente i mezzi efficaci, per i quali passa e opera la sua potenza redentrice. Sarebbe dunque insensato, oltreché presuntuoso, voler prescindere arbitrariamente dagli strumenti di grazia e di salvezza che il Signore ha disposto e, nel caso specifico, pretendere di ricevere il perdono facendo a meno del sacramento, istituito da Cristo proprio per il perdono. Il rinnovamento dei riti, attuato dopo il Concilio, non autorizza alcuna illusione e alterazione in questa direzione. Esso doveva e deve servire, secondo l’intenzione della Chiesa, a suscitare in ciascuno di noi un nuovo slancio verso il rinnovamento del nostro atteggiamento interiore, cioè verso una comprensione piú profonda della natura del sacramento della penitenza; verso un’accoglienza di esso piú nutrita di fede, non ansiosa ma fiduciosa; verso una maggiore frequenza del sacramento, che si riconosce tutto pervaso dall’amore misericordioso del Signore.

II. La seconda convinzione riguarda la funzione del sacramento della penitenza per colui che vi ricorre. Esso è, secondo la piú antica tradizionale concezione, una specie di azione giudiziaria; ma questa si svolge presso un tribunale di misericordia, piú che di stretta e rigorosa giustizia, il quale non è paragonabile che per analogia ai tribunali umani, cioè in quanto il peccatore vi svela i suoi peccati e la sua condizione di creatura soggetta al peccato; si impegna a rinunciare e a combattere il peccato; accetta la pena (penitenza sacramentale) che il confessore gli impone e ne riceve l’assoluzione. Ma, riflettendo sulla funzione di questo sacramento, la coscienza della Chiesa vi scorge, oltre il carattere di giudizio nel senso accennato, un carattere terapeutico o medicinale. E questo si ricollega al fatto che è frequente nel Vangelo la presentazione di Cristo come medico, mentre la sua opera redentrice viene spesso chiamata, sin dall’antichità cristiana, «medicina salutis». «Io voglio curare, non accusare», diceva sant’Agostino riferendosi all’esercizio della pastorale penitenziale, ed è grazie alla medicina della confessione che l’esperienza del peccato non degenera in disperazione. Il «Rito della penitenza» allude a questo aspetto medicinale del sacramento, al quale l’uomo contemporaneo è forse piú sensibile, vedendo nel peccato, sí, ciò che comporta di errore, ma ancor piú ciò che dimostra in ordine alla debolezza e infermità umana. Tribunale di misericordia o luogo di guarigione spirituale, sotto entrambi gli aspetti, il sacramento esige una conoscenza dell’intimo del peccatore, per poterlo giudicare ed assolvere, per curarlo e guarirlo. E proprio per questo esso implica, da parte del penitente, l’accusa sincera e completa dei peccati, che ha pertanto una ragion d’essere non solo ispirata da fini ascetici (quale esercizio di umiltà e di mortificazione), ma inerente alla natura stessa del sacramento.

III. La terza convinzione, che tengo ad accentuare, riguarda le realtà o parti, che compongono il segno sacramentale del perdono e della riconciliazione. Alcune di queste realtà sono atti del penitente, di diversa importanza, ciascuno però indispensabile o alla validità, o all’integrità, o alla fruttuosità del segno. Una condizione indispensabile è, innanzitutto, la rettitudine e la limpidezza della coscienza del penitente. Un uomo non si avvia ad una vera e genuina penitenza, finché non scorge che il peccato contrasta con la norma etica, iscritta nell’intimo del proprio essere; finché non riconosce di aver fatto l’esperienza personale e responsabile di un tale contrasto; finché non dice non soltanto «il peccato c’è», ma «io ho peccato»; finché non ammette che il peccato ha introdotto nella sua coscienza una divisione, che pervade poi tutto il suo essere e lo separa da Dio e dai fratelli. Il segno sacramentale di questa limpidezza della coscienza è l’atto tradizionalmente chiamato esame di coscienza, atto che deve esser sempre non già un’ansiosa introspezione psicologica, ma il confronto sincero e sereno con la legge morale interiore, con le norme evangeliche proposte dalla Chiesa, con lo stesso Cristo Gesú, che è per noi maestro e modello di vita, e col Padre celeste, che ci chiama al bene e alla perfezione.

Ma l’atto essenziale della penitenza, da parte del penitente, è la contrizione, ossia un chiaro e deciso ripudio del peccato commesso insieme col proposito di non tornare a commetterlo, per l’amore che si porta a Dio e che rinasce col pentimento. Cosí intesa, la contrizione è, dunque, il principio e l’anima della conversione, di quella «metanoia» evangelica che riporta l’uomo a Dio come il figlio prodigo che ritorna al padre, e che ha nel sacramento della penitenza il suo segno visibile, perfezionativo della stessa attrizione. Perciò, «da questa contrizione del cuore dipende la verità della penitenza» («Ordo Paenitentiae», 6c).

Rimandando a tutto quanto la Chiesa, ispirata dalla parola di Dio, insegna circa la contrizione, mi preme qui sottolineare un solo aspetto di tale dottrina, che va meglio conosciuto e tenuto presente. Non di rado si considerano la conversione e la contrizione sotto il profilo delle innegabili esigenze, che esse comportano, e della mortificazione che esse impongono in vista di un radicale cambiamento di vita. Ma è bene ricordare e rilevare che contrizione e conversione sono ancor piú un avvicinamento alla santità di Dio, un ritrovare la propria verità interiore, turbata e sconvolta dal peccato, un liberarsi nel piú profondo di se stessi e, per questo, un riacquistare la gioia perduta, la gioia di essere salvati, che la maggioranza degli uomini del nostro tempo non sa piú gustare.

Si comprende, perciò, come fin dai primi tempi cristiani, in collegamento con gli apostoli e con Cristo, la Chiesa abbia incluso nel segno sacramentale della penitenza l’accusa dei peccati. Questa appare cosí rilevante, che da secoli il nome usuale del sacramento è stato ed è tuttora quello di confessione. Accusare i propri peccati è, anzitutto, richiesto dalla necessità che il peccatore sia conosciuto da colui che nel sacramento esercita il ruolo di giudice, il quale deve valutare sia la gravità dei peccati, sia il pentimento del penitente, e insieme il ruolo di medico, il quale deve conoscere lo stato dell’infermo per curarlo e guarirlo. Ma la confessione individuale ha anche il valore di segno: segno dell’incontro del peccatore con la mediazione ecclesiale nella persona del ministro; segno del suo scoprirsi al cospetto di Dio e della Chiesa come peccatore, del suo chiarirsi a se stesso sotto lo sguardo di Dio. L’accusa dei peccati, dunque, non è riducibile ad un qualsiasi tentativo di autoliberazione psicologica, anche se corrisponde a quel legittimo e naturale bisogno di aprirsi a qualcuno, che è insito nel cuore umano: è un gesto liturgico, solenne nella sua drammaticità, umile e sobrio nella grandezza del suo significato. È il gesto del figlio prodigo, che ritorna al Padre ed è accolto da lui col bacio della pace; gesto di lealtà e di coraggio; gesto di affidamento di se stessi, al di là del peccato, alla misericordia che perdona. Si capisce allora perché l’accusa dei peccati deve essere ordinariamente individuale e non collettiva, come il peccato è un fatto profondamente personale. Nello stesso tempo, però, questa accusa strappa in certo modo il peccato dal segreto del cuore e, quindi, dall’ambito della pura individualità, mettendo in risalto anche il suo carattere sociale, perché mediante il ministro della penitenza è la comunità ecclesiale, lesa dal peccato, che accoglie di nuovo il peccatore pentito e perdonato.

L’altro momento essenziale del sacramento della penitenza compete questa volta al confessore giudice e medico, immagine di Dio Padre che accoglie e perdona colui che ritorna: è l’assoluzione. Le parole che la esprimono e i gesti che la accompagnano nell’antico e nel nuovo «Rito della penitenza» rivestono una significativa semplicità nella loro grandezza. La formula sacramentale: «Io ti assolvo...», l’imposizione della mano e il segno della croce, tracciato sul penitente, manifestano che in quel momento il peccatore contrito e convertito entra in contatto con la potenza e la misericordia di Dio. È il momento nel quale, in risposta al penitente, la Trinità si fa presente per cancellare il suo peccato e restituirgli l’innocenza, e la forza salvifica della passione, morte e risurrezione di Gesú è comunicata al medesimo penitente, quale «misericordia piú forte della colpa e dell’offesa», come ebbi a definirla nell’enciclica «Dives in Misericordia». Dio è sempre il principale offeso dal peccato - «tibi soli peccavi!» -, e solo Dio può perdonare. Perciò, l’assoluzione che il sacerdote, ministro del perdono, benché egli stesso peccatore, concede al penitente, è il segno efficace dell’intervento del Padre in ogni assoluzione e della «risurrezione» dalla «morte spirituale», che si rinnova ogni volta che si attua il sacramento della penitenza. Soltanto la fede può assicurare che in quel momento ogni peccato è rimesso e cancellato per il misterioso intervento del Salvatore.

La soddisfazione è l’atto finale, che corona il segno sacramentale della penitenza. In alcuni paesi ciò che il penitente perdonato e assolto accetta di compiere dopo aver ricevuto l’assoluzione, si chiama appunto penitenza. Qual è il significato di questa soddisfazione che si presta, o di questa penitenza che si compie? Non è certo il prezzo che si paga per il peccato assolto e per il perdono acquistato: nessun prezzo umano può equivalere a ciò che si è ottenuto, frutto del preziosissimo sangue di Cristo. Le opere della soddisfazione - che, pur conservando un carattere di semplicità e umiltà, dovrebbero essere rese piú espressive di tutto ciò che significano - vogliono dire alcune cose preziose: esse sono il segno dell’impegno personale che il cristiano ha assunto con Dio, nel sacramento, di cominciare un’esistenza nuova (e perciò non dovrebbero ridursi soltanto ad alcune formule da recitare, ma consistere in opere di culto, di carità, di misericordia, di riparazione); includono l’idea che il peccatore perdonato è capace di unire la sua propria mortificazione fisica e spirituale, ricercata o almeno accettata, alla passione di Gesú che gli ha ottenuto il perdono; ricordano che anche dopo l’assoluzione rimane nel cristiano una zona d’ombra, dovuta alle ferite del peccato, all’imperfezione dell’amore nel pentimento, all’indebolimento delle facoltà spirituali, in cui opera ancora un focolaio infettivo di peccato, che bisogna sempre combattere con la mortificazione e la penitenza. Tale è il significato dell’umile, ma sincera soddisfazione.

IV. Resta da fare un breve accenno ad altre importanti convinzioni circa il sacramento della penitenza. Anzitutto, bisogna ribadire che nulla è piú personale e intimo di questo sacramento, nel quale il peccatore si trova al cospetto di Dio, solo con la sua colpa, il suo pentimento e la sua fiducia. Nessuno può pentirsi al suo posto o può chiedere perdono in suo nome. C’è una certa solitudine del peccatore nella sua colpa, che si può vedere drammaticamente rappresentata in Caino col peccato «accovacciato alla sua porta», come dice tanto efficacemente il libro della Genesi, e col particolare segno, inciso sulla sua fronte; o in Davide, rimproverato dal profeta Natan; o nel figlio prodigo, quando prende coscienza della condizione, a cui si è ridotto per la lontananza dal padre, e decide di tornare a lui: tutto ha luogo soltanto fra l’uomo e Dio. Ma, nello stesso tempo, è innegabile la dimensione sociale di questo sacramento, nel quale è l’intera Chiesa - quella militante, quella purgante e quella gloriosa del cielo - che interviene in soccorso del penitente e lo accoglie di nuovo nel suo grembo, tanto piú che tutta la Chiesa era stata offesa e ferita dal suo peccato. Il sacerdote, ministro della penitenza, appare in forza del suo ufficio sacro come testimone e rappresentante di tale ecclesialità. Sono due aspetti complementari del sacramento l’individualità e l’ecclesialità, che la progressiva riforma del rito della penitenza, specialmente quella dell’«Ordo paenitentiae» promulgata da Paolo VI, ha cercato di mettere in risalto e di rendere piú significativi nella sua celebrazione.

V. È da sottolineare, poi, che il frutto piú prezioso del perdono ottenuto nel sacramento della penitenza consiste nella riconciliazione con Dio, la quale avviene nel segreto del cuore del figlio prodigo e ritrovato, che è ciascun penitente. Ma bisogna aggiungere che tale riconciliazione con Dio ha come conseguenza, per cosí dire, altre riconciliazioni, che rimediano ad altrettante rotture, causate dal peccato: il penitente perdonato si riconcilia con se stesso nel fondo piú intimo del proprio essere, in cui ricupera la propria verità interiore; si riconcilia con i fratelli, da lui in qualche modo aggrediti e lesi; si riconcilia con la Chiesa; si riconcilia con tutto il creato. Da questa consapevolezza nasce nel penitente, al termine della celebrazione, il senso della gratitudine a Dio per il dono della misericordia ottenuta, a cui lo invita la Chiesa. Ogni confessionale è uno spazio privilegiato e benedetto, dal quale, cancellate le divisioni, nasce nuovo e incontaminato un uomo riconciliato - un mondo riconciliato!

VI. Infine, mi sta particolarmente a cuore fare un’ultima considerazione, che riguarda tutti noi sacerdoti, che siamo i ministri del sacramento della penitenza, ma ne siamo pure - e dobbiamo esserne - i beneficiari. La vita spirituale e pastorale del sacerdote, come quella dei suoi fratelli laici e religiosi, dipende, per la sua qualità e il suo fervore, dall’assidua e coscienziosa pratica personale del sacramento della penitenza. La celebrazione dell’eucaristia e il ministero degli altri sacramenti, lo zelo pastorale, il rapporto con i fedeli, la comunione con i confratelli, la collaborazione col vescovo, la vita di preghiera, in una parola tutta l’esistenza sacerdotale subisce un inesorabile scadimento, se viene a mancarle, per negligenza o per qualsiasi altro motivo, il ricorso, periodico e ispirato da autentica fede e devozione, al sacramento della penitenza. In un prete che non si confessasse piú o si confessasse male, il suo essere prete e il suo fare il prete ne risentirebbero molto presto, e se ne accorgerebbe anche la comunità, di cui egli è pastore.

Ma aggiungo pure che, persino per essere un buono ed efficace ministro della penitenza, il sacerdote ha bisogno di ricorrere alla sorgente di grazia e santità presente in questo sacramento. Noi sacerdoti, in base alla nostra personale esperienza, possiamo ben dire che, nella misura in cui siamo attenti a ricorrere al sacramento della penitenza e ci accostiamo ad esso con frequenza e con buone disposizioni, adempiamo meglio il nostro stesso ministero di confessori e ne assicuriamo il beneficio ai penitenti. Perderebbe, invece, molto della sua efficacia questo ministero, se in qualche modo tralasciassimo di essere buoni penitenti. Tale è la logica interna di questo grande sacramento. Esso invita noi tutti, sacerdoti di Cristo, a una rinnovata attenzione alla nostra confessione personale.

A sua volta, l’esperienza diventa e deve diventare oggi uno stimolo all’esercizio diligente, regolare, paziente, fervoroso del sacro ministero della penitenza, al quale siamo impegnati in forza del nostro sacerdozio e della nostra vocazione ad essere pastori e servitori dei nostri fratelli. Anche con la presente esortazione rivolgo, dunque, un insistente invito a tutti i sacerdoti del mondo, specialmente ai miei confratelli nell’episcopato e ai parroci, perché favoriscano con tutte le forze la frequenza dei fedeli a questo sacramento, e mettano in opera tutti i mezzi possibili e convenienti, tentino tutte le vie per far pervenire al maggior numero di nostri fratelli la «grazia che a noi è stata data» mediante la penitenza per la riconciliazione di ogni anima e di tutto il mondo con Dio, in Cristo.

 

Le forme della celebrazione

32. Seguendo le indicazioni del Concilio Vaticano II, l’«Ordo paenitentiae» ha predisposto tre riti che, salvi sempre gli elementi essenziali, permettono di adattare la celebrazione del sacramento della penitenza a determinate circostanze pastorali. La prima forma - riconciliazione dei singoli penitenti - costituisce l’unico modo normale e ordinario della celebrazione sacramentale, e non può né deve essere lasciata cadere in disuso o essere trascurata. La seconda - riconciliazione di piú penitenti con confessione e assoluzione individuale -, anche se negli atti preparatori permette di sottolineare di piú gli aspetti comunitari del sacramento, raggiunge la prima forma nell’atto sacramentale culminante, che è la confessione e l’assoluzione individuale dei peccati, e perciò può essere equiparata alla prima forma per quanto riguarda la normalità del rito. La terza, invece - riconciliazione di piú penitenti con la confessione e l’assoluzione generale - riveste un carattere di eccezionalità, e non è, quindi, lasciata alla libera scelta, ma è regolata da un’apposita disciplina.

La prima forma consente la valorizzazione degli aspetti piú propriamente personali - ed essenziali - che son compresi nell’itinerario penitenziale. Il dialogo tra penitente e confessore, l’insieme stesso degli elementi utilizzati (i testi biblici, la scelta delle forme di «soddisfazione», ecc.) sono elementi che rendono la celebrazione sacramentale piú rispondente alla concreta situazione del penitente. Si scopre il valore di tali elementi, quando si pensa alle diverse ragioni che portano un cristiano alla penitenza sacramentale: un bisogno di personale riconciliazione e riammissione all’amicizia con Dio, riacquistando la grazia perduta a causa del peccato; un bisogno di verifica del cammino spirituale e, a volte, di un piú puntuale discernimento vocazionale; tante altre volte un bisogno e un desiderio di uscire da uno stato di apatia spirituale e di crisi religiosa. Grazie, poi, alla sua indole individuale la prima forma di celebrazione permette di associare il sacramento della penitenza a qualcosa di diverso, ma ben conciliabile con esso: mi riferisco alla direzione spirituale. È certo, dunque, che la decisione e l’impegno personali sono chiaramente significati e promossi in questa prima forma.

La seconda forma di celebrazione, proprio per il suo carattere comunitario e per la modalità che la distingue, dà risalto ad alcuni aspetti di grande importanza: la parola di Dio ascoltata in comune ha un singolare effetto rispetto alla sua lettura individuale, e sottolinea meglio il carattere ecclesiale della conversione e della riconciliazione. Essa risulta particolarmente significativa nei diversi tempi dell’anno liturgico e in connessione con avvenimenti di speciale rilevanza pastorale. Basti qui solo accennare che per tale celebrazione è opportuna la presenza di un numero sufficiente di confessori.

È naturale, pertanto, che i criteri per stabilire a quale delle due forme di celebrazione si debba ricorrere vengano dettati non da motivazioni congiunturali e soggettive, ma dalla volontà di ottenere il vero bene spirituale dei fedeli, in obbedienza alla disciplina penitenziale della Chiesa.

Sarà bene anche ricordare che, per un equilibrato orientamento spirituale e pastorale in merito, è necessario continuare ad attribuire grande valore ed educare i fedeli al ricorso al sacramento della penitenza anche solo per i peccati veniali, come attestano una tradizione dottrinale e una prassi ormai secolari.

Pur sapendo e insegnando che i peccati veniali vengono perdonati anche in altri modi - si pensi agli atti di dolore, alle opere di carità, alla preghiera, ai riti penitenziali -, la Chiesa non cessa di ricordare a tutti la singolare ricchezza del momento sacramentale anche in riferimento a tali peccati. Il ricorso frequente al sacramento - a cui sono tenute alcune categorie di fedeli - rafforza la consapevolezza che anche i peccati minori offendono Dio e feriscono la Chiesa, corpo di Cristo, e la sua celebrazione diventa per loro «l’occasione e lo stimolo a conformarsi piú intimamente a Cristo e a rendersi piú docili alla voce dello Spirito» («Ordo Paenitentiae», 7b). Soprattutto è da sottolineare il fatto che la grazia propria della celebrazione sacramentale ha una grande virtú terapeutica e contribuisce a togliere le radici stesse del peccato.

La cura dell’aspetto celebrativo, con particolare riferimento all’importanza della parola di Dio, letta, richiamata e spiegata, quando sia possibile e opportuno, ai fedeli e con i fedeli, contribuirà a vivificare la pratica del sacramento e a impedire che scada in qualcosa di formalistico e abitudinario. Il penitente sarà piuttosto aiutato a scoprire che sta vivendo un evento di salvezza, capace di infondere un nuovo slancio di vita e una vera pace nel cuore. Questa cura per la celebrazione porterà, fra l’altro, a fissare nelle singole Chiese dei tempi appositi per la celebrazione del sacramento, e a educare i fedeli, specialmente i fanciulli e i giovani, ad attenervisi in via ordinaria, salvo i casi di necessità, nei quali il pastore d’anime dovrà sempre dimostrarsi pronto ad accogliere volentieri chi ricorre a lui.

 

La celebrazione del sacramento con assoluzione generale

33. Nel nuovo ordinamento liturgico e, piú recentemente, nel nuovo Codice di Diritto Canonico («Codex Iuris Canonici», can. 961-963), si precisano le condizioni che legittimano il ricorso al «rito della riconciliazione di piú penitenti con la confessione e l’assoluzione generale». Le norme e gli ordinamenti dati su questo punto, frutto di matura ed equilibrata considerazione, devono essere accolti e applicati evitando ogni tipo di interpretazione arbitraria.

È opportuno riflettere in maniera piú approfondita sulle motivazioni, che impongono la celebrazione della penitenza in una delle prime due forme e consentono il ricorso alla terza forma. Vi è, anzitutto, una motivazione di fedeltà alla volontà del Signore Gesú, trasmessa dalla dottrina della Chiesa, e di obbedienza, altresí, alle leggi della Chiesa; il Sinodo ha ribadito in una delle sue «Propositiones» l’immutato insegnamento, che la Chiesa ha attinto alla piú antica tradizione, e la legge, con cui essa ha codificato l’antica prassi penitenziale: la confessione individuale e integra dei peccati con l’assoluzione egualmente individuale costituisce l’unico modo ordinario, con cui il fedele, consapevole di peccato grave, è riconciliato con Dio e con la Chiesa. Da questa riconferma dell’insegnamento della Chiesa risulta chiaramente che ogni peccato grave deve essere sempre dichiarato, con le sue circostanze determinanti, in una confessione individuale.

Vi è, poi, una motivazione di ordine pastorale. Se è vero che, ricorrendo le condizioni richieste dalla disciplina canonica, si può fare uso della terza forma di celebrazione, non si deve però dimenticare che questa non può diventare una forma ordinaria, e che non può e non deve essere adoperata - lo ha ripetuto il Sinodo - se non «in casi di grave necessità», fermo restando l’obbligo di confessare individualmente i peccati gravi prima di ricorrere di nuovo a un’altra assoluzione generale. Il vescovo, pertanto, al quale soltanto spetta, nell’ambito della sua diocesi, di valutare se esistano in concreto le condizioni che la legge canonica stabilisce per l’uso della terza forma, darà questo giudizio con grave onere della sua coscienza, nel pieno rispetto della legge e della prassi della Chiesa, e tenendo conto, altresí, dei criteri e degli orientamenti concordati - sulla base delle considerazioni dottrinali e pastorali sopra esposte - con gli altri membri della conferenza episcopale. Parimenti, sarà sempre un’autentica preoccupazione pastorale a porre e garantire le condizioni che rendono il ricorso alla terza forma capace di dare quei frutti spirituali, per i quali essa è prevista. Né l’uso eccezionale della terza forma di celebrazione dovrà mai condurre ad una minore considerazione, tanto meno all’abbandono, delle forme ordinarie, né a ritenere tale forma come alternativa delle altre due: non è, infatti, lasciato alla libertà dei pastori e dei fedeli di scegliere fra le menzionate forme di celebrazione quella ritenuta piú opportuna. Ai pastori rimane l’obbligo di facilitare ai fedeli la pratica della confessione integra e individuale dei peccati, che costituisce per essi non solo un dovere, ma anche un diritto inviolabile e inalienabile, oltre che un bisogno dell’anima. Per i fedeli l’uso della terza forma di celebrazione comporta l’obbligo di attenersi a tutte le norme che ne regolano l’esercizio, compresa quella di non ricorrere di nuovo all’assoluzione generale prima di una regolare confessione integra e individuale dei peccati, che deve essere fatta non appena possibile. Di questa norma e dell’obbligo di osservarla i fedeli devono essere avvertiti e istruiti dal sacerdote prima dell’assoluzione.

Con questo richiamo alla dottrina e alla legge della Chiesa intendo inculcare in tutti il vivo senso di responsabilità, che deve guidarci nel trattare le cose sacre, le quali non sono di nostra proprietà, come i sacramenti, o hanno diritto a non essere lasciate nell’incertezza e nella confusione, come le coscienze. Cose sacre - ripeto - sono le une e le altre - i sacramenti e le coscienze -, ed esigono da parte nostra di essere servite nella verità.

Questa è la ragione della legge della Chiesa.

 

Alcuni casi piú delicati

34. Ritengo di dover fare a questo punto un accenno, sia pur brevissimo, a un caso pastorale che il Sinodo ha voluto trattare - per quanto gli era possibile farlo -, contemplandolo anche in una delle «Propositiones». Mi riferisco a certe situazioni, oggi non infrequenti, in cui vengono a trovarsi cristiani desiderosi di continuare la pratica religiosa sacramentale, ma che ne sono impediti dalla condizione personale in contrasto con gli impegni liberamente assunti davanti a Dio e alla Chiesa. Sono situazioni che appaiono particolarmente delicate e quasi inestricabili.

Non pochi interventi nel corso del Sinodo, esprimendo il pensiero generale dei padri, hanno messo in luce la coesistenza e il mutuo influsso di due principi, egualmente importanti, in merito a questi casi. Il primo è il principio della compassione e della misericordia, secondo il quale la Chiesa, continuatrice nella storia della presenza e dell’opera di Cristo, non volendo la morte del peccatore ma che si converta e viva, attenta a non spezzare la canna incrinata e a non spegnere il lucignolo che fumiga ancora, cerca sempre di offrire, per quanto le è possibile, la via del ritorno a Dio e della riconciliazione con lui. L’altro è il principio della verità e della coerenza, per cui la Chiesa non accetta di chiamare bene il male e male il bene. Basandosi su questi due principi complementari, la Chiesa non può che invitare i suoi figli, i quali si trovano in quelle situazioni dolorose, ad avvicinarsi alla misericordia divina per altre vie, non però per quella dei sacramenti della penitenza e dell’eucaristia, finché non abbiano raggiunto le disposizioni richieste.

Circa questa materia, che affligge profondamente anche il nostro cuore di pastori, è sembrato mio preciso dovere dire parole chiare nell’esortazione apostolica «Familiaris Consortio», per quanto riguarda il caso di divorziati risposati, o comunque di cristiani che convivono irregolarmente.

Al tempo stesso, sento il vivo dovere di esortare, insieme col Sinodo, le comunità ecclesiali e, soprattutto, i vescovi a portare ogni aiuto possibile ai sacerdoti, che, venendo meno ai gravi impegni assunti nell’ordinazione si trovano in situazioni irregolari. Nessuno di questi fratelli deve sentirsi abbandonato dalla Chiesa. Per tutti coloro che non si trovano attualmente nelle condizioni oggettive richieste dal sacramento della penitenza, le dimostrazioni di materna bontà da parte della Chiesa, il sostegno di atti di pietà diversi da quelli sacramentali, lo sforzo sincero di mantenersi in contatto col Signore, la partecipazione alla santa messa, la ripetizione frequente di atti di fede, di speranza, di carità, di dolore il piú possibile perfetti, potranno preparare il cammino per una piena riconciliazione nell’ora che solo la Provvidenza conosce.

 

 

 

AUSPICIO CONCLUSIVO

 

35. Al termine di questo documento, sento echeggiare in me e desidero ripetere a voi tutti l’esortazione che il primo vescovo di Roma, in un’ora critica degli albori della Chiesa, volle indirizzare «ai fedeli nella diaspora (...), eletti secondo la prescienza di Dio Padre: siate tutti concordi, partecipi delle gioia e dei dolori degli altri, animati da affetto fraterno, misericordiosi, umili». L’apostolo raccomandava: «Siate tutti concordi...»; ma subito proseguiva col segnalare i peccati contro la concordia e la pace, che bisogna evitare: «Non rendete male per male, né ingiuria per ingiuria, ma, al contrario, rispondete benedicendo, poiché a questo siete stati chiamati per avere in eredità la benedizione». E concludeva con una parola di incoraggiamento e di speranza: «Chi vi potrà fare del male, se sarete ferventi nel bene?».

Oso riallacciare la mia esortazione, in un’ora non meno critica della storia, a quella del principe degli apostoli, che per primo sedette su questa cattedra romana, come testimone di Cristo e pastore della Chiesa, e qui «presiedette alla carità» di fronte al mondo intero. Anch’io, in comunione con i vescovi successori degli apostoli, e confortato dalla riflessione collegiale che molti di essi, riuniti nel Sinodo, hanno dedicato ai temi e problemi della riconciliazione, ho voluto comunicarvi con lo stesso spirito del pescatore di Galilea quanto egli diceva ai nostri fratelli di fede, lontani nel tempo e cosí uniti nel cuore: «Siate tutti concordi (...), non rendete male per male (...), siate ferventi nel bene». E aggiungeva: «È meglio infatti, se cosí vuole Dio, soffrire operando il bene piuttosto che fare il male» (1Pt 3,17). Questa consegna è tutta pervasa da parole, che Pietro aveva ascoltato dallo stesso Gesú, e da concetti che facevano parte della sua «lieta novella»: il nuovo comandamento dell’amore vicendevole; l’anelito e l’impegno all’unità; le beatitudini della misericordia e della pazienza nella persecuzione per la giustizia; il ripagare il male col bene; il perdono delle offese; l’amore ai nemici. In tali parole e concetti è la sintesi originale e trascendente dell’etica cristiana o, meglio e piú profondamente, della spiritualità dell’alleanza nuova in Gesú Cristo.

 

Affido al Padre, 
ricco di misericordia, 
affido al Figlio di Dio, 
fatto uomo come nostro redentore 
e riconciliatore, 
affido allo Spirito Santo, 
sorgente di unità e di pace, 
questo mio appello di padre e di pastore 
alla penitenza e alla riconciliazione. 
Voglia la Trinità santissima e adorabile 
far germinare nella Chiesa e nel mondo 
il piccolo seme, che in quest’ora 
consegno alla terra generosa 
di tanti cuori umani.
Perché ne provengano 
in un giorno non lontano copiosi frutti, 
vi invito tutti a rivolgervi con me 
al cuore di Cristo, 
segno eloquente 
della divina misericordia, 
«propiziazione per i nostri peccati», 
«nostra pace e riconciliazione», 
per attingervi la spinta interiore 
verso la detestazione del peccato 
e la conversione a Dio, 
e trovarvi la benignità divina 
che risponde amorosamente 
al pentimento umano.
Vi invito pure a rivolgervi con me 
al cuore immacolato di Maria, 
Madre di Gesú, 
nella quale «si è operata 
la riconciliazione di Dio 
con l’umanità (...), 
si è compiuta l’opera della riconciliazione, 
perché ella ha ricevuto da Dio 
la pienezza della grazia 
in virtú del sacrificio redentore di Cristo». 
In verità, Maria è diventata 
«l’alleata di Dio», 
in virtú della sua maternità divina, 
nell’opera della riconciliazione.
Alle mani di questa Madre, 
il cui «fiat» segnò l’inizio 
di quella «pienezza dei tempi», 
nella quale fu attuata da Cristo 
la riconciliazione dell’uomo con Dio, 
e al suo cuore immacolato 
- al quale abbiamo ripetutamente affidato 
l’intera umanità, 
turbata dal peccato 
e straziata da tante tensioni e conflitti 
- affido ora in special modo questa intenzione: 
che, per la sua intercessione, 
l’umanità stessa scopra e percorra 
la via della penitenza, l’unica che 
potrà condurla alla piena riconciliazione.

 

A tutti voi, che con spirito di ecclesiale comunione nell’obbedienza e nella fede, vorrete accogliere le indicazioni, i suggerimenti e le direttive contenute in questo documento, studiandovi di tradurle in vitale prassi pastorale, imparto ben volentieri la confortatrice benedizione apostolica.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 2 dicembre, I domenica di avvento, dell’anno 1984, settimo del mio Pontificato.

Giovanni Paolo II

 

 

 

 

 

 

N. B. Si raccomanda la consultazione dei testi originali presso il sito della Santa Sede. È inoltre possibile richiedere i documenti presso il sito della Libreria Editrice Vaticana.