0. Premessa

Non è da oggi che teologi, canonisti, pastoralisti e sociologi discutono e confrontano opinioni e proposte sul delicato tema dei fedeli divorziati risposati, della loro cura pastorale, delle nullità matrimoniali e delle procedure canoniche per dichiararle tali. Anche su alcune riviste si è scritto sull'argomento; ma non pochi ragionamenti hanno suscitato riserve, perché in contrasto con il Magistero della Chiesa piú volte ricordato in pronunciamenti ufficiali. Nessuna riserva, ovviamente, anzi il riconoscimento di un merito, quando si ribadisce la necessità di una pastorale piú seria e rigorosa nella fase di preparazione al matrimonio, in presenza di una cultura diffusa che mina le basi umane e cristiane dell'istituto matrimoniale e della vita familiare, tenuto anche conto che molti giovani non hanno un'idea chiara circa la natura sacramentale e le proprietà essenziali del matrimonio cristiano.

Questa nuova situazione è una sfida pastorale che la Chiesa deve affrontare con coraggio e fiducia. Molta strada resta da percorrere nel campo della pastorale pre-matrimoniale, non riducibile a pochi incontri di catechesi che precedono la celebrazione del sacramento. Non si può essere d'accordo invece quando si dice che il trattamento ecclesiale dei fedeli divorziati risposati da parte dell'istituzione ecclesiastica e di gran parte dell'azione pastorale è discriminatorio rispetto agli altri, perché essi durante la Messa non possono accedere alla mensa eucaristica e che è un trattamento permeato di sfiducia verso l'uomo in quanto non è tenuta in nessun conto la coscienza soggettiva delle persone coinvolte.

La Chiesa - si afferma - dovrebbe avere il coraggio di rivedere le procedure canoniche delle dichiarazioni di nullità matrimoniale che sono lunghe, penose e onerose, riconoscendo, a seguito di un semplice giuramento, l'inesistenza indimostrabile in foro esterno del vincolo e il diritto ad un altro matrimonio. D'altra parte - si argomenta - quando la fede non c'è e si è subito un battesimo non richiesto, perché l'unico matrimonio valido è il matrimonio sacramento? In questa linea infine si auspicherebbe un piú ampio esercizio del "potere delle chiavi" per la risoluzione di vincoli matrimoniali solo formalmente contratti.

 

 

1. Accompagnamento pastorale dei divorziati risposati

Leggendo i diversi interventi del Magistero sull'argomento appare evidente che le cose non stanno cosí. La preoccupazione pastorale per la condizione umana e spirituale di questi battezzati può essere colta nello spirito e nella lettera di tutti i testi. La Chiesa non chiude gli occhi davanti a un dato di fatto sempre piú preoccupante: il crescente numero di battezzati con matrimoni falliti e famiglie distrutte, di situazioni umane cariche di sofferenza, di fedeli divorziati risposati o semplicemente conviventi. Essa non ignora che tra i divorziati risposati vi sono battezzati abbandonati senza loro colpa o in coscienza soggettivamente certi della invalidità del loro matrimonio, irreparabilmente distrutto. Sa che questi cristiani si sentono per lo piú non capiti nei loro drammi umani, né in molti casi aiutati dalla comunità cristiana.

Se la Chiesa «non accetta di chiamare bene il male e male il bene» [1] tuttavia essa non abbandona questi suoi membri né li considera separati dalla comunità cristiana, ma al contrario li sostiene e li esorta a partecipare alla vita ecclesiale mettendo a loro disposizione gli aiuti spirituali necessari. L'atteggiamento di misericordia della Chiesa verso di essi si concretizza in un accompagnamento pastorale, in premurosa vicinanza che li faccia sentire accolti, inseriti e fatti partecipi della comunità ecclesiale, anche se limitati nell'esercizio di alcuni diritti che spettano a tutti i cristiani. Questo atteggiamento attivo dei pastori, sollecitato dal Magistero pontificio [2], è teso a creare uno stile ecclesiale che visibilizzi nei fatti la misericordia della Chiesa.

D'altra parte, la pastorale dei fedeli divorziati risposati non può ridursi solo all'ammissione ai sacramenti, ma deve estendersi alla loro posizione nella vita della comunità ecclesiale globalmente considerata. E senza mai dimenticare che la prima forma di misericordia rimane sempre quella di suggerire a questi cristiani, con prudenza e rispetto, percorsi concreti di conversione. Ma se la Chiesa deve mostrare compassione e misericordia, essa non può rinunciare alla verità e alla coerenza.

 

 

2. Impedimento a ricevere l'Eucaristia per i divorziati risposati

Ma veniamo al merito delle questioni sollevate. La prassi della Chiesa di non ammettere alla Comunione eucaristica i fedeli divorziati risposati irregolarmente non ha alcun carattere discriminatorio; essa deriva necessariamente, anche se dolorosamente, dall'esserne essi impediti dalla condizione personale in contrasto con la verità evangelica sull'indissolubilità del matrimonio e con i conseguenti impegni liberamente assunti davanti a Dio e alla Chiesa con la celebrazione del sacramento. Il loro stato e la loro condizione di vita, anche questi liberamente scelti, «contraddicono oggettivamente a quell'unione di amore a Cristo e alla Chiesa, significata e attuata dall'Eucaristia» [3].

Ricevere l'Eucaristia presuppone una vita di piena comunione con Cristo e con la Chiesa o di avvenuta riconciliazione mediante il sacramento della Penitenza accordata a chi, veramente pentito, ha rimosso una pratica di vita in contrasto con il matrimonio cristiano, vale a dire con quel patto d'amore "nel Signore" (cf. 1Cor 7,39) configurato da Dio nella creazione ed elevato nella fede a significare e attuare il "mistero grande" dell'amore di Cristo per la sua Chiesa (cf. Ef 5,32), che come tale esige l'unità e l'indissolubilità. La condizione di fedele divorziato risposato non consente di vivere in modo veritiero il mistero eucaristico per il perdurare di una unione che non è nel Signore [4]. Da questa linea il Magistero universale della Chiesa, cui spetta interpretare autenticamente il depositum fidei, non ha mai inteso derogare. Pertanto «tale prassi, presentata come vincolante, non può essere modificata in base alle differenti situazioni» personali [5].

Per questa ragione alcune affermazioni contenute nel documento, per molti aspetti apprezzabile, dei vescovi tedeschi dell'Oberrhein sono state dichiarate inaccettabili dal Magistero universale, perché andavano oltre le indicazioni precise dell'esortazione apostolica Familiaris consortio, in quanto non rispettavano pienamente le conseguenze derivanti dall'indissolubilità del matrimonio [6].

In secondo luogo, non è da sottovalutare «un altro peculiare motivo pastorale: se si ammettessero queste persone all'Eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina dell'indissolubilità del matrimonio» [7]. Nel clima culturale del nostro tempo segnato dal prevalere del "pensiero debole" e dalla teoria dei "frammenti di verità", che ha condotto allo sbriciolamento dei valori, sicché ognuno può scegliere quelle verità e quei valori che ritiene piú convenienti alla sua situazione soggettiva, e ha generato concezioni di vita ispirate al pluralismo culturale, al soggettivismo, al relativismo e al pragmatismo, la purezza della fede e la coerenza morale richiedono che la disciplina canonica tenga nella debita considerazione questa esigenza di bene comune, perché la Chiesa, fedele al mandato del Signore, custodisca e proclami a tutti il vangelo del matrimonio cristiano.

Nondimeno nel caso di fedeli divorziati risposati, particolarmente di quelli in età avanzata o di altri che, per seri motivi, come la malattia, la presenza di figli bisognosi di aiuto o di educazione, non possono separarsi, ma «assumano l'impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi» [8], la Chiesa non preclude loro l'accesso all'assoluzione sacramentale e alla comunione eucaristica, ma domanda loro che lo facciano avendo cura di non procurare scandalo negli altri fedeli, cioè si accostino all'Eucaristia in luoghi in cui la loro condizione non è conosciuta [9].

 

 

3. Procedure canoniche per la dichiarazione di nullità matrimoniale

Quanto poi alla seconda questione, riguardante le procedure canoniche per la dichiarazione di nullità matrimoniale, che queste opinioni vorrebbero superare sostituendole con un semplice giuramento dei soggetti interessati, i quali in coscienza sostengono l'inesistenza del vincolo, bisogna rispondere che questa strada non è percorribile per piú di una ragione.

La principale è che il matrimonio, quantunque sia posto in essere da volontà privata, è una realtà pubblica nella Chiesa, in quanto «crea per ciascuno dei coniugi e per la coppia una situazione specificamente ecclesiale e sociale» [10]. Pertanto non può essere attribuito alla coscienza personale dei fedeli il potere di decidere, sulla base della propria convinzione dell'esistenza o meno del matrimonio, «che non riguarda solo un rapporto immediato tra l'uomo e Dio, come se si potesse fare a meno di quella mediazione ecclesiale, che include anche le leggi canoniche obbliganti in coscienza. Non riconoscere questo essenziale aspetto significherebbe negare di fatto che il matrimonio esiste come realtà della Chiesa, vale a dire, come sacramento» [11].

Già dal punto di vista naturale l'unione sponsale tra l'uomo e la donna va oltre la sfera della vita strettamente privata per attingere importanti aspetti sociali giuridicamente rilevanti che lo Stato disciplina. Il sacramento del matrimonio poi completa ed eleva l'unione sponsale primordiale a "mistero", chiamando gli sposi non solo a donarsi reciprocamente ma a consacrarsi «a Colui che è lo sposo per eccellenza e che insegnerà loro a diventare anch'essi dei coniugi realizzati» [12].

La parola della Genesi, ripresa da Gesú: «Quello che Dio ha congiunto, l'uomo non lo separi» (Mt 19,6), in Cristo diventa vera, perché l'uomo e la donna per la grazia dello Spirito Santo si amano come Dio da sempre vuole che lo facciano e il loro amore diventa l'immagine stessa e il "sacramento" dell'amore che Cristo ha per la Chiesa. Gli sposi sono sí i ministri del sacramento, ma di un sacramento che è un bene pubblico, perché appartiene interamente al mistero della Chiesa, è celebrato con il consenso della Chiesa, nella forma voluta e con le disposizioni da essa richieste. Non può dunque la Chiesa delegare agli sposi il giudizio di validità o meno del matrimonio senza compromettere un bene pubblico che va difeso di per sé e sul quale sono chiamate a intervenire le istanze ecclesiali competenti.

Crediamo di poter affermare che la fedele custodia da parte della Chiesa della dottrina teologica sulla natura del matrimonio come della stessa vita matrimoniale nata dalla celebrazione del sacramento è parte essenziale del mandato ricevuto da Cristo. Essa non è libera di modificarle in contrasto con la volontà di Cristo raccolta nella Sacra Scrittura e nella Tradizione. E proprio mentre protegge il vangelo del matrimonio rende un irrinunciabile servizio alla famiglia, anche a quella in crisi.

In questa direzione, certo, non si possono escludere per principio possibili semplificazioni, da parte dell'autorità competente, del processo canonico; ciò che tuttavia deve restare fermo è la difesa del carattere pubblico del vincolo matrimoniale e insieme dei diritti delle parti. Inoltre, chiarezza vuole che si distinguano le diverse situazioni, vale a dire i casi di matrimoni canonicamente validi, quelli dubbiamente validi e quelli che dalle parti sono ritenuti in coscienza fondatamente invalidi.

Nel primo caso la dottrina cattolica è chiara: «Il matrimonio concluso e consumato tra battezzati non può essere mai sciolto... Non è in potere della Chiesa pronunciarsi contro questa disposizione della sapienza divina» [13]. Per il secondo e il terzo caso bisogna ricordare che il Codice di diritto canonico già prevede nell'iter processuale una partecipazione maggiore delle parti interessate e la percorribilità di «nuove vie.... allo scopo di escludere per quanto possibile ogni divario tra la verità verificabile nel processo e la verità oggettiva conosciuta dalla retta coscienza» [14].

Il can. 1536, § 2 stabilisce che le sole dichiarazioni delle parti possono costituire prova sufficiente di nullità; è evidente, nel caso che tali dichiarazioni siano suffragate da circostanze che offrano garanzie di piena credibilità dei dichiaranti (cf. can. 1679). E la ragione è sempre la stessa: il matrimonio è un bene pubblico da tutelare e la credibilità del dichiarante va prudentemente valutata. Come escludere, infatti, con sano realismo che il clima culturale nel quale viviamo e i condizionamenti psicologici dei fedeli divorziati risposati possano in qualche modo influenzare un giudizio obiettivo non tanto sulle ragioni che hanno irreparabilmente compromesso la vita familiare quanto sull'atto stesso del matrimonio e sulle circostanze che l'hanno accompagnato, sulle quali si misura il giudizio di validità sacramentale?

Certamente si dovrà compiere ogni sforzo perché i tribunali ecclesiastici svolgano nel migliore dei modi e con spirito di misericordia la loro delicata funzione, applicando in modo corretto anche le suddette "nuove vie", escludendo cioè una prassi che sia o troppo rigida o troppo liberale, ma non si può negare che le procedure canoniche oggi previste siano pur sempre espressioni di misericordia insieme a un grande aiuto nell'accertamento della verità offerto a questi cristiani in difficoltà.

Infine, è opportuno ricordare che, per quanto riguarda l'Italia, la sollecitudine dei vescovi verso i fedeli che si rivolgono ai tribunali ecclesiastici regionali si è concretizzata nella statuizione di norme ordinate a rendere meno onerosa possibile, sotto il profilo delle spese, la loro contribuzione all'attività processuale che li riguarda. D'ora in poi la copertura dei costi effettivi delle cause matrimoniali è sostenuta dagli stessi tribunali con il concorso finanziario della Conferenza Episcopale Italiana e solo in misura minima dalle parti. Un altro segno di sensibilità pastorale.

 

 

4. Sacramentalità del matrimonio dei battezzati non praticanti

Siamo in disaccordo ancora con questi scrittori su un'altra questione, certamente complessa, che riguarda il rapporto contratto-sacramento nel matrimonio tra battezzati.

A loro parere, il matrimonio celebrato tra due persone, che non ratificarono con una vita coerente il proprio battesimo, non deve essere considerato sacramento. Dovrebbe essere superata - essi dicono - la disposizione del can. 1055, § 2 del Codice di diritto canonico.

Il principio della inseparabilità tra contratto e sacramento nel matrimonio tra battezzati, cosí che il matrimonio validamente contratto è sempre sacramento, è dottrina costante del Magistero della Chiesa e da alcuni teologi ritenuta proxima fidei o theologice certa. Questo principio in occasione del concilio Vaticano II e della successiva riforma del Codice di diritto canonico è stato rimesso in discussione da teologi e canonisti per motivi di ordine dottrinale e pastorale. La Commissione per la revisione del Codice, investita della materia, ne ha discusso a lungo, giungendo alla conclusione che mutationes inducendas non esse in re tam delicata et tam gravi pro Ecclesiae vita, donec Magisterium publice sententiam suam ediderit [15].

Certo, non si tratta di una dottrina che non possa essere ulteriormente approfondita, tuttavia riferirsi ad essa, se può apparire problematico in alcuni casi, è pacifico fino all'ovvietà in tutti gli altri. Infatti, tra battezzati, cioè tra persone «definitivamente inserite nell'alleanza sponsale di Cristo con la Chiesa» [16], «non si può dare veramente e realmente nessun altro stato coniugale diverso da quello in cui l'uomo e la donna cristiani, dandosi e accettandosi l'un l'altro come sposi, liberamente e con irrevocabile consenso personale, vengono radicalmente sottratti alla "durezza del proprio cuore" (Mt 19,8), e, mediante il sacramento, veramente e realmente vengono inseriti nel mistero dell'unione sponsale di Cristo con la Chiesa, ricevendo cosí la reale possibilità di vivere nell'amore perpetuo. Per conseguenza la Chiesa in nessun modo può riconoscere che due battezzati vivano in uno stato coniugale consentaneo alla loro dignità e al loro modo di essere "nuova creatura in Cristo", se non uniti dal sacramento del matrimonio» [17].

In ragione dell'indistruttibile inserimento battesimale, per la Chiesa non esiste un matrimonio solo naturale, ma esiste il matrimonio elevato alla dignità di sacramento. Cosí anche nel caso di battezzati che non hanno l'intenzione di fare ciò che fa la Chiesa, ma la cui unione presenta i caratteri del matrimonio, in quanto si donano mutuamente e irrevocabilmente, in un rapporto da loro voluto e vissuto non come una relazione provvisoria ma stabile, anche in questo caso il loro matrimonio è sacramento.

La questione pastorale dunque non è da porre sul piano della separabilità tra contratto e sacramento, che per i battezzati non è proponibile, ma su quello della consapevolezza di fede di ciò che compiono e dell'accettazione delle proprietà essenziali del matrimonio. In presenza delle quali, il matrimonio sarà sempre sacramento; in caso contrario sarà nullo. Se oggi per molti matrimoni non si esclude, in modo serio e prudente, che esistano fondati dubbi di validità, non sembrerebbe da ritenere che nella maggioranza dei casi la causa sia da ricercare nella mancata ratifica del battesimo ricevuto da bambini; questa ratifica, almeno implicita, salva eccezione, c'è in coloro che accettano di sposarsi in Chiesa, sebbene con una fede non motivata né praticata. Chi esclude positivamente ogni riferimento di fede, non accetta neppure il rito religioso. Ma a questo punto il problema pastorale ritorna a essere quello di trovare una adeguata soluzione alla preparazione del matrimonio.

 

 

5. Ampliamento del "potere delle chiavi"?

Quanto infine all'auspicio di vedere ampliato l'ambito di esercizio del "potere delle chiavi" del Sommo Pontefice a favore dei fedeli divorziati risposati, perché venga sciolto il primo matrimonio, è da ricordare che la Chiesa non si riconosce alcun diritto di sciogliere un matrimonio «sacramentalmente contratto e ratificato dagli sposi stessi nella loro carne» [18]. Si tratta infatti di una realtà irrevocabile, espressa in una condotta di vita nella quale l'amore diventa esperienza di condivisione assoluta e che Cristo ha fatto immagine rivelatrice del suo mistero.

Invocare il caso del "matrimonio rato e non consumato", "il privilegio paolino" e "il privilegio petrino" non è pertinente. Come è noto, nel primo caso la prassi della dispensa è fondata sul fatto che il matrimonio senza la consumazione non ha raggiunto quella pienezza e quella perfezione che gli è essenziale. La teologia e la spiritualità considerano la consumazione molto piú che un fatto puramente biologico. Nel caso del "privilegio paolino" è la necessità di non privare il coniuge battezzato di vivere effettivamente una vita coniugale pienamente cristiana che motiva, a causa dell'opposizione dell'altro coniuge non venuto alla fede, la facoltà di celebrare un secondo matrimonio nella forma sacramentale. Cosí pure per il cosiddetto "privilegio petrino", la ragione e il fine sono la tutela della fede di una persona legata da poligamia e diventata cristiana. Si tratta di privilegia fidei, cioè in favore della fede, coerenti con l'impianto generale della dottrina teologica sul matrimonio sacramento e sulle conseguenze spirituali che ne derivano, che confermano, sotto altro profilo, l'impossibilità per la Chiesa di sciogliere un matrimonio sacramentale concluso e consumato.

 

 

 

          + Agostino Vallini, Vescovo Ausiliare di Napoli

             Membro della Commissione Episcopale per i problemi giuridici

 

 

 

 

 

 

 

 

Cfr. VALLINI A., Quando l'unione non è "nel Signore"... puntualizzazioni per una pastorale dei fedeli divorziati risposati, in Vita Pastorale 2 (1998), s. p.

 

 

 

 

 

 

 

NOTE

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[1] Giovanni Paolo II, esortazione apostolica Reconciliatio et poenitentia, del 2 dicembre 1984, n. 34, in Enchiridion Vaticanum (EV) 9, 1202.

[2] Giovanni Paolo II, esortazione apostolica Familiaris consortio, del 22 novembre 1981, n. 84, in EV 7, 1799.

[3] Ibidem.

[4] Cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1650.

[5] Congregazione per la dottrina della fede, Lettera ai Vescovi della Chiesa Cattolica circa la recezione della Comunione Eucaristica da parte dei fedeli divorziati risposati, del 14 settembre 1994, n. 5, in EV 14, 1457.

[6] Cf. Lettera ai Vescovi...., in EV 14, 1451‑1464.

[7] Familiaris consortio, n. 84.

[8] Ibidem.

[9] Congregazione per la dottrina della fede, Lettera a tutti i Vescovi sull'indissolubilità del matrimonio, dell'11 aprile 1973, in EV 4, 2363; Lettera ai Vescovi..., del 14 aprile 1994, n. 4, in EV 14, 1456; Conferenza Episcopale Italiana, Nota pastorale della Commissione Episcopale per la dottrina della fede, la catechesi e la cultura e della Commissione Episcopale per la famiglia, La pastorale dei divorziati risposati e di quanti vivono in situazioni matrimoniali irregolari o difficili, del 26 aprile 1979, in Enchiridion CEI 2, 3434.

[10] Cf. Lettera ai Vescovi...., n. 8, in EV 14, 1461.

[11] Ibidem.

[12] Commissione Teologica Internazionale, La sacramentalité du mariage chretien, del 6 dicembre 1977, n. 9, in EV 6, 478.

[13] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1640.

[14] Lettera ai Vescovi...., n. 9, in EV 14, 1462.

[15] Communicationes 9 (1977) 190.

[16] Familiaris consortio, n. 15.

[17] La sacramentalité du mariage..., n. 3.3, in EV 14, 496.

[18] Ibidem, 475.