Chiunque desideri avere qualche notizia sui cappellani militari può fare una semplice ricerca in Internet. Molto del materiale reperibile non è di particolare rilievo ed è da vagliare con cura; in ogni caso una serie di keyword balzano subito agli occhi come la "Risposta - o Lettera - ai cappellani militari", "Don Milani" e "L'obbedienza non è piú una virtú". Si tratta di testi piú volte citati e riproposti e che, nelle intenzioni degli autori di svariati siti Web - almeno all'apparenza - sembra vogliano esaurire, se non proprio chiudere, il decennale dibattito sui cappellani militari. Una questione mai apertasi ufficialmente nella Chiesa ma non di rado sostenuta con veemenza da vari esponenti di ambienti laici e clericali. La figura di don Lorenzo Milani non necessiterebbe di presentazioni, tuttavia un breve profilo biografico potrà giovare a quanti ne hanno una conoscenza approssimativa.

Lorenzo Milani nacque a Firenze il 27 maggio 1923. Ordinato sacerdote nel 1947, venne inviato come parroco a San Donato di Calenzano, dove fondò una scuola serale per i lavoratori. Per le sue posizioni ideologiche, e per le sue critiche nei confronti dell'istituzione ecclesiastica, venne trasferito nella parrocchia di Sant'Andrea a Barbiana nel Mugello, dove rimase fino alla morte, avvenuta il 26 giugno 1967. All'allora Arcivescovo di Firenze - il cardinal Florit - e alla sua Curia aveva riservato non poche critiche. Perfino il patriarca di Venezia, cardinal Angelo Giuseppe Roncalli, diventato poi papa Giovanni XXIII, aveva reagito con apprensione ai suoi atteggiamenti. A Barbiana don Milani aveva istituito una scuola popolare, con l'intento di mettere in condizione i figli dei contadini di istruirsi. Da questa esperienza era nato il libro Lettera a una professoressa (1967), clamorosa denuncia contro la scuola di Stato, divenuto poi uno dei manifesti della contestazione del 1968. Tra le altre sue opere si annoverano Esperienze pastorali (1958) e L'obbedienza non è piú una virtú (1967).

Esperienze pastorali, libro che don Milani aveva cominciato a scrivere otto anni prima a San Donato, era incentrato sulla proposta di una nuova pastorale utile a ricostruire un rapporto con la classe operaia e con i poveri. Il volume, pur avendo ricevuto il nulla osta del Cardinale di Firenze e pur recando un'introduzione di monsignor Giuseppe D'Avack, allora arcivescovo di Camerino, suscitò non poche polemiche e venne recensito negativamente soprattutto da La Civiltà Cattolica. Il 15 dicembre 1958, sotto il pontificato di Giovanni XXIII, il Sant'Uffizio ordinò il ritiro dal commercio dell'opera e ne proibí la ristampa e la traduzione, non per motivi di ortodossia, ma per ragioni di opportunità.

Ebbe piú successo invece un'altra delle sue opere: Lettera a una professoressa. Quando cominciò a diffondersi fra le università occupate e ad assurgere al rango di testo ispiratore della contestazione studentesca, don Milani ormai non c'era piú. La sua figura diventò subito un mito delle sinistre che se ne impossessarono tratteggiandolo come "prete scomodo", "prete ribelle" e soprattutto come "profeta". Della spiritualità che don Milani aveva alle sinistre importava ben poco, ciò che invece attraeva, e prestava il fianco a non poche strumentalizzazioni, erano le critiche che egli rivolgeva a torto o a ragione alla gerarchia ecclesiastica. Tutto ciò che don Milani diceva e scriveva veniva tempestivamente sfruttato fino a dare adito ad una commistione imbarazzante tra fede e politica. Ad onor del vero bisogna dire che non pare che lo stesso don Milani avesse fatto molto per evitare queste occasioni di strumentalizzazione. Fu cosí che da questo prete contestatore, colpito dall'altra grande "fede" di quell'epoca, il comunismo, ebbe origine nel 1968 quello che poi divenne il manifesto della rivolta studentesca, appunto Lettera a una professoressa. In esso don Milani contestava il ruolo dei docenti e la loro autorità, chiedeva l'abolizione della bocciatura, denunciava insomma l'intera struttura scolastica fin dalle sue fondamenta. Perfino un intellettuale laico come Pier Paolo Pasolini rimase perplesso.

L'11 febbraio 1965, alcuni cappellani militari della Toscana in un imprudente comunicato definirono l'obiezione di coscienza "espressione di viltà". Don Lorenzo elaborò subito la "Risposta ai cappellani militari", dove difese il diritto all'obiezione. La risposta venne pubblicata il 6 marzo da una rivista comunista, Rinascita. Fu cosí che esplose la polemica: il priore di Barbiana venne ammonito dal Cardinal Florit e denunciato da alcuni ex combattenti alla Procura di Firenze. Venne processato a Roma insieme a Luca Pavolini, vicedirettore responsabile di Rinascita, per apologia di reato. In vista del processo, non potendo parteciparvi perché malato, Don Lorenzo scrisse la "Lettera ai giudici". Il 15 febbraio 1966 Lorenzo Milani e Luca Pavolini vennero assolti perché il fatto non costituiva reato.

Interessante il parere dato dall'Ordinario Militare emerito, mons. Giuseppe Mani, in un'intervista fattagli dal periodico paolino Jesus, nel 2002. Alla domanda «Quando fu nominato Ordinario militare si confrontò, o magari si era confrontato già prima, con la polemica che a suo tempo il suo conterraneo don Milani aveva suscitato contro i cappellani militari?» rispose: «Come no! Aiutato dal fatto che essendo toscano posso capire di piú la mentalità dell'uno e degli altri. Le cose andarono cosí: don Milani proponeva l'obiezione di coscienza (niente di straordinario, essendoci già in altri Paesi); ai cappellani militari in congedo riuniti a Rifredi nella casa di monsignor Facibeni, santo prete fiorentino dalla cui esperienza di cappellano militare della Prima guerra mondiale nacque l'opera della Madonnina del Grappa, parlare di coscienza per non essere militari sembrò un affronto e un'offesa alla memoria dei caduti. Quei cappellani avevano vissuto l'esperienza della guerra, vedendo cadere migliaia di giovani di cui avevano raccolto le spoglie. Ecco l'origine di tutto il problema che poi finí in tribunale. Capisco don Milani, il quale peraltro ci sguazzò dentro, ma capisco anche i vecchi cappellani. È una polemica che ormai appartiene alla storia» (CAPPELLETTI L., Preti con le stellette. Intervista con l'ordinario militare per l'Italia monsignor Giuseppe Mani, in 30giorni, 5 (2002) s. n.).

I testi che vengono esaminati in questo contesto sono tre: 1) l'ordine del giorno dei cappellani militari della Toscana in congedo, pubblicato da La Nazione del 12 febbraio 1965; 2) la Risposta ai cappellani militari di don Milani, del 23 febbraio 1965, pubblicata il 6 marzo 1965 dal periodico Rinascita; 3) la Lettera ai giudici di don Milani, del 18 ottobre 1965. Perché interessarsi a questi articoli proposti non di rado quale "parola ultima" circa l'istituzione dei cappellani militari? Si tratta di testi attendibili? La risposta è si, ma un "si" con amplissime riserve. Non si può dire, infatti, che le argomentazioni di don Milani siano del tutto prive di valore o che non meritino alcuna attenzione, si può e si deve dire invece che devono essere sottoposte ad un attento discernimento e vagliate puntualmente. In esse si trovano concessioni a posizioni ideologiche che non dovrebbero rientrare nel pensiero e nell'opera di un sacerdote, di una guida del popolo di Dio, la cui unica ispirazione devono essere Cristo e il suo Vangelo. In altri casi si trovano posizioni profetiche coraggiose ma forse del tutto fuori tempo o quanto meno poco prudenti. In altri casi invece non si può non concordare circa alcune affermazioni di don Milani quando attingono alla verità storica e alle esigenze della giustizia.

Proprio per facilitare una lettura critica, al posto di un commento generale, si propone un commento puntuale che passo dopo passo accompagnerà i testi originali. Non risulta che agli scritti di don Milani, qui riportati, sia mai stata data una risposta ufficiale da parte di alcuna delle istituzioni interessate - eccetto il tribunale -, questo tuttavia ha un'importanza relativa. Quello che conta oggi è che i cappellani militari nella Chiesa del terzo millennio ci siano ancora, anzi piú di prima, membri ormai non di un semplice servizio di assistenza spirituale (com'era ai tempi di don Milani), ma di una Chiesa viva, di diocesi con centinaia di migliaia di fedeli, in ogni parte del mondo, note come ordinariati militari e che svolgono ovunque il loro ministerium pacis inter arma. Questa è la migliore profezia, la validazione concreta di un ministero e di un apostolato che con Cristo ed in Cristo devono avanzare per la verità, la mitezza e la giustizia (cfr. Sal 45,5).

 

 

N. B.

I commenti ai testi originali si differenziano per il colore rosso scuro, inoltre sono preceduti dal doppio asterisco.

 

 

 

 

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1. Ordine del giorno dei cappellani militari in congedo della Toscana.

 

Riunione dell'11 febbraio 1965; presenti 20 su 120 iscritti. Comunicato pubblicato dal giornale La Nazione il 12 febbraio 1965.

 

Nell'anniversario della Conciliazione tra la Chiesa e lo Stato italiano, si sono riuniti ieri, presso l'Istituto della Sacra Famiglia in via Lorenzo il Magnifico, i cappellani militari in congedo della Toscana.

Al termine dei lavori, su proposta del presidente della sezione don Alberto Cambi, è stato votato il seguente ordine del giorno:

"I cappellani militari in congedo della regione toscana, nello spirito del recente congresso nazionale dell'associazione, svoltosi a Napoli, tributano il loro riverente e fraterno omaggio a tutti i caduti d'Italia, auspicando che abbia termine, finalmente, in nome di Dio, ogni discriminazione e ogni divisione di parte di fronte ai soldati di tutti i fronti e di tutte le divise, che morendo si sono sacrificati per il sacro ideale della Patria.

Considerano un insulto alla Patria e ai suoi caduti la cosiddetta "obiezione di coscienza" che, estranea al comandamento cristiano dell'amore, è espressione di viltà".

L'assemblea ha avuto termine con una preghiera di suffragio per tutti i caduti.

 

** Nel comunicato, peraltro non rappresentativo nemmeno dei soli cappellani toscani, dato l'esiguo numero dei partecipanti, non si trova nulla di particolare da eccepire a parte il penultimo paragrafo. L'espressione: "Considerano un insulto alla Patria e ai suoi caduti la cosiddetta "obiezione di coscienza" che, estranea al comandamento cristiano dell'amore, è espressione di viltà"" appare indubbiamente sommaria, quando non addirittura erronea, non potendosi dire che l'obiezione di coscienza, sic et simpliciter, sia estranea al comandamento cristiano dell'amore. La problematica dell'obiezione richiede un approfondito esame, una giusta contestualizzazione ed una verifica tale per cui un'espressione del genere effettivamente non la si sarebbe mai dovuta scrivere, sicuramente non in tale forma. Resta il dubbio se un comunicato di tale livello meritasse di innescare quello che divenne quasi un caso nazionale.

 

 

 

2. Lettera di don Milani ai cappellani militari toscani che hanno sottoscritto il comunicato dell'11 febbraio 1965.

 

Da tempo avrei voluto invitare uno di voi a parlare ai miei ragazzi della vostra vita. Una vita che i ragazzi e io non capiamo.

Avremmo però voluto fare uno sforzo per capire e soprattutto domandarvi come avete affrontato alcuni problemi pratici della vita militare. Non ho fatto in tempo a organizzare questo incontro tra voi e la mia scuola.

Io l'avrei voluto privato, ma ora che avete rotto il silenzio voi, e su un giornale, non posso fare a meno di farvi quelle stesse domande pubblicamente.

Primo perché avete insultato dei cittadini che noi e molti altri ammiriamo. E nessuno, ch'io sappia, vi aveva chiamati in causa. A meno di pensare che il solo esempio di quella loro eroica coerenza cristiana bruci dentro di voi una qualche vostra incertezza interiore.

Secondo perché avete usato, con estrema leggerezza e senza chiarirne la portata, vocaboli che sono piú grandi di voi.

Nel rispondermi badate che l'opinione pubblica è oggi piú matura che in altri tempi e non si contenterà né d'un vostro silenzio, né d'una risposta generica che sfugga alle singole domande. Paroloni sentimentali o volgari insulti agli obiettori o a me non sono argomenti. Se avete argomenti sarò ben lieto di darvene atto e di ricredermi se nella fretta di scrivere mi fossero sfuggite cose non giuste.

Non discuterò qui l'idea di Patria in sé. Non mi piacciono queste divisioni.

Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri. E se voi avete il diritto senza essere richiamati dalla Curia, di insegnare che italiani e stranieri possono lecitamente anzi eroicamente squartarsi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi. E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto.

Abbiamo dunque idee molto diverse. Posso rispettare le vostre se le giustificherete alla luce del Vangelo o della Costituzione. Ma rispettate anche voi le idee degli altri. Soprattutto se son uomini che per le loro idee pagano di persona.

 

** In questo scritto balza subito agli occhi il tono polemico assunto da don Milani, quasi che il comunicato dei cappellani toscani fosse rivolto a lui personalmente. Se il testo scritto dai cappellani è per alcuni versi polemico, in uno stile tipico dell'epoca, non è da meno quello di don Milani. Può darsi che il comunicato dei cappellani intendesse alludere a qualche pronunciamento o scritto del Priore di Barbiana ma cosí non sembra visto che le sue pubblicazioni piú importanti datano al 1967. Polemica ed ingiustificata appare la frase "Se voi però avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri", come pure la duplice ideologica contrapposizione: "reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro". Quale uomo potrebbe dirsi "straniero" per un sacerdote? In queste espressioni appaiono tutte le incertezze del linguaggio dell'epoca; un linguaggio alla ricerca di contrapposizioni e di conflitti, piú che di unità di intenti. Dividere ideologicamente diseredati e oppressi è anti-evangelico quanto, anzi piú, che non dividere italiani e stranieri. Se non altro questa divisione - che non è necessariamente contrapposizione - ha un fondamento giuridico e culturale che in sé non è immorale. Non è morale invece fomentare la divisione di classe, ciò che molto facilmente porta allo scontro politico e alla lotta violenta. Come può don Milani affermare: "...allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi"? Espressione imprudente, se non pericolosa, in bocca ad un sacerdote. Non a caso in Italia, la storia del mondo cattolico di quegli anni, vedrà molte persone e gruppi degenerare sempre piú verso la scelta della violenza politica. In Italia furono i cattolici i primi a guidare la rivolta. Cattolici i primi due atenei occupati nell'anno accademico '67 - 68: a Trento e a Milano. Cattolici, o perlomeno di formazione cattolica, tutti i primi leader della contestazione come Renato Curcio, Marco Boato, Mauro Rostagno, Nello Casalini (entrato poi nell'ordine dei Frati Minori), Francesco Schianchi, Luciano Pero, Mario Capanna. E ancora, cattoliche le origini di «Lavoro Politico», rivista nata nel '62 a Verona su iniziativa di Walter Peruzzi e punto di riferimento per il movimento trentino. Cosí, in un mondo indirizzato sempre piú verso il bipolarismo, che vedrà interi eserciti immobilizzati dalla logica della deterrenza, la violenza politica e il terrorismo aumenteranno sempre piú. Assolutamente inaccettabile e surreale l'espressione: "le armi che voi approvate". Le armi, anche in guerra, sono e restano sempre una deprecata necessità, né furono, né possono in alcun modo essere "approvate" nei termini riportati da don Milani.

 

Certo ammetterete che la parola Patria è stata usata male molte volte. Spesso essa non è che una scusa per credersi dispensati dal pensare, dallo studiare la storia, dallo scegliere, quando occorra, tra la Patria e valori ben piú alti di lei.

Non voglio in questa lettera riferirmi al Vangelo. È troppo facile dimostrare che Gesú era contrario alla violenza e che per sé non accettò nemmeno la legittima difesa.

Mi riferirò piuttosto alla Costituzione.

Articolo 11 "L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli...".

Articolo 52 "La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino".

Misuriamo con questo metro le guerre cui è stato chiamato il popolo italiano in un secolo di storia.

 

** Le argomentazioni usate da don Milani - quelle riferite alla Costituzione repubblicana - sarebbero valide sennonché non poteva definirsi corretta una valutazione a posteriori della storia nazionale sulla base del recente testo costituzionale. L'Italia che nel 1915 e nel 1939 entrò in guerra purtroppo non aveva fra i suoi principi fondanti quelli costituzionali del 1948. I tragici errori fatti dall'Italia nelle due guerre mondiali e nei loro antefatti restano in tutta la loro gravità, ma non possono essere giudicati appunto con tale metro: le azioni del passato possono essere valutate tenuto debito conto della mentalità e della cultura degli uomini che le posero. Stessa considerazione si potrebbe fare circa l'uso o l'abuso del concetto di patria, ampiamente riconsiderato solo dopo l'ultimo conflitto mondiale, anche in seguito all'affermazione di una coscienza universalista e di nuove entità politiche e giuridiche sovranazionali.

 

Se vedremo che la storia del nostro esercito è tutta intessuta di offese alle Patrie degli altri dovrete chiarirci se in quei casi i soldati dovevano obbedire o obiettare quel che dettava la loro coscienza. E poi dovrete spiegarci chi difese piú la Patria e l'onore della Patria: quelli che obiettarono o quelli che obbedendo resero odiosa la nostra Patria a tutto il mondo civile?

Basta coi discorsi altisonanti e generici. Scendete nel pratico.

Diteci esattamente cosa avete insegnato ai soldati. L'obbedienza a ogni costo? E se l'ordine era il bombardamento dei civili, un'azione di rappresaglia su un villaggio inerme, l'esecuzione sommaria dei partigiani, l'uso delle armi atomiche, batteriologiche, chimiche, la tortura, l'esecuzione d'ostaggi, i processi sommari per semplici sospetti, le decimazioni (scegliere a sorte qualche soldato della Patria e fucilarlo per incutere terrore negli altri soldati della Patria), una guerra di evidente aggressione, l'ordine d'un ufficiale ribelle al popolo sovrano, la repressione di manifestazioni popolari?

 

** Anche in questo brano si distingue la carica polemica di don Milani. Il Priore di Barbiana, del tutto estraneo ai contesti militari, confonde l'opera del cappellano con l'indottrinamento impartito dai quadri alla truppa. L'indottrinamento (serie di istruzioni dove fra l'altro vengono esposte anche le regole di ingaggio (Rules of engagement)) non fa certo parte dei compiti del cappellano militare. Non risulta poi che in alcun testo di morale o di etica cattolica si insegni l'obbedienza ad ogni costo, ragion per cui non si vede come dei cappellani militari si siano mai potuti esprimere in tali termini. Che nel ventennio fascista ci siano stati casi di cappellani ideologicamente orientati è risaputo, ciò che è inaccettabile è l'estensione dell'accusa ad un'intera categoria. Probabilmente don Milani dimenticò il martirio che il clero, anche quello militare, subí nei due conflitti mondiali; né volle ricordare - solo per fare qualche nome - l'opera benemerita di cappellani come don Carlo Gnocchi o di don Giulio Facibeni, le cui eredità spirituali sono ancora oggi evidenti e concrete, ben piú di quelle del Priore di Barbiana. Dimenticanza o ricercata omissione?

 

Eppure queste cose e molte altre sono il pane quotidiano di ogni guerra. Quando ve ne sono capitate davanti agli occhi o avete mentito o avete taciuto. O volete farci credere che avete volta volta detto la verità in faccia ai vostri "superiori" sfidando la prigione o la morte? Se siete ancora vivi e graduati è segno che non avete mai obiettato a nulla. Del resto ce ne avete dato la prova mostrando nel vostro comunicato di non avere la piú elementare nozione del concetto di obiezione di coscienza.

 

** L'insinuazione rivolta da don Milani ai cappellani toscani (e in genere a tutti i cappellani) può trovare una risposta solo da parte delle singole persone interessate. Si deve rilevare tuttavia che il cappellano militare non può entrare in merito alla condotta delle operazioni, tanto meno in zona di guerra, nonostante l'eventuale alto grado da egli rivestito. Fino al secondo conflitto mondiale tuttavia la maggior parte dei cappellani ebbe il grado di tenente o di capitano. Il massimo grado previsto in servizio, fino al recente riordino del reclutamento, dello stato giuridico e dell'avanzamento (D.L. 30 dicembre 1997, n. 490, art. 69 e disposizioni correttive D. L. 28 giugno 2000, n. 216, art. 29), era, infatti, quello di maggiore. Ciò non garantisce affatto che un cappellano impegnato in zona operativa possa venire a conoscenza di fatti ed eventi particolari di rilevante portata sì da poter intervenire. Ma se pure fosse, entro quali limiti? Al massimo entro quelli previsti dai codici di guerra, dai regolamenti e dalle convenzioni internazionali. Scrivere "se siete ancora vivi e graduati è segno che non avete mai obiettato a nulla" è una falsità e un'ingiustizia. Probabilmente don Milani confuse il ruolo del cappellano con quello di una sorta di sindacalista. Solo chi è stato in zona di guerra può capire che cosa significhi agire da soli in tali circostanze; né si può dire che le Forze Armate italiane, per il solo fatto di essere state a servizio di uno Stato totalitario si siano comportate in modo criminale. La giustizia penale internazionale prese atto sia a Norimberga, sia altrove, della generale correttezza dell'operato italiano. Ci furono cappellani che non mancarono di farsi sentire ma non per questo vennero passati per le armi o puniti; la maggior parte degli ufficiali, dei sottufficiali e dei soldati italiani erano - fascismo o no - persone corrette ed umane. Non mancarono purtroppo nella storia eccidi e atti disumani, talvolta orditi a livello politico, talvolta su iniziativa dei singoli, ciò non toglie che la maggior parte dei militari italiani si sia spesso distinta per umanità e generosità anche nei momenti piú difficili.

 

Non potete non pronunciarvi sulla storia di ieri se volete essere, come dovete essere, le guide morali dei nostri soldati.

Oltre a tutto la Patria, cioè noi, vi paghiamo o vi abbiamo pagato anche per questo. E se manteniamo a caro prezzo (1000 miliardi l'anno) l'esercito, è solo perché difenda colla Patria gli alti valori che questo concetto contiene: la sovranità popolare, la libertà, la giustizia. E allora (esperienza della storia alla mano) urgeva piú che educaste i nostri soldati all'obiezione che all'obbedienza.

L'obiezione in questi 100 anni di storia l'han conosciuta troppo poco. L'obbedienza, per disgrazia loro e del mondo, l'han conosciuta anche troppo.

 

** Tralasciando una facile retorica ("vi paghiamo o vi abbiamo pagato") don Milani trascura un dato elementare facente parte della sua stessa educazione, quando afferma utopisticamente: "urgeva piú che educaste i nostri soldati all'obiezione che all'obbedienza". Eppure anch'egli proveniva da una società, da un'epoca, da un'istituzione ecclesiale dove l'obbedienza era concepita come indiscutibile e dove la parola "obiezione" nemmeno era immaginabile e ciò era tanto piú vero per il militare come per il sacerdote. Se c'era all'epoca un concetto intangibile era proprio quello dell'obbedienza: un mondo intero era tutto votato all'obbedienza, gerarchicamente distinto, verticisticamente strutturato e il solo usare la parola "obiezione" sapeva di ribellione e comportava l'universale esecrazione. Il Manuale di guerra dell'epoca ammoniva il soldato che il superiore non doveva ripetere l'ordine una seconda volta, pena la corte marziale. Queste erano le norme e questa era la mentalità corrente e tale rimase indiscussa fino agli anni della contestazione sessantottina. Come si poteva dunque educare addirittura all'obiezione quando nei piú, a cominciare dai ceti inferiori, nemmeno si concepiva un tale concetto? Don Milani nel 1965 sarà uno dei primi a farlo in un contesto ecclesiale già abbastanza predisposto e ad assumersene le inevitabili conseguenze. La storia gli darà in parte ragione, pur con le dovute rettifiche ed il necessario equilibrio etico e morale. Due guerre mondiali scoppiarono e altre innumerevoli stragi si consumarono perché troppa gente obbedí indiscriminatamente anche a coloro che non meritavano di essere ascoltati, ma questa è la nostra coscienza moderna o, se si preferisce, il cosiddetto senno di poi. La realtà è che quando i totalitarismi salirono al potere ben pochi seppero opporsi al male, molti lo fecero dopo, anche impugnando le armi, spesso dopo aver perso le cose piú care, se non tutto.

 

Scorriamo insieme la storia. Volta volta ci direte da che parte era la Patria, da che parte bisognava sparare, quando occorreva obbedire e quando occorreva obiettare.

1860. Un esercito di napoletani, imbottiti dell'idea di Patria, tentò di buttare a mare un pugno di briganti che assaliva la sua Patria. Fra quei briganti c'erano diversi ufficiali napoletani disertori della loro Patria. Per l'appunto furono i briganti a vincere. Ora ognuno di loro ha in qualche piazza d'Italia un monumento come eroe della Patria.

A 100 anni di distanza la storia si ripete: l'Europa è alle porte.

La Costituzione è pronta a riceverla: "L'Italia consente alle limitazioni di sovranità necessarie...". I nostri figli rideranno del vostro concetto di Patria, cosí come tutti ridiamo della Patria Borbonica. I nostri nipoti rideranno dell'Europa. Le divise dei soldati e dei cappellani militari le vedranno solo nei musei.

 

** Nessun rilievo da muovere circa le annotazioni storiche purtroppo vere. L'unità d'Italia venne realizzata dalla monarchia sabauda nel modo peggiore possibile, imposta per lo piú dall'alto, con le baionette e le manovre politico-economiche, contro la coscienza, la fede e la cultura di intere popolazioni, soprattutto nel Meridione. Ciò che non è accettabile è l'espressione "ridere" congiunta al concetto di "patria". Quello di patria è certamente un concetto relativo e destinato ad evolversi ma non è corretto, anche pedagogicamente parlando, riderne. Oggi siamo italiani, un domani saremo semplicemente europei, domani ancora cos'altro? Nessuna persona retta tuttavia riderebbe - se non per ignoranza - delle sue proprie origini. Quanto all'auspicio di vedere le divise dei soldati e dei cappellani militari nei musei bisogna ammettere che si è avverato... ma solo perché nel frattempo ne sono sorte di nuove. Piú che don Milani è stato profetico il Concilio Vaticano II quando ha ricordato al mondo: «Gli uomini, in quanto peccatori, sono e saranno sempre sotto la minaccia della guerra fino alla venuta di Cristo, ma in quanto riescono, uniti nell'amore, a vincere il peccato, essi vincono anche la violenza, fino alla realizzazione di quella parola divina: "Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà piú la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno piú nell'arte della guerra (Is 2,4)"» (GS 78). E ancora: «Coloro poi che, dediti al servizio della patria, esercitano la loro professione nelle file dell'esercito, si considerino anch'essi come ministri della sicurezza e della libertà dei loro popoli e, se rettamente adempiono il loro dovere, concorrono anch'essi veramente alla stabilità della pace» (GS 79). Ma forse a don Milani queste posizioni conciliari ed ecclesiali sfuggirono...

 

La guerra seguente 1866 fu un'altra aggressione. Anzi c'era stato un accordo con il popolo piú attaccabrighe e guerrafondaio del mondo per aggredire l'Austria insieme.

Furono aggressioni certo le guerre (1867-1870) contro i Romani i quali non amavano molto la loro secolare Patria tant'è vero che non la difesero. Ma non amavano molto neanche la loro nuova Patria che li stava aggredendo, tant'é vero che non insorsero per facilitarle la vittoria. Il Gregorovius spiega nel suo diario: "L'insurrezione annunciata per oggi, è stata rinviata a causa della pioggia".

Nel 1898 il Re "Buono" onorò della Gran Croce Militare il generale Bava Beccaris per i suoi meriti in una guerra che è bene ricordare. L'avversario era una folla di mendicanti che aspettavano la minestra davanti a un convento a Milano. Il Generale li prese a colpi di cannone e di mortaio solo perché i ricchi (allora come oggi) esigevano il privilegio di non pagare tasse. Volevano sostituire la tassa sulla polenta con qualcosa di peggio per i poveri e di meglio per loro. Ebbero quel che volevano. I morti furono 80, i feriti innumerevoli. Fra i soldati non ci fu né un ferito né un obiettore. Finito il servizio militare tornarono a casa a mangiar polenta. Poca perché era rincarata.

 

** Ironie a parte, risulta quanto segue: nel 1898, quando a Milano scoppiarono gravi tumulti in conseguenza dell'aumento del prezzo del pane, il governo guidato da Antonio di Rudiní proclamò lo stato d'assedio e il generale Bava Beccaris, regio commissario straordinario, il 7 maggio ordinò di sparare sulla folla in rivolta. Secondo le cifre ufficiali i morti furono 80, stando alle fonti dell'opposizione ci furono invece piú di 100 vittime. Bava Beccaris, in segno di riconoscimento, ottenne dal re Umberto I la Gran Croce dell'Ordine militare di Savoia, inoltre lo stesso anno ottenne anche un seggio al Senato. È noto purtroppo come Casa Savoia, soprattutto nella campagna di unificazione nazionale, si sia avvalsa spesso dell'esercito impiegandolo ignobilmente contro il suo stesso popolo.

 

Eppure gli ufficiali seguitarono a farli gridare "Savoia" anche quando li portarono a aggredire due volte (1896 e 1935) un popolo pacifico e lontano che certo non minacciava i confini della nostra Patria. Era l'unico popolo nero che non fosse ancora appestato dalla peste del colonialismo europeo.

Quando si battono bianchi e neri siete coi bianchi? Non vi basta di imporci la Patria Italia? Volete imporci anche la Patria Razza Bianca? Siete di quei preti che leggono la Nazione? Stateci attenti perché quel giornale considera la vita d'un bianco piú che quella di 100 neri. Avete visto come ha messo in risalto l'uccisione di 60 bianchi nel Congo, dimenticando di descrivere la contemporanea immane strage di neri e di cercarne i mandanti qui in Europa?

Idem per la guerra di Libia.

Poi siamo al '14. L'Italia aggredí l'Austria con cui questa volta era alleata.

Battisti era un Patriota o un disertore? E un piccolo particolare che va chiarito se volete parlare di Patria. Avete detto ai vostri ragazzi che quella guerra si poteva evitare? Che Giolitti aveva la certezza di poter ottenere gratis quello che poi fu ottenuto con 600.000 morti?

Che la stragrande maggioranza della Camera era con lui (450 su 508)? Era dunque la Patria che chiamava alle armi? E se anche chiamava, non chiamava forse a una "inutile strage"? (l'espressione non è d'un vile obiettore di coscienza ma d'un Papa canonizzato).

 

** Unico appunto da fare a delle annotazioni storiche verissime (non ultime quelle sul primo conflitto mondiale, realmente inutile e in ogni caso vanificato pure dalle perdite seguite al secondo) è che papa Benedetto XV non fu canonizzato, a meno che don Milani non intendesse dire "canonicamente eletto". Quanto alle polemiche razziali non mancarono cappellani militari provenienti anche dalle file dei missionari, né risulta che abbiano fomentato odii razziali. Sicuramente all'epoca non mancò la retorica circa il dovere di portare la civiltà, ma tale mentalità era comune e veniva intesa dai piú in tutta buona fede.

 

Era nel '22 che bisognava difendere la Patria aggredita. Ma l'esercito non la difese. Stette a aspettare gli ordini che non vennero. Se i suoi preti l'avessero educato a guidarsi con la Coscienza invece che con l'Obbedienza "cieca, pronta, assoluta" quanti mali sarebbero stati evitati alla Patria e al mondo (50.000.000 di morti). Cosí la Patria andò in mano a un pugno di criminali che violò ogni legge umana e divina e riempiendosi la bocca della parola Patria, condusse la Patria allo sfacelo. In quei tragici anni quei sacerdoti che non avevano in mente e sulla bocca che la parola sacra "Patria", quelli che di quella parola non avevano mai voluto approfondire il significato, quelli che parlavano come parlate voi, fecero un male immenso proprio alla Patria (e, sia detto incidentalmente, disonorarono anche la Chiesa).

 

** A parte i riferimenti storici allusivi alle terribili responsabilità di Casa Savoia, tutti tragicamente veri, non si può non sottolineare ancora una volta il modo scorretto di argomentare. Don Milani afferma: "In quei tragici anni quei sacerdoti che non avevano in mente e sulla bocca che la parola sacra "Patria", quelli che di quella parola non avevano mai voluto approfondire il significato, quelli che parlavano come parlate voi, fecero un male immenso proprio alla Patria (e, sia detto incidentalmente, disonorarono anche la Chiesa)". Come già evidenziato, se pure ci furono casi di cappellani ideologicamente orientati, è inaccettabile l'estensione del tutto gratuita dell'accusa ad un'intera categoria. Non furono pochi invece i sacerdoti che come don Carlo Gnocchi, don Secondo Pollo, don Giulio Facibeni e molti altri, si arruolarono come cappellani proprio per seguire da vicino i loro giovani fin sulla prima linea. Emblematico è il caso di don Gnocchi che riuscí a diventare cappellano militare e a raggiungere il fronte nonostante la contrarietà delle stesse autorità fasciste. Don Gnocchi nei momenti piú difficili seppe essere anche critico destando in tutti amore e ammirazione.

 

Nel '36 50.000 soldati italiani si trovarono imbarcati verso una nuova infame aggressione: Avevano avuto la cartolina di precetto per andar "volontari" a aggredire l'infelice popolo spagnolo.

Erano corsi in aiuto d'un generale traditore della sua Patria, ribelle al suo legittimo governo e al popolo suo sovrano.

Coll'aiuto italiano e al prezzo d'un milione e mezzo di morti riuscí a ottenere quello che volevano i ricchi: blocco dei salari e non dei prezzi, abolizione dello sciopero, del sindacato, dei partiti, d'ogni libertà civile e religiosa.

Ancor oggi, in sfida al resto del mondo, quel generale ribelle imprigiona, tortura, uccide (anzi garrotta) chiunque sia reo d'aver difeso allora la Patria o di tentare di salvarla oggi.

Senza l'obbedienza dei "volontari" italiani tutto questo non sarebbe successo.

Se in quei tristi giorni non ci fossero stati degli italiani anche dall'altra parte, non potremmo alzar gli occhi davanti a uno spagnolo. Per l'appunto questi ultimi erano italiani ribelli e esuli dalla loro Patria. Gente che aveva obiettato.

Avete detto ai vostri soldati cosa devono fare se gli capita un generale tipo Franco? Gli avete detto che agli ufficiali disobbedienti al popolo loro sovrano non si deve obbedire?

 

** In questo paragrafo appare tutta la delicatezza della polemica politica ma anche ideologica sollevata da don Milani. È su argomentazioni come queste che egli cade pesantemente in contraddizione con la sua identità sacerdotale. Se è vero che il governo spagnolo fu legittimamente eletto non fu altrettanto vero che fu rispettoso della libertà e della cultura del suo stesso popolo. Quel governo tentò di imporre un regime comunista tanto arbitrario quanto male accetto. La guerra di Spagna (18 luglio 1936 - 1 aprile 1939) fu anche una persecuzione religiosa, che trasse origine dall'ideologia anticattolica del regime repubblicano instaurato nel 1931, e che è cosa ben diversa dalla repressione politica, la quale fu invece praticata, in modo spietato, da entrambe le parti contendenti. Non a caso i 239 martiri spagnoli beatificati da Giovanni Paolo II, tutti vittime dei repubblicani, hanno subito il martirio in quanto cattolici. Sì, il sacerdote don Milani "dimentica" le decine di migliaia di cattolici, inclusi vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose, barbaramente assassinati e torturati dalle truppe repubblicane. Anche per questo gli spagnoli stessi, in gran numero, lottarono contro di esse. Sì, don Milani, "dimentica" di scriverlo: non furono solo i volontari italiani a combattere in Spagna, furono anzitutto gli spagnoli, in massa, a volerci e a lottare per la loro libertà. Don Milani "dimentica" anche la condanna perentoria di Papa Pio XI nell'enciclica Dilectissima nobis, del 3 giugno 1933, a carico di quel regime repubblicano violentemente anticristiano. Nel suo intervento alle Cortes il 15 aprile 1936, José Calvo Sotelo denunciò 178 incendi e 199 assalti e danneggiamenti a chiese, centri politici e abitazioni private; 74 morti e 345 feriti. Il 16 giugno, José María Gil Robles denunciò, fra gli altri, i seguenti fatti: 160 chiese distrutte, 251 attaccate, 269 morti e 1.287 feriti, oltre ad assalti, scioperi, giornali distrutti e centri politici presi d'assalto. Estanislao Cantero Nuñez nell'articolo 1936. "L'assalto al cielo": la guerra civile spagnola. Le cause dell'"alzamiento (Cristianità n. 258 (1996)) ha scritto sul «"grande inganno" dei repubblicani - come lo qualificò José María García Escudero - consistente nel continuare a presentare la Repubblica come un regime democratico, quando un tale regime era morto a opera di socialisti, di comunisti e di anarchici». Senza nulla togliere alle responsabilità del generale Franco bisogna tuttavia rilevare quanto segue: durante la Seconda guerra mondiale egli fu l'unico che non si uní ai paesi dell'Asse dichiarando la neutralità della Spagna, pur concordando con Hitler (1940) e Mussolini (1941) una strategia di collaborazione. Alla fine del conflitto si avvicinò ai paesi occidentali e dinanzi alla situazione creatasi con la Guerra Fredda si oppose al blocco sovietico concludendo un accordo strategico con gli Stati Uniti (1953). Nel 1957 il generale Franco affidò parte dell'amministrazione del paese all'ammiraglio Luís Carrero Blanco e cominciò ad occuparsi della propria successione. Restaurata la monarchia, pur mantenendo il ruolo di capo dello stato a vita, nel luglio del 1969 designò a succedergli il principe Juan Carlos di Borbone, che alla morte del dittatore fu incoronato re di Spagna e assunse pacificamente il governo del paese (1975). Quella di Franco fu una delle poche dittature da cui sorse senza colpo ferire una democrazia ormai matura. Forse Franco fu per la Spagna il male minore e la storia oscura delle dittature comuniste dell'Est europeo costituisce una conferma da non prendere a cuor leggero. Nella Guerra civile spagnola un popolo si ribellò ad un governo, pur democraticamente eletto, che non offriva piú autentiche garanzie di libertà. Del resto le dittature del secolo scorso non giunsero spesso al potere grazie alla debolezza delle democrazie? Hitler non fu forse liberamente eletto? Forse don Milani non ci fece caso perché nel 1923 (anno del Putsch di Monaco) era appena nato e nel 1934 (anno dell'ascesa al potere da parte di Hitler) aveva solo 11 anni, ma dopo? La rivoluzione bolscevica con i suoi orrori era scoppiata nel 1917 e nel 1965 le tragedie di oltrecortina erano già note a tutto il mondo, tranne forse a don Milani e ad un pugno di altri intellettuali italiani laici e non, nostalgici del governo spagnolo del 1936. Quanto al "diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro" nel Vangelo non si insegna a dividere l'umanità, semmai a riconciliarla sacrificandosi per la pace e per la giustizia. Per un'ulteriore documentazione sulla guerra civile spagnola vedansi di BOLLOTEN B., La Guerra Civil Española: la revolución y la contra-revolución, Alianza, Madrid, 1989; e di DE LA CIERVA R., Historia esencial de la Guerra Civil Española, Fenix, 1996. Sulla persecuzione religiosa vedasi per es. CARCEL ORTI V., Buio sull'altare, Città Nuova, 1999.

 

Poi dal '39 in là fu una frana: i soldati italiani aggredirono una dopo l'altra altre sei Patrie che non avevano certo attentato alla loro (Albania, Francia, Grecia, Egitto, Jugoslavia, Russia).

Era una guerra che aveva per l'Italia due fronti. L'uno contro il sistema democratico. L'altro contro il sistema socialista.

Erano e sono per ora i due sistemi politici piú nobili che l'umanità si sia data.

L'uno rappresenta il piú alto tentativo dell'umanità di dare, anche su questa terra, libertà e dignità umana ai poveri.

L'altro il piú alto tentativo dell'umanità di dare, anche su questa terra, giustizia e eguaglianza ai poveri.

 

** Da queste parole si evince chiaramente la fede ideologicamente orientata di don Milani. Una domanda si impone: quando scriveva queste parole lo faceva in qualità di sacerdote, di ideologo o di politico? La Chiesa non ha mai canonizzato alcuna forma di governo e non per scelta politica ma perché tale è la sua prassi: essa vede, discerne, giudica... ma alla luce della sua esperienza e della sua storia millenarie. Canonizzare le scelte politiche, per quanto valide, può rivelarsi alla lunga un errore. Proprio negli anni della contestazione cominciò a manifestarsi la crisi dell'odierno sistema democratico parlamentare, ossia di un sistema che iniziava a perdere i riferimenti ai valori fondanti. Relativizzati tutti i valori in nome del pluralismo oggi cosa resta? La democrazia come mera metodologia di governo? La verità è che la democrazia necessita di alcuni valori universali che sono, piaccia o non piaccia, cristiani. Lo stesso socialismo è una sorta di eresia cristiana. Nessuna democrazia può reggere a lungo se non sulle solide fondamenta della verità e della solidarietà. Ciò detto sorge spontanea un'altra domanda: don Milani conosceva il socialismo? Non quello ideale, quello reale, che nel 1965 dominava ormai su piú della metà del genere umano? E se lo conosceva poteva davvero dire in buona fede che è "il piú alto tentativo dell'umanità di dare, anche su questa terra, giustizia e eguaglianza ai poveri"? Forse nel 1965 si sarebbe potuto dire "ai posteri l'ardua sentenza" ma nel 2006 possiamo e dobbiamo dire no! Fu - come tutte le arroganti rivoluzioni della storia umana - una follia e una smisurata menzogna che portò alla morte 80 milioni di esseri umani e contribuí a trascinare il mondo intero sull'orlo dell'olocausto nucleare. È inutile insistere sui principi e sui valori fondanti quell'ideologia; a nulla vale vantarne la vaga rassomiglianza con il cristianesimo: settanta anni di storia, di applicazione concreta dell'ideologia, in ogni angolo del mondo, hanno dato sempre lo stesso identico esito: dittatura sanguinaria e crudele, basata sulla violenza e sul sopruso delle armi e - quale che sia la classe realmente egemone - vile tirannia. Fu significativo al riguardo il detto di Mao, figura cosí in voga negli anni '60: "Il potere risiede nella canna del fucile"! È singolare, infatti, il connubio che ha sempre legato il comunismo al militarismo più spinto. Forse solo in Italia alcune frange di intellettuali e del clero erano convinte del contrario. È un fatto che in quegli anni, mentre in Occidente si predicava il pacifismo, oltrecortina ci si armava oltre misura. Sapeva don Milani che l'URSS spendeva molto piú di 1.000 miliardi l'anno solo per potenziare le sue forze armate? Forze progettate e addestrate proprio in vista della grande invasione dell'Occidente? L'unica cosa che don Milani nel 1965 davvero non poteva sapere è che saremmo vissuti sotto l'incubo della distruzione atomica fino al 1989, ma a ben pensarci il pericolo non è affatto cessato. «Secondo qualcuno - scrisse Montanelli -, è stato il diffondersi dei movimenti pacifisti che ha costretto le classi dirigenti di tutto il mondo a prendere atto della ribellione delle coscienze a qualsiasi forma di violenza. (...) L'ipotesi è un'autentica bufala molto facile da smascherare. I conflitti che fin qui insanguinavano il mondo si svolgevano in terre e latitudini in cui di pacifismo non c'era neanche l'ombra. La propaganda e i movimenti pacifisti attecchiscono e si sviluppano nei paesi democratici dove la pace c'è già. Una volta che alcuni loro adepti italiani vollero andare a propagandarli nella Russia di Breznev furono impacchettati e rispediti al mittente» (cfr. MONTANELLI I. su Oggi del 31 agosto 1988).

 

Non vi affannate a rispondere accusando l'uno o l'altro sistema dei loro vistosi difetti e errori. Sappiamo che son cose umane. Dite piuttosto cosa c'era di qua dal fronte. Senza dubbio il peggior sistema politico che oppressori senza scrupoli abbiano mai potuto escogitare. Negazione d'ogni valore morale, di ogni libertà se non per i ricchi e per i malvagi.

Negazione d'ogni giustizia e d'ogni religione. Propaganda dell'odio e sterminio d'innocenti. Fra gli altri lo sterminio degli ebrei (la Patria del Signore dispersa nel mondo e sofferente).

Che c'entrava la Patria con tutto questo? e che significato possono piú avere le Patrie in guerra da che l'ultima guerra è stata un confronto di ideologie e non di patrie?

Ma in questi cento anni di storia italiana c'è stata anche una guerra "giusta" (se guerra giusta esiste). L'unica che non fosse offesa delle altrui Patrie, ma difesa della nostra: la guerra partigiana.

Da un lato c'erano dei civili, dall'altra dei militari. Da un lato soldati che avevano obbedito, dall'altra soldati che avevano obiettato.

Quali dei due contendenti erano, secondo voi, i "ribelli", quali i "regolari"?

E una nozione che urge chiarire quando si parla di Patria. Nel Congo p. es. quali sono i "ribelli"?

Poi per grazia di Dio la nostra Patria perse l'ingiusta guerra che aveva scatenato. Le Patrie aggredite dalla nostra Patria riuscirono a ricacciare i nostri soldati.

 

** Non si può non definire discutibile il concetto di "guerra giusta" portato da don Milani. Forse che la guerra partigiana fu una guerra tutta ideali e valori o non conobbe atroci nefandezze? La guerra partigiana ebbe crimini e criminali, non fu solo una lotta contro il nazista, fu anche una guerra civile di italiani contro italiani, di comunisti contro cattolici; una storia di vendette, di esecuzioni sommarie e di sopraffazioni. Che dire della storia della Brigata Osoppo? E del triangolo della morte nell'Emilia Romagna? E delle foibe concepite dai partigiani di Tito? Roberto Beretta nell'articolo Stragi partigiane: il triangolo dei preti (Avvenire, 20 gennaio 2004) cita Giampaolo Pansa che nel suo coraggioso best seller Sangue dei vinti (Sperling & Kupfer, Milano 2003) afferma: «Prete uguale a borghese uguale a fascista: per molti, era un'equazione convincente... Stava davvero cominciando un'altra guerra civile. E a tutto campo: partigiani comunisti contro preti, padroni e democristiani». L'ha ribadito recentemente perfino il giornalista Paolo Mieli: «Il numero di preti fatti fuori in quegli anni perché vicini alla Democrazia cristiana è davvero incredibile. Don Pessina, don Galletti, don Donati e tanti altri: non c'entravano nulla con i fascisti, al massimo avevano benedetto qualche salma di fascista ucciso, forse aiutavano la Dc a raccogliere voti... La verità è che furono uccisi da comunisti e che nessun assassino fu denunciato dal PCI. Ciò potrà un giorno essere serenamente studiato? Io spero di sí». Come può dimenticare don Milani che la resistenza al nazismo fu anche l'opera del ricostituito Esercito Italiano? Chi resistette eroicamente a Roma, a Porta San Paolo? Chi combatté al fianco degli alleati a Campolungo, presso Cassino, caposaldo strategico della linea Gustav dal quale i tedeschi impedivano l'avanzata alleata verso Roma? Come non ricordare i 9846 soldati della Divisione Acqui del generale Gandin (FRANCINI M., Quante storie. Fatti, fattacci e fatterelli di vita italiana giorno dopo giorno attraverso i secoli, Frassinelli, Milano, 1985), che a Cefalonia si opposero ai tedeschi finendo tutti fucilati? Come non ricordare nel 1944 il Corpo italiano di liberazione (CIL) agli ordini del generale Giovanni Messe? Ben sei Gruppi di combattimento, che si batteranno sul fronte adriatico, inquadrati nell'VIII Armata britannica. E non fu anche merito dell'Esercito se la Venezia Giulia e Trieste alla fine rimasero italiane? Non può, proprio non può, lo "storico" don Milani, semplificare tutto scrivendo: "Da un lato c'erano dei civili, dall'altra dei militari". Questa, infatti, non sarebbe storia ma pessima propaganda politica. Come ulteriore documentazione sugli eccidi nell'Emilia Romagna cfr. MARTELLI M., Una guerra e due resistenze. 1940-1946. Opere e sangue del clero italiano nella guerra e nella resistenza su due fronti, 3a ed., Edizioni Paoline, Bari 1977; Martirologio del Clero Italiano nella 2.a Guerra Mondiale e nel periodo della Resistenza (1940-1946), A.C.I., Roma 1963.

 

Certo dobbiamo rispettarli. Erano infelici contadini o operai trasformati in aggressori dall'obbedienza militare. Quell'obbedienza militare che voi cappellani esaltate senza nemmeno un "distinguo" che vi riallacci alla parola di San Pietro: "Si deve obbedire agli uomini o a Dio?". E intanto ingiuriate alcuni pochi coraggiosi che son finiti in carcere per fare come ha fatto San Pietro.

 

** Ecco un'altra inaccettabile semplificazione: "infelici contadini o operai trasformati in aggressori dall'obbedienza militare". Probabilmente non venne mai in mente al Priore di Barbiana che anche quella del militare è una scelta di vita e che anche in tempi di coscrizione obbligatoria molti ufficiali e sottufficiali scelsero la vita militare per ragioni di principio. Ma se anche ci si riferisse solo ai militari di truppa siamo comunque di fronte ad una poco lodevole mancanza di considerazione. Molti accettarono la chiamata alle armi con sincero spirito di dedizione e di fede, sicuri della bontà della causa per la quale erano stati chiamati; molti rischiarono la vita, non con le parole, ma con i fatti. Molti partirono convinti di essere davvero liberatori, non aggressori, e se rimproveri devono essere mossi è giusto che lo siano agli ambienti politici e alle alte gerarchie che li ingannarono, non ai soldati, troppo spesso vittime essi stessi prima ancora che aggressori. Don Milani insiste poi nel rilievo utopico dell'obbedienza militare esaltata - cosí scrive - da tutti i cappellani militari... "senza nemmeno un 'distinguo'". Senza ripetere i rilievi già fatti sulla questione ci si può chiedere cosa sarebbe successo se tutti i cappellani militari avessero predicato, come insegna don Milani, l'obiezione di coscienza, ciò che all'epoca nessuno concepiva nei termini odierni. Forse la Prima e la Seconda guerra mondiale non ci sarebbero state? Hitler e Mussolini non avrebbero preso il potere? Interi eserciti avrebbero obbedito ai loro cappellani piuttosto che ai loro superiori disertando in massa? Non si può non rilevare come quelle di don Milani siano solo ingenue utopie. Forse che i soldati, nella guerra balorda di trincea del Primo conflitto, almeno agli inizi, non cominciarono spontaneamente a fraternizzare? Forse che soldati inglesi, francesi e tedeschi nelle interminabili attese in trincea non trovarono il modo di incontrare i commilitoni dall'altra parte della barricata? La verità è che la Prima guerra mondiale - forse ancor piú della seconda - fu imposta dai vertici politici e militari sia attraverso l'opera persuasoria della stampa interventista, sia con la forza delle armi. Se fosse stato per quei soldati, per le giovani generazioni della cosiddetta "belle époque", forse la guerra non sarebbe mai scoppiata. Occorre ben altro che la predicazione dei cappellani per eliminare alla radice l'idea stessa della guerra, occorre un'azione che non può essere puramente ecclesiale, ma di tutto il corpo sociale, a livello culturale, politico ed economico, ciò che nel 1915 e nel 1939 non era dato di vedere. Al contrario, paradossalmente, furono un certo pacifismo di maniera e una debolezza politico-militare imperdonabile, a lasciar libero il passo a personaggi come Hitler. Se il mondo occidentale avesse agito con prontezza e decisione già di fronte al riarmo tedesco e alla militarizzazione della Renania forse non avremmo avuto un secondo conflitto mondiale. Ma a don Milani non venne mai in mente che lo strumento militare non serve solo per fare la guerra, può servire anche ad evitarla, a fermare un aggressore o perlomeno ad evitare un conflitto peggiore.

 

In molti paesi civili (in questo piú civili del nostro) la legge li onora permettendo loro di servir la Patria in altra maniera. Chiedono di sacrificarsi per la Patria piú degli altri, non meno.

Non è colpa loro se in Italia non hanno altra scelta che di servirla oziando in prigione.

Del resto anche in Italia c'è una legge che riconosce un'obiezione di coscienza. E proprio quel Concordato che voi volevate celebrare. Il suo terzo articolo consacra la fondamentale obiezione di coscienza dei Vescovi e dei Preti.

In quanto agli altri obiettori, la Chiesa non si è ancora pronunziata né contro di loro né contro di voi. La sentenza umana che li ha condannati dice solo che hanno disobbedito alla legge degli uomini, non che son vili. Chi vi autorizza a rincarare la dose? E poi a chiamarli vili non vi viene in mente che non s'è mai sentito dire che la viltà sia patrimonio di pochi, l'eroismo patrimonio dei piú?

Aspettate a insultarli. Domani forse scoprirete che sono dei profeti. Certo il luogo dei profeti è la prigione, ma non è bello star dalla parte di chi ce li tiene.

Se ci dite che avete scelto la missione di cappellani per assistere feriti e moribondi, possiamo rispettare la vostra idea. Perfino Gandhi da giovane l'ha fatto. Piú maturo condannò duramente questo suo errore giovanile. Avete letto la sua vita?

 

** In questo brano don Milani esprime una giusta obiezione scrivendo: "La sentenza umana che li ha condannati dice solo che hanno disobbedito alla legge degli uomini, non che son vili. Chi vi autorizza a rincarare la dose"? Il comunicato dei cappellani peccò certamente di imprudenza e di eccessivo zelo, ma il Priore di Barbiana, piú avanti, si espone con un rilievo assolutamente inaccettabile. Afferma, infatti, che... "Se ci dite che avete scelto la missione di cappellani per assistere feriti e moribondi, possiamo rispettare la vostra idea. Perfino Gandhi da giovane l'ha fatto"... ma poi conclude rilevando che... "Piú maturo condannò duramente questo suo errore giovanile". Non ci sono parole per sottolineare l'improponibilità di un siffatto paragone con la figura gandhiana. Il cappellano segue il militare in quanto persona umana e cristiana, a maggior ragione se malato, ferito o moribondo, qualunque sia il governo al potere e chiunque abbia il comando delle Forze Armate. L'interesse del cappellano militare è verso la persona e le sue esigenze umane e spirituali, non verso la politica. Egli non può seguire o abbandonare le persone al loro destino a seconda degli orientamenti politici dominanti. La presenza del cappellano nelle strutture militari non può essere intesa in alcun modo come un avallo al regime politico o alla guerra o al militarismo, tanto quanto la presenza dei cappellani nelle carceri non può essere scambiata come un avallo al crimine. La presenza della Chiesa nel mondo carcerario non implica certo alcuna approvazione della delinquenza ma solo una vicinanza all'uomo perfino nelle situazioni piú difficili e disperate. Tale appunto è la missione del cappellano militare, sia in tempo di pace, sia - a maggior ragione - in tempo di guerra. Desta perlomeno meraviglia che don Milani prenda come esempio la persona di Gandhi. Non che egli non abbia avuto i suoi meriti e che il suo messaggio non sia meritevole di attenzione - al contrario - tuttavia il modello e l'esempio del sacerdote può essere solo quello di Cristo, la sua norma può essere solo quella del Vangelo, insieme al riferimento imprescindibile al magistero della Chiesa. Molto probabilmente - se e quando Gandhi proferí tali parole - lo fece appunto da autentico patriota qual era, amante della causa dell'India. La sua autocritica molto probabilmente era rivolta non tanto al fatto di aver aiutato dei soldati feriti o morenti in sé, quanto al fatto di aver combattuto fra le file di un'Inghilterra violentemente imperialista, riconoscendola cosí implicitamente, in certo qual modo, quale patria legittima per tutti gli indiani. Ecco perché il paragone gandhiano, vista appunto la sua missione, è assolutamente improponibile.

 

Ma se ci dite che il rifiuto di difendere se stesso e i suoi secondo l'esempio e il comandamento del Signore è "estraneo al comandamento cristiano dell'amore" allora non sapete di che Spirito siete! che lingua parlate? come potremo intendervi se usate le parole senza pesarle? se non volete onorare la sofferenza degli obiettori, almeno tacete!

Auspichiamo dunque tutto il contrario di quel che voi auspicate: Auspichiamo che abbia termine finalmente ogni discriminazione e ogni divisione di Patria di fronte ai soldati di tutti i fronti e di tutte le divise che morendo si son sacrificati per i sacri ideali di Giustizia, Libertà, Verità.

Rispettiamo la sofferenza e la morte, ma davanti ai giovani che ci guardano non facciamo pericolose confusioni fra il bene e il male, fra la verità e l'errore, fra la morte di un aggressore e quella della sua vittima.

Se volete diciamo: preghiamo per quegli infelici che, avvelenati senza loro colpa da una propaganda d'odio, si son sacrificati per il solo malinteso ideale di Patria calpestando senza avvedersene ogni altro nobile ideale umano.

Lorenzo Milani sac.

 

** Al termine dello scritto don Milani trae una conclusione ben piú ampia delle premesse mettendo in bocca ai cappellani toscani ciò che essi non scrissero, né certamente intesero mai: ""dite che il rifiuto di difendere se stesso e i suoi secondo l'esempio e il comandamento del Signore è "estraneo al comandamento cristiano dell'amore""!

Sarebbe opportuno chiedersi quale fosse pure lo spirito di don Milani, considerando che purtroppo ad alcune idee valide non sempre seppe unire una prassi illuminata. La confusione che egli addebitava ai cappellani toscani purtroppo fu anche la sua quando non si avvide che assieme al vuoto conformismo di quell'epoca egli, con la sua azione, stava minando alla base non pochi di quegli stessi valori che pure intendeva promuovere.

Vittima di un'epoca tormentata e perfino crudele, egli ebbe il coraggio della contestazione, seppe pagare di persona, ma non seppe farlo con quello spirito di comunione che avrebbe potuto portare a compimento la sua opera. Ma la sua - è risaputo - fu piú un'epoca di accanita contrapposizione che di riconciliazione; di dialettica viziosa fra tesi e antitesi piú che di dialogo e di incontro. Anche per questo la sua controversa figura fini con il portarne dolorosamente tutto il peso.

 

 

 

Processo a don Milani dopo una denuncia per apologia di reato, presentata da un gruppo di Ex Combattenti

 

Nel processo, tenutosi a Roma il 15 febbraio 1966, il priore venne assolto, ma su ricorso del Pubblico Ministero il 28 ottobre 1968 la Corte d'appello, modificando la sentenza di primo grado, lo condannò.

 

 

La Lettera ai giudici

 

Barbiana 18 ottobre 1965

 

Signori Giudici,

vi metto qui per scritto quello che avrei detto volentieri in aula. Non sarà infatti facile ch'io possa venire a Roma perché sono da tempo malato.

Allego un certificato medico e vi prego di procedere in mia assenza.

La malattia è l'unico motivo per cui non vengo. Ci tengo a precisarlo perché dai tempi di Porta Pia i preti italiani sono sospettati di avere poco rispetto per lo Stato. E questa è proprio l'accusa che mi si fa in questo processo.

Ma essa non è fondata per moltissimi miei confratelli e in nessun modo per me. Vi spiegherò anzi quanto mi stia a cuore imprimere nei miei ragazzi il senso della legge e il rispetto per i tribunali degli uomini.

 

Il difensore

Una precisazione a proposito del difensore.

Le cose che ho voluto dire con la lettera incriminata toccano da vicino la mia persona di maestro e di sacerdote. In queste due vesti so parlare da me. Avevo perciò chiesto al mio difensore d'ufficio di non prendere la parola. Ma egli mi ha spiegato che non me lo può promettere né come avvocato né come uomo.

Ho capito le sue ragioni e non ho insistito.

 

Troppo onore a Rinascita

Un'altra precisazione a proposito della rivista che è coimputata per avermi gentilmente ospitato. Io avevo diffuso per conto mio la lettera incriminata fin dal 23 Febbraio.

Solo successivamente (6 Marzo) l'ha ripubblicata Rinascita e poi altri giornali. È dunque per motivi procedurali cioè del tutto casuali ch'io trovo incriminata con me una rivista comunista.

Non ci troverei nulla da ridire se si trattasse d'altri argomenti. Ma essa non meritava l'onore d'essere fatta bandiera di idee che non le si addicono come la libertà di coscienza e la non violenza.

Il fatto non giova alla chiarezza cioè all'educazione dei giovani che guardano a questo processo.

Verrò ora ai motivi per cui ho sentito il dovere di scrivere la lettera incriminata. Ma vi occorrerà prima sapere come mai oltre che parroco io sia anche maestro.

 

L'ambiente - il vivere insieme

La mia è una parrocchia di montagna. Quando ci arrivai c'era solo una scuola elementare. Cinque classi in un'aula sola. I ragazzi uscivano dalla quinta semianalfabeti e andavano a lavorare. Timidi e disprezzati.

Decisi allora che avrei speso la mia vita di parroco per la loro elevazione civile e non solo religiosa.

Cosí da undici anni in qua, la piú gran parte del mio ministero consiste in una scuola.

Quelli che stanno in città usano meravigliarsi del suo orario. Dodici ore al giorno, 365 giorni l'anno. Prima che arrivassi io i ragazzi facevano lo stesso orario (e in piú tanta fatica) per procurare lana e cacio a quelli che stanno in città. Nessuno aveva da ridire. Ora che quell'orario glielo faccio fare a scuola dicono che li sacrifico.

La questione appartiene a questo processo solo perché vi sarebbe difficile capire il mio modo di argomentare se non sapeste che i ragazzi vivono praticamente con me. Riceviamo le visite insieme. Leggiamo insieme: i libri, il giornale, la posta. Scriviamo insieme.

 

Come maestro

Il motivo occasionale - la provocazione

Eravamo come sempre insieme quando un amico ci portò il ritaglio di un giornale. Si presentava come un "Comunicato dei cappellani militari in congedo della regione toscana". Piú tardi abbiamo saputo che già questa dizione è scorretta. Solo 20 di essi erano presenti alla riunione su un totale di 120. Non ho potuto appurare quanti fossero stati avvertiti. Personalmente ne conosco uno solo: don Vittorio Vacchiano pievano di Vicchio. Mi ha dichiarato che non è stato invitato e che è sdegnato della sostanza e della forma del comunicato.

Il testo è infatti gratuitamente provocatorio.

 

Espressione di viltà

Basti pensare alla parola "espressione di viltà".

Il prof. Giorgio Peyrot dell'Università di Roma sta curando la raccolta di tutte le sentenze contro obiettori italiani. Mi dice che dalla liberazione in qua ne son state pronunciate piú di 200. Di 186 ha notizia sicura, di l00 il testo. Mi assicura che in nessuna ha trovato la parola viltà o altra equivalente.

In alcune anzi ha trovato espressioni di rispetto per la figura morale dell'imputato. Per esempio: "Da tutto il comportamento dell'imputato si deve ritenere che egli sia incorso nei rigori della legge per amor di fede" (2 sentenze del T.M.T. di Torino 19 Dicembre 1963 imputato Scherillo, 3 Giugno 1964 imputato Fiorenza). In tre sentenze del T.M.T. di Verona ha trovato il riconoscimento del motivo di particolare valore morale e sociale (19 Ottobre 1953 imputato Valente, 11 Gennaio 1957 imputato Perotto, 7 Maggio 1957 imputato Perotto). Allego il testo completo dei risultati della ricerca che il prof. Peyrot ha avuto la bontà di fare per me.

 

I ragazzi sdegnati

Ora io sedevo davanti ai miei ragazzi nella duplice veste di maestro e di sacerdote e loro mi guardavano sdegnati e appassionati. Un sacerdote che ingiuria un carcerato ha sempre torto. Tanto piú se ingiuria chi è in carcere per un ideale. Non avevo bisogno di far notare queste cose ai miei ragazzi. Le avevano già intuite. E avevano anche intuito che ero ormai impegnato a dar loro una lezione di vita.

 

Non potevo tacere

Dovevo ben insegnare come il cittadino reagisce all'ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto.

Su una parete della nostra scuola c'è scritto grande "I care".

E il motto intraducibile dei giovani americani migliori. "Me ne importa, mi sta a cuore". E il contrario esatto del motto fascista "Me ne frego".

 

Il silenzio di chi doveva parlare

Quando quel comunicato era arrivato a noi era già vecchio di una settimana. Si seppe che le autorità civili, né quelle religiose avevano reagito.

Allora abbiamo reagito noi. Una scuola austera come la nostra, che non conosce ricreazione né vacanze, ha tanto tempo a disposizione per pensare e studiare.

Ha perciò il diritto e il dovere di dire le cose che altri non dice. E l'unica ricreazione che concedo ai miei ragazzi.

 

Cercasi guerra giusta

Abbiamo dunque preso i nostri libri di storia (umili testi di scuola media, non monografie da specialisti) e siamo riandati cento anni di storia italiana in cerca d'una "guerra giusta". D'una guerra cioè che fosse in regola con l'articolo 11 della Costituzione. Non è colpa nostra se non l'abbiamo trovata.

 

Dispiaceri

Da quel giorno a oggi abbiamo avuto molti dispiaceri:

Ci sono arrivate decine di lettere anonime di ingiurie e di minacce firmate solo con la svastica o col fascio. Siamo stati feriti da alcuni giornalisti con "interviste" piene di falsità. Da altri con incredibili illazioni tratte da quelle "interviste" senza curarsi di controllarne la serietà. Siamo stati poco compresi dal nostro stesso Arcivescovo (Lettera al Clero 14-4-1965). La nostra lettera è stata incriminata.

 

Quei 31 nostri fratelli

Ci è stato però di conforto tenere sempre dinanzi agli occhi quei 31 ragazzi italiani che sono attualmente in carcere per un ideale.

Cosí diversi dai milioni di giovani che affollano gli stadi, i bar, le piste da ballo, che vivono per comprarsi la macchina, che seguono le mode, che leggono giornali sportivi, che si disinteressano di politica e di religione.

 

Il loro censore invece

Un mio figliolo ha per professore di religione all'Istituto Tecnico il capo di quei militari cappellani che han scritto il comunicato.

Mi dice di lui che in classe parla spesso di sport. Che racconta di essere appassionato di caccia e di judo. Che ha l'automobile.

Non toccava a lui chiamare "vili e estranei al comandamento cristiano dell'amore" quei 31 giovani.

I miei figlioli voglio che somiglino piú a loro che a lui.

E ciò nonostante non voglio che vengano su anarchici.

Il motivo profondo - che cos'è la scuola

A questo punto mi occorre spiegare il problema di fondo di ogni vera scuola.

E siamo giunti, io penso, alla chiave di questo processo perché io maestro sono accusato di apologia di reato cioè di scuola cattiva. Bisognerà dunque accordarci su ciò che è scuola buona.

 

Arte delicata

La scuola è diversa dall'aula del tribunale. Per voi magistrati vale solo ciò che è legge stabilita.

La scuola invece siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi.

È l'arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare in loro il senso della legalità (e in questo somiglia alla vostra funzione), dall'altro la volontà di leggi migliori cioè il senso politico (e in questo si differenzia dalla vostra funzione).

 

Il giudice

La tragedia del vostro mestiere di giudici è che sapete di dover giudicare con leggi che ancora non son tutte giuste.

Son vivi in Italia dei magistrati che in passato han dovuto perfino sentenziare condanne a morte. Se tutti oggi inorridiamo a questo pensiero dobbiamo ringraziare quei maestri che ci aiutarono a progredire, insegnandoci a criticare la legge che allora vigeva.

Ecco perché, in un certo senso, la scuola è fuori del vostro ordinamento giuridico.

 

Il ragazzo

Il ragazzo non è ancora penalmente imputabile e non esercita ancora diritti sovrani, deve solo prepararsi a esercitarli domani ed è perciò da un lato nostro inferiore perché deve obbedirci e noi rispondiamo di lui, dall'altro nostro superiore perché decreterà domani leggi migliori delle nostre.

E allora il maestro deve essere per quanto può profeta, scrutare i "segni dei tempi", indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso.

 

Il maestro

Anche il maestro è dunque in qualche modo fuori del vostro ordinamento e pure al suo servizio. Se lo condannate attenterete al progresso legislativo.

In quanto alla loro vita di giovani sovrani domani, non posso dire ai miei ragazzi che l'unico modo d'amare la legge è d'obbedirla.

 

** L'insistenza di don Milani circa una relativa estraneità della scuola all'ordinamento giuridico è sintomatica delle sue posizioni ideologiche ancorché comprensibile sul piano ideale. Se egli per certi versi fu un profeta, dall'altra parte, in taluni frangenti, perse di vista il senso di appartenenza e di comunione ad una società civile ed ecclesiale cui pure doveva doverosamente rispondere. Quanto al fatto che il discente di oggi "decreterà domani leggi migliori delle nostre" può essere un auspicio ed una speranza ma mai, purtroppo, una certezza, ciò non toglie che il giudizio, soprattutto in sede civile e penale, attenga ai fatti reali e al passato, neppure al presente dell'uomo. Per queste ed altre ovvie ragioni egli stesso conclude che "l'unico modo d'amare la legge è d'obbedirla", né questo impedisce o ha mai impedito il progresso legislativo.

 

Il vero amore alla legge

Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole).

Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate.

 

La leva delle leve

La leva ufficiale per cambiare la legge è il voto. La Costituzione gli affianca anche la leva dello sciopero.

Ma la leva vera di queste due leve del potere è influire con la parola e con l'esempio sugli altri votanti e scioperanti. E quando è l'ora non c'è scuola piú grande che pagare di persona un'obiezione di coscienza. Cioè violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede. È scuola per esempio la nostra lettera sul banco dell'imputato e è scuola la testimonianza di quei 31 giovani che sono a Gaeta.

Chi paga di persona testimonia che vuole la legge migliore, cioè che ama la legge piú degli altri. Non capisco come qualcuno possa confonderlo con l'anarchico. Preghiamo Dio che ci mandi molti giovani capaci di tanto.

 

Le nostre letture

Questa tecnica di amore costruttivo per la legge l'ho imparata insieme ai ragazzi mentre leggevamo il Critone, l'Apologia di Socrate, la vita del Signore nei quattro Vangeli, l'autobiografia di Gandhi, le lettere del pilota di Hiroshima. Vite di uomini che son venuti tragicamente in contrasto con l'ordinamento vigente al loro tempo non per scardinarlo, ma per renderlo migliore.

 

Il mio esempio

L'ho applicata, nel mio piccolo, anche a tutta la mia vita di cristiano nei confronti delle leggi e delle autorità della Chiesa.

Severamente ortodosso e disciplinato e nello stesso tempo appassionatamente attento al presente e al futuro. Nessuno può accusarmi di eresia o di indisciplina. Nessuno d'aver fatto carriera. Ho 42 anni e sono parroco di 42 anime!

 

I nostri frutti

Del resto ho già tirato su degli ammirevoli figlioli. Ottimi cittadini e ottimi cristiani.

Nessuno di loro è venuto su anarchico.

Nessuno è venuto su conformista.

Informatevi su di loro. Essi testimoniano a mio favore.

Ma è poi reato?

Vi ho dunque dichiarato fin qui che se anche la lettera incriminata costituisse reato era mio dovere morale di maestro scriverla egualmente.

Vi ho fatto notare che togliendomi questa libertà attentereste alla scuola cioè al progresso legislativo.

Ma è poi reato?

 

La Costituzione nella scuola

L'Assemblea Costituente ci ha invitati a dar posto nella scuola alla Carta Costituzionale "al fine di rendere consapevole la nuova generazione delle raggiunte conquiste morali e sociali" (ordine del giorno approvato all'unanimità nella seduta, dell'11 Dicembre 1947).

 

L'Italia ripudia

Una di queste conquiste morali e sociali è l'articolo 11: "L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli".

Voi giuristi dite che le leggi si riferiscono solo al futuro, ma noi gente della strada diciamo che la parola ripudia è molto piú ricca di significato, abbraccia il passato e il futuro, è un invito a buttar tutto all'aria: all'aria buona. La storia come la insegnavano a noi e il concetto di obbedienza militare assoluta come la insegnano ancora.

 

** Come già detto, se c'era un concetto indiscutibile all'epoca era quello dell'obbedienza: un mondo intero era tutto votato all'obbedienza, alla gerarchia e distinto per classi sociali; il solo usare la parola "obiezione" sapeva di ribellione e comportava l'esecrazione universale. Ciò era vero in modo particolare nel contesto militare dove tuttavia l'obbedienza era ed è sempre regolata dai codici, dai regolamenti e dalle convenzioni internazionali. Il termine "assoluta" su cui don Milani insiste pertinacemente non esiste nell'ordinamento giuridico italiano e semmai è associato al concetto di "fedeltà", non a quello di "obbedienza". Che l'espressione "obbedienza assoluta" possa essere stata, o sia effettivamente utilizzata da singoli, nel linguaggio corrente, non può mettere in discussione l'ordinamento giuridico al quale tutti devono conformarsi. Che tale espressione poi potesse essere in voga all'epoca di don Milani, o in pieno fascismo, è verosimile, tuttavia don Milani scrive questa lettera nel 1965, ormai in pieno ordinamento democratico e repubblicano.

 

Mi scuserete se su questo punto mi devo dilungare, ma il Pubblico Ministero ha interpretato come apologia della disobbedienza una lettera che è una scorsa su cento anni di storia alla luce del verbo ripudia.

 

Ci mistificavano tutto

È dalla premessa di come si giudicano quelle guerre che segue se si dovrà o no obbedire nelle guerre future.

Quando andavamo a scuola noi i nostri maestri, Dio li perdoni, ci avevano cosí bassamente ingannati. Alcuni poverini ci credevano davvero: ci ingannavano perché erano a loro volta ingannati. Altri sapevano di ingannarci, ma avevano paura. I piú erano forse solo dei superficiali.

A sentir loro tutte le guerre erano "per la Patria".

Esaminiamo ora quattro tipi di guerra che "per la Patria" non erano.

 

1. Per la classe dominante

I nostri maestri sí dimenticavano di farci notare una cosa lapalissiana e cioè che gli eserciti marciano agli ordini della classe dominante.

In Italia fino al 1880 aveva diritto di voto solo il 2% della popolazione. Fino al 1909 il 7%. Nel 1913 ebbe diritto di voto il 23%, ma solo la metà lo seppe o lo volle usare.

Dal '22 al '45 il certificato elettorale non arrivò piú a nessuno, ma arrivarono a tutti le cartoline di chiamata per tre guerre spaventose.

Oggi di diritto il suffragio è universale ma la Costituzione (articolo 3) ci avvertiva nel '47 con sconcertante sincerità che i lavoratori erano di fatto esclusi dalle leve del potere. Siccome non è stata chiesta la revisione di quell'articolo è lecito pensare (e io lo penso) che esso descriva una situazione non ancora superata.

Allora è ufficialmente riconosciuto che i contadini e gli operai, cioè la gran massa del popolo italiano non è mai stata al potere.

 

** Ancora una volta non si può non rilevare il linguaggio demagogico di don Milani: "i lavoratori erano di fatto esclusi dalle leve del potere", ma per il Priore di Barbiana i lavoratori sarebbero alla fine solo "i contadini e gli operai". In occasione dei fatti violenti di Valle Giulia (1 marzo 1968) Pier Paolo Pasolini compose un durissimo testo divenuto famoso. Era rivolto agli studenti, ormai coinvolti nella contestazione insieme alla classe operaia:

«Adesso i giornalisti di tutto il mondo

(compresi quelli delle televisioni)

vi leccano (come ancora si dice nel linguaggio

goliardico) il culo. Io no, cari.

Avete facce di figli di papà.

Vi odio come odio i vostri papà.

Buona razza non mente.

Siete pavidi, incerti, disperati

(benissimo!) ma sapete anche come essere

prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati:

prerogative piccolo-borghesi, cari.

Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte

coi poliziotti,

io simpatizzavo coi poliziotti.

Perché i poliziotti sono figli di poveri.

Vengono da periferie, contadine o urbane che siano.

Quanto a me, conosco assai bene

il loro modo di essere stati bambini e ragazzi,

le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo

anche lui,

a causa della miseria, che non dà autorità...».

 

Vien da chiedersi come don Milani avrebbe commentato queste parole schiette. No, i lavoratori, i poveri, gli esclusi dal potere non erano e purtroppo non sono soltanto gli operai e i contadini.

 

Esercito classista

Allora l'esercito ha marciato solo agli ordini di una classe ristretta. Del resto ne porta ancora il marchio: il servizio di leva è compensato con 93.000 al mese per i figli dei ricchi e con 4.500 lire al mese per i figli dei poveri, essi non mangiano lo stesso rancio alla stessa mensa, i figli dei ricchi sono serviti da un attendente figlio dei poveri.

Allora l'esercito non ha mai o quasi mai rappresentato la Patria nella sua totalità e nella sua eguaglianza.

 

** Ancora demagogia. Il Priore di Barbiana non appare sincero quando omette di specificare che la differenza di trattamento economico è commisurata al grado e alle responsabilità connesse. Al posto del demagogico "figli dei ricchi" avrebbe fatto meglio a scrivere "ufficiali" mentre "figli dei poveri" sta probabilmente per "graduati di truppa". Che poi le mense fossero differenti per ufficiali, sottufficiali e truppa è noto ed è stato cosí fino a tempi recenti, ciò che accade del resto anche nelle mense aziendali private o pubbliche ed in numerosi altri contesti. Non risulta da nessuna parte che il Vangelo imponga la convivenza forzata di tutte le categorie ed è anzi normale che le persone di solito si ritrovino piú volentieri e piú liberamente con quelle del proprio ceto. Quello preteso da don Milani è comunitarismo, buono forse per qualche occasione di circostanza, ma impossibile da imporsi nella vita quotidiana, specie in una struttura complessa e gerarchica come quella militare. All'epoca, dati i pesanti orari di servizio caratterizzanti la vita militare, l'attendente era necessario per consentire all'ufficiale di assolvere alle tante necessità personali e familiari, oltre che a quelle di servizio. In Italia, con l'assoggettamento dei militari agli stessi orari di servizio delle altre categorie di lavoratori statali la figura dell'attendente venne abolita.

 

Difese di popolo aggressione di classe

Del resto in quante guerre della storia gli eserciti han rappresentato la Patria?

Forse quello che difese la Francia durante la Rivoluzione. Ma non certo quello di Napoleone in Russia.

Forse l'esercito inglese dopo Dunkerque. Ma non certo l'esercito inglese a Suez.

Forse l'esercito russo a Stalingrado. Ma non certo l'esercito russo in Polonia.

Forse l'esercito italiano al Piave. Ma non certo l'esercito italiano il 24 Maggio.

Ho a scuola esclusivamente figlioli di contadini e di operai.

La luce elettrica a Barbiana è stata portata quindici giorni fa, ma le cartoline di precetto hanno cominciato a portarle a domicilio fin dal 1861.

Non posso non avvertire i miei ragazzi che i loro infelici babbi han sofferto e fatto soffrire in guerra per difendere gli interessi di una classe ristretta (di cui non facevano nemmeno parte) non gli interessi della Patria.

 

** In questo brano don Milani si contraddice senza avvedersene. Presenta dei fatti storici dove uno stesso esercito difende gli interessi del suo popolo e poi si comporta da esercito di oppressione. Non c'è nulla di nuovo nel discorso del Priore di Barbiana. Ciò che egli rileva per lo strumento militare è vero per tutte le realtà umane: possono essere volte al bene o al male. È demagogico ed è almeno in parte ingiusto scrivere "Difese di popolo aggressione di classe". La storia ed i comportamenti umani non possono essere ridotti a questi schematismi semplicistici. La rivoluzione bolscevica fu una difesa di popolo o un'aggressione di classe? E la rivoluzione francese? Quella americana (forse la migliore di tutte)? L'avvento del nazismo fu una difesa di popolo o un'aggressione di classe? Hitler non fu forse liberamente eletto? E Mussolini nei primi anni di potere non godette forse di un amplissimo consenso popolare? Il fatto è che i popoli stessi non sono esenti da responsabilità e da colpe. È utopico credere che essi siano per definizione giusti, saggi e innocenti. Un'assemblea liberamente eletta può opprimere tanto quanto un tiranno; né la verità e la giustizia si identificano necessariamente con il consenso popolare. La realtà è terribilmente piú complessa di quella tratteggiata dalle semplici parole di don Milani.

 

Idolatria

Anche la Patria è una creatura cioè qualcosa di meno di Dio, cioè un idolo se la si adora. Io penso che non si può dar la vita per qualcosa di meno di Dio. Ma se anche si dovesse concedere che si può dar la vita per l'idolo buono (la Patria), certo non si potrà concedere che si possa dar la vita per l'idolo cattivo (le speculazioni degli industriali).

 

** Quello di don Milani sarebbe un discorso dall'apparenza impeccabile sennonché, come dice l'apostolo Paolo: «...mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morí per gli empi nel tempo stabilito. Ora, a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,6-8). E nel Vangelo è detto anche: «Nessuno ha un amore piú grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). Dunque si può dare la vita fisica "per qualcosa di meno di Dio", del resto - come già detto - Cristo non ha dato la sua vita per noi peccatori? Non amici di Dio, ma peccatori, cioè nemici di Dio! No, don Milani in questo brano ha torto e la patria non è un "idolo", si incarna nei nostri cari, nei nostri amici, nei nostri simili, dunque è lecito e doveroso - se è necessario - dare la vita per la patria. Ha ragione invece don Milani quando accennando alle "speculazioni degli industriali" (ma non solo) esige un discernimento attento sui perché di una guerra che spesso trova la propria origine in una politica e in un'economia ampiamente corrotte e assassine. È sconcertante che egli si sia avvicinato cosí tanto ad una verità importante senza sottolinearla. Le lobby politiche e industriali, non tanto gli eserciti in sé, sono all'origine delle logiche economiche e sociali perverse e dei conflitti (vedasi l'interessante documento del PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Il commercio internazionale delle armi. Una riflessione etica, LEV, Città del Vaticano, 1994).

 

2. Dar la vita per nulla

Dar la vita per nulla è peggio ancora.

I nostri maestri non ci dissero che nell'866 l'Austria ci aveva offerto il Veneto gratis.

Cioè che quei morti erano morti senza scopo.

Che è mostruoso andare a morire e uccidere senza scopo.

Se ci avessero detto meno bugie avremmo intravisto com'è complessa la verità. Come anche quella guerra, come ogni guerra, era composita dell'entusiasmo eroico di alcuni, dello sdegno eroico di altri, della delinquenza di altri ancora.

 

Rispetto per i Caduti

Lo dico perché alcuni mi accusan di aver mancato di rispetto ai Caduti. Non è vero. Ho rispetto per quelle infelici vittime. Proprio per questa mi parrebbe di offenderli se lodassi chi le ha mandate a morire e poi si è messo in salvo. Per esempio quel re che scappò a Brindisi con Badoglio e molti generali e nella fretta si dimenticò perfino di lasciar gli ordini.

Del resto il rispetto per i morti non può farmi dimenticare i miei figlioli vivi. Io non voglio che essi facciano quella tragica fine. Se un giorno sapranno offrire la loro vita in sacrificio ne sarò orgoglioso, ma che sia per la causa di Dio e dei poveri, non per il signor Savoia o il signor Krupp.

Bisognerà ricordare anche le guerre per allargare i confini oltre il territorio nazionale.

 

3. Dar la vita per la strategia

Ci sono ancora dei fascisti poveretti che mi scrivono lettere patetiche per dirmi che prima di pronunciare il nome santo di Battisti devo sciacquarmi la bocca.

 

Battisti

È perché i nostri maestri ce l'avevano presentato come un eroe fascista. Si erano dimenticati di dirci che era un socialista. Che se fosse stato vivo il 4 novembre quando gli italiani entrarono nel Sud Tirolo avrebbe obiettato. Non avrebbe mosso un passo di là da Salorno per lo stessissimo motivo per cui quattro anni prima aveva obiettato alla presenza degli austriaci di qua da Salorno e s'era buttato disertore, come dico appunto nella mia lettera. "Riterremmo stoltezza vantar diritti su Merano e Bolzano" (Scritti politici di Cesare Battisti, vol. II pag. 96-97). "Certi italiani confondono troppo facilmente il Tirolo col Trentino e con poca logica vogliono i confini d'Italia estesi fino al Brennero" (ivi).

Sotto il fascismo la mistificazione fu scientificamente organizzata. E non solo sui libri, ma perfino sul Paesaggio. L'Alto Adige, dove nessun soldato italiano era mai morto, ebbe tre cimiteri di guerra finti (Colle Isarco, Passo Resia, S. Candido) con caduti veri disseppelliti a Caporetto.

 

Il Mondo unito

Parlo di confini per chi crede ancora, come credeva Battisti, che i confini debbano tagliare preciso tra nazione e nazione.

Non certo per dar soddisfazione a quei nazisti da museo che sparano a carabinieri di 20 anni.

In quanto a me, io ai miei ragazzi insegno che le frontiere son concetti superati. Quando scrivevamo la lettera incriminata abbiamo visto che i nostri paletti di confine sono stati sempre in viaggio. E ciò che seguita a cambiar di posto secondo il capriccio delle fortune militari non può essere dogma di fede né civile né religiosa.

 

4. Dar la vita oltremare

Ci presentavano l'Impero come una gloria della Patria! Avevo 13 anni. Mi par oggi. Saltavo di gioia per l'Impero. I nostri maestri s'erano dimenticati di dirci che gli etiopici erano migliori di noi. Che andavamo a bruciare le loro capanne con dentro le loro donne e i loro bambini mentre loro non ci avevano fatto nulla.

Quella scuola vile, consciamente o inconsciamente non so, preparava gli orrori di tre anni dopo. Preparava milioni di soldati obbedienti. Obbedienti agli ordini di Mussolini. Anzi, per essere piú precisi, obbedienti agli ordini di Hitler. Cinquanta milioni di morti.

 

Obbligo civico di demistificare

E dopo esser stato cosí volgarmente mistificato dai miei maestri quando avevo 13 anni, ora che sono maestro io e ho davanti questi figlioli di 13 anni che amo, vorreste che non sentissi l'obbligo non solo morale (come dicevo nella prima parte di questa lettera), ma anche civico di demistificare tutto, compresa l'obbedienza militare come ce la insegnavano allora?

Perseguite i maestri che dicono ancora le bugie di allora, quelli che da allora a oggi non hanno piú studiato né pensato, non me.

 

Anche il soldato ha una coscienza

Abbiamo voluto scrivere questa lettera senza l'aiuto d'un giurista. Ma a scuola una copia dei Codici l'abbiamo.

Nel testo stesso dell'art. 40 c.p.m.p. e nella giurisprudenza all'art. 51 del c.p. abbiamo trovato che il soldato non deve obbedire quando l'atto comandato è manifestamente delittuoso. Che l'ordine deve avere un minimo d'apparenza di legittimità. Una sentenza del T.S.M. condanna un soldato che ha obbedito a un ordine di strage di civili (13-12-1949 imputato Struch).

Allora anche il Vostro ordinamento riconosce che perfino il soldato ha una coscienza e deve saperla usare quando è l'ora.

Come potrebbe avere un minimo di parvenza di legittimità una decimazione, una rappresaglia su ostaggi, la deportazione degli ebrei, la tortura, una guerra coloniale?

 

Il diritto internazionale

Oppure, può avere un minimo di parvenza di legittimità un atto condannato dagli accordi internazionali che l'Italia ha sottoscritto?

Il nostro Arcivescovo Card. Florit ha scritto che "è praticamente impossibile all'individuo singolo valutare i molteplici aspetti relativi alla moralità degli ordini che riceve" (Lettera al Clero 14-4-1965). Certo non voleva riferirsi all'ordine che hanno ricevuto le infermiere tedesche di uccidere i loro malati. E neppure a quello che ricevette Badoglio e trasmise ai suoi soldati di mirare anche agli ospedali (telegramma di Mussolini 28-3-1936).

 

I gas in Etiopia

E neppure all'uso dei gas.

Che gli italiani in Etiopia abbiano usato gas è un fatto su cui è inutile chiuder gli occhi. Il Protocollo di Ginevra del 17-5-1925 ratificato dall'Italia il 3-4-1928 fu violato dall'Italia per prima il 23-12-1935 sul Tacazzé. L'Enciclopedia Britannica lo da per pacifico. Lo denunciano oramai anche i giornali cattolici.

L'Avvenire d'Italia articoli di Angelo del Boca dal 13-5-1965 al 15-7-1965. Abbiamo letto i telegrammi di Mussolini a Graziani: "autorizzo impiego gas" (telegramma numero 12409 del 27-10- 1935); di Mussolini a Badoglio: "rinnovo autorizzazione impiego gas qualunque specie e su qualunque scala". Hailè Selassiè l'ha confermato autorevolmente e circostanziatamente' (intervista per l'Espresso 29-9-1965 e sg.).

Quegli ufficiali e quei soldati obbedienti che buttavano barili d'iprite sono criminali di guerra e non son ancora stati processati.

Son processato invece io perché ho scritto una lettera che molti considerano nobile (carissime fra le tante le lettere di affettuosa solidarietà delle Commissioni Interne delle principali fabbriche fiorentine, quelle dei dirigenti e attivisti della C.I.S.L. di Milano e della C.I.S.L. di Firenze e quella dei Valdesi).

Che idea si potranno fare i giovani di ciò che è crimine?

Oggi poi le convenzioni internazionali son state accolte nella Costituzione (art. 10). Ai miei montanari insegno a avere piú in onore la Costituzione e i patti che la loro Patria ha firmato che gli ordini opposti d'un generale.

 

Il buon senso dei poveri

Io non li credo dei minorati incapaci di distinguere se sia lecito o no bruciar vivo un bambino. Ma dei cittadini sovrani e coscienti. Ricchi del buon senso dei poveri. Immuni da certe perversioni intellettuali di cui soffrono talvolta i figli della borghesia. Quelli per esempio che leggevano D'Annunzio e ci han regalato il fascismo e le sue guerre.

 

Norimberga

A Norimberga e a Gerusalemme son stati condannati uomini che avevano obbedito. L'umanità intera consente che essi non dovevano obbedire, perché c'è una legge che gli uomini non hanno forse ancora ben scritta nei loro codici, ma che è scritta nel loro cuore. Una gran Parte dell'umanità la chiama legge di Dio, l'altra parte la chiama legge della Coscienza. Quelli che non credono né nell'una né nell'altra non sono che un'infima minoranza malata. Sono i cultori dell'obbedienza cieca.

Condannare la nostra lettera equivale a dire ai giovani soldati italiani che essi non devono avere una coscienza, che devono obbedire come automi, che i loro delitti li pagherà chi li avrà condannati.

E invece bisogna dir loro che Claude Eatherly, il pilota di Hiroshima, che vede ogni notte donne e bambini che bruciano e si fondono come candele rifiuta di prender tranquillanti, non vuol dormire, non vuol dimenticare quello che ha fatto quand'era un "bravo ragazzo, un soldato disciplinato" (secondo la definizione dei suoi superiori) "un povero imbecille irresponsabile" (secondo la definizione che dà lui di sé ora) (carteggio di Claude Eatherly e Günter Anders - Einaudi / 1962).

 

La responsabilità in solido

Ho poi studiato a teologia morale un vecchio principio di diritto romano che anche voi accettate. Il principio della responsabilità in solido. Il popolo lo conosce sotto forma di proverbio: "Tant'è ladro chi ruba che chi para il sacco".

Quando si tratta di due persone che compiono un delitto insieme, per esempio il mandante e il sicario, voi gli date un ergastolo per uno e tutti capiscono che la responsabilità non si divide per due.

 

Responsabilità in frazioni

Un delitto come quello di Hiroshima ha richiesto qualche migliaio di corresponsabili diretti: politici, scienziati, tecnici, operai, aviatori.

Ognuno di essi ha tacitato la propria coscienza fingendo a se stesso che quella cifra andasse a denominatore. Un rimorso ridotto a millesimi non toglie il sonno all'uomo d'oggi.

E cosí siamo giunti a questo assurdo che l'uomo delle caverne se dava una randellata sapeva di far male e si pentiva. L'aviere dell'era atomica riempie il serbatoio dell'apparecchio che poco dopo disintegrerà 200.000 giapponesi e non si pente.

A dar retta ai teorici dell'obbedienza e a certi tribunali tedeschi, dell'assassinio di sei milioni di ebrei risponderà solo Hitler. Ma Hitler era irresponsabile perché pazzo. Dunque quel delitto non è mai avvenuto perché non ha autore.

C'è un modo solo per uscire da questo macabro gioco di parole.

 

** Nulla da obiettare ai rilievi, purtroppo storicamente fondati, mossi giustamente da don Milani.

 

L'obbedienza non è piú una virtú

Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l'obbedienza non è ormai piú una virtú, ma la piú subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l'unico responsabile di tutto.

A questo patto l'umanità potrà dire di aver avuto in questo secolo un progresso morale parallelo e proporzionale al suo progresso tecnico.

 

** L'obbedienza non è piú una virtú: in questa espressione ormai popolare del Priore di Barbiana si evidenzia tutta l'ambiguità di un linguaggio fatto per provocare e per scuotere le coscienze, ma dagli esiti - alla luce della storia recente - troppo spesso incerti. È pur vero che il contesto in cui essa è collocata dovrebbe garantirne la retta comprensione, tuttavia, su tutte le espressioni divenute poi slogan, incombe il grave rischio della superficialità. Un rischio troppe volte avveratosi per interessi egoistici. L'auspicio è che si riaffermi nella coscienza dei singoli il senso di responsabilità che tale senso di libertà richiede.

 

Come sacerdote

Se è reato perseguiteci tutti

Fin qui ho parlato come un cittadino e un maestro che crede con la sua scuola e la sua lettera di aver reso un servizio alla società civile, non di aver compiuto un reato.

Ma poniamo di nuovo che voi lo consideriate reato.

Quest'accusa se fatta a me solo e non anche a tutti i miei confratelli mette in dubbio la mia ortodossia di cattolico e di sacerdote. Sembrerà infatti che condanniate le idee personali di un prete strano. Ma io son parte viva della Chiesa anzi suo ministro. Se avessi detto cose estranee al suo insegnamento essa mi avrebbe condannato. Non l'ha fatto perché la mia lettera dice cose elementari di dottrina cristiana che tutti i preti insegnano da 2000 anni. Se ho commesso reato perseguiteci tutti. Ho evitato apposta di parlare da non violento.

 

La non-violenza

Personalmente lo sono: Ho tentato di educare i miei ragazzi cosí.

Li ho indirizzati per quanto ho potuto verso i sindacati (le uniche organizzazioni che applichino su larga scala le tecniche nonviolente). Ma la non violenza non è ancora la dottrina ufficiale di tutta la Chiesa. Mentre la dottrina del primato della coscienza sulla legge dello Stato lo è certamente.

Mi sarà facile dimostrarvi che nella mia lettera ho parlato da cattolico integrale, anzi spesso da cattolico conservatore.

 

** È deludente constatare quale fiducia don Milani avesse ingenuamente riposto in organizzazioni cosí largamente politicizzate tanto da indirizzarvi apertamente i propri fedeli. Senza nulla togliere alla legittimità e opportunità delle organizzazioni sindacali vien da chiedersi come valuterebbe oggi, il Priore di Barbiana, la storia del sindacato e i suoi compromessi con il potere politico, industriale ed economico in tante parti del mondo. Anche sulle tecniche non-violente la storia, purtroppo, in tanti casi ha smentito don Milani. Che poi egli asserisca che "la non violenza non è ancora la dottrina ufficiale di tutta la Chiesa" desta a dir poco un profondo sconcerto. Ci sarebbe davvero da meravigliarsi se la Chiesa proclamasse sua "dottrina ufficiale" la non violenza, nel senso che verrebbe da chiedersi quale Vangelo essa abbia mai predicato nel corso dei suoi duemila anni di storia.

 

Storia codina

Cominciamo dalla storia. La storia d'Italia fino al 1929 nella mia lettera è identica a come la raccontavano i preti in seminario prima di quella data. Il mio vecchio parroco mi diceva che La Squilla, il giornale cattolico di Firenze, aveva in vetta e in fondo uno striscione nero. Portava il lutto del Risorgimento!

 

Tutti antifascisti

In quanto alla storia piú recente cioè al giudizio sulle guerre fasciste, può anche darsi che qualche mio confratello sia intimamente un nostalgico, ma è notorio che la maggioranza dei preti sostiene un partito democratico che fu il principale autore della Costituzione (dunque anche della parola ripudia).

 

Dottrina elementare

Veniamo alla dottrina. La dottrina del primato della legge di Dio sulla legge degli uomini è condivisa, anzi glorificata, da tutta la Chiesa. Non andrò a cercare teologi moderni e difficili per dimostrarlo. Si può domandarlo a un bambino che si prepara alla Prima Comunione: "Se il padre o la, madre comanda una cosa cattiva bisogna obbedirlo? I martiri disobbedirono alle leggi dello Stato. Fecero bene o male?"

C'è chi cita a sproposito il detto di S. Pietro: "Obbedite ai vostri superiori anche se son cattivi". Infatti. Non ha nessuna importanza se chi comanda è personalmente buono o cattivo.

Delle sue azioni risponderà davanti a Dio.

Ha però importanza se ci comanda cose buone o cattive perché delle nostre azioni risponderemo noi davanti a Dio. Tant'è vero che Pietro scriveva quelle sagge raccomandazioni all'obbedienza dal carcere dove era chiuso per aver solennemente disobbedito.

 

Il Concilio di Trento

Il Concilio di Trento è esplicito su questo punto (Catechismo III parte, IV precetto, 16º paragrafo): "Se le autorità politiche comanderanno qualcosa di iniquo non sono assolutamente da ascoltare. Nello spiegare questa cosa al popolo il parroco faccia notare che premio grande e proporzionato è riservato in cielo a coloro che obbediscono a questo precetto divino" cioè di disobbedire allo Stato!

 

** Il Concilio di Trento ha sí insegnato tale verità ma prudentemente non ha mai insegnato esplicitamente a disobbedire allo Stato. Si tratta di un elementare principio pedagogico per cui occorre invitare al discernimento ed alla prudenza senza tuttavia proporre in modo positivo ed esplicito dei passi cosí estremi.

 

La Chiesa del silenzio

Certi cattolici di estrema destra (forse gli stessi che mi hanno denunciato) ammirano la Mostra della Chiesa del Silenzio. Quella mostra è l'esaltazione di cittadini che per motivo di coscienza si ribellano allo Stato. Allora anche i miei superficialissimi accusatori la pensan come me. Hanno il solo difetto di ricordarsi di quella legge eterna quando lo Stato è comunista e le vittime son cattoliche e di dimenticarla nei casi (come in Spagna) dove lo Stato si dichiara cattolico e le vittime sono comuniste.

Son cose penose, ma le ho ricordate per mostrarvi che su questo punto l'arco dei cattolici che la pensano come me è completo.

 

** Don Milani torna ancora sulla polemica della Guerra civile spagnola, argomento già trattato poco sopra, invocando il dissenso cattolico - all'epoca già diffuso - a sostegno delle sue tesi. Non si può non rilevare come gli atteggiamenti di don Milani abbiano contribuito a minare l'unità dei cattolici e a seminare quella confusione post-conciliare che ancora oggi affligge la comunità ecclesiale. L'uso, anzi l'abuso del linguaggio provocatorio allo scopo di scuotere le coscienze ebbe forse l'effetto di confonderle piú che di indirizzarle verso il Vangelo e la Chiesa, ciò che dimostrerà di lí a poco una crisi che durerà fra tristi e penose vicende fino ai giorni nostri.

 

Le persecuzioni

Tutti sanno che la Chiesa onora i suoi martiri. Poco lontano dal vostro Tribunale essa ha eretto una basilica per onorare l'umile pescatore che ha pagato con la vita il contrasto fra la sua coscienza e l'ordinamento vigente. S. Pietro era un "cattivo cittadino". I vostri predecessori del Tribunale di Roma non ebbero tutti i torti a condannarlo.

Eppure essi non erano intolleranti verso le religioni.

Avevano costruito a Roma i templi di tutti gli dei e avevano cura di offrir sacrifici ad ogni altare.

In una sola religione il loro profondo senso del diritto ravvisò un pericolo mortale per le loro istituzioni. Quella il cui primo comandamento dice: "Io sono un Dio geloso. Non avere altro Dio fuori che me".

 

** Insolito definire "cattivo cittadino" proprio colui che scrisse e raccomandò: «State sottomessi ad ogni istituzione umana per amore del Signore: sia al re come sovrano, sia ai governatori come ai suoi inviati per punire i malfattori e premiare i buoni. Perché questa è la volontà di Dio: che, operando il bene, voi chiudiate la bocca all'ignoranza degli stolti. Comportatevi come uomini liberi, non servendovi della libertà come di un velo per coprire la malizia, ma come servitori di Dio. Onorate tutti, amate i vostri fratelli, temete Dio, onorate il re» (1Pt 2,13-17).

 

Le vostre leggi progrediscono

A quei tempi pareva dunque inevitabile che i buoni ebrei e i buoni cristiani paressero cattivi cittadini.

Poi le leggi dello Stato progredirono. Lasciatemi dire, con buona pace dei laicisti, che esse vennero man mano avvicinandosi alla legge di Dio. Cosí va diventando ogni giorno piú facile per noi esser riconosciuti buoni cittadini. Ma è per coincidenza e non per sua natura che questo avviene. Non meravigliatevi dunque se ancora non possiamo obbedire tutte le leggi degli uomini. Miglioriamole ancora e un giorno le obbediremo tutte. Vi ho detto che come maestro civile sto dando una mano anch'io a migliorarle.

Perché io ho fiducia nelle leggi degli uomini. Nel breve corso della mia vita mi pare che abbiano progredito a vista d'occhio.

Condannano oggi tante cose cattive che ieri sancivano. Oggi condannano la pena di morte, l'assolutismo, la monarchia, la censura, le colonie, il razzismo, l'inferiorità della donna, la prostituzione, il lavoro dei ragazzi. Onorano lo sciopero, i sindacati, i partiti.

 

** Non si saprebbe se definire commovente o utopica la fiducia di don Milani nel progresso legislativo. Forse avrebbe fatto meglio ad essere piú realista che ottimista. Scrisse bene il Priore quando rilevò che "...nel breve corso della mia vita [le leggi civili] mi pare che abbiano progredito a vista d'occhio". Un corso troppo breve il suo, in caso contrario non avrebbe potuto dire che "esse vennero man mano avvicinandosi alla legge di Dio". Dove sarebbe finito il suo ottimismo se avesse saputo dell'affermazione del divorzio, dell'aborto, dell'eutanasia e di tante altre licenze in campo morale? Non fu un cosí gran profeta, altrimenti non si sarebbe vantato di tutto l'onore tributato dalle leggi allo sciopero, ai sindacati, ai partiti con i loro attuali programmi politici. Purtroppo l'epoca di don Milani - è ben noto - peccò spesso di ottimismo. Lo stesso Concilio risentí di quel clima che vedeva dinanzi a sé un futuro di progresso morale e materiale, dando quasi per scontata la sua affermazione. È questa sorta di ingenua fede nel progresso umano che fece scrivere a personaggi come il teologo protestante Rudolph Bultmann: «Non ci si può servire della luce elettrica e della radio, o far ricorso in caso di malattia ai moderni ritrovati medici e clinici, e nello stesso tempo credere al mondo degli spiriti e dei miracoli propostoci dal Nuovo Testamento» (cfr. Nuovo Testamento e mitologia, a cura di H. W. Bartsch, Brescia 1973, 110). La luce elettrica, la radio e le medicine bastarono a scuotere la fede agli uomini di un'epoca rischiarata sempre piú dalla luce elettrica ma priva sempre piú di quella della fede e della solidarietà. Frattanto anche don Milani esprimeva tutta la sua fiducia nello sciopero, nei sindacati, nei partiti e grazie a loro il male nel mondo sarebbe stato sconfitto, magari anche senza bisogno di Cristo e della sua Chiesa... Esagerazioni? No, purtroppo, visto che in quegli anni perfino decine di migliaia di sacerdoti e religiosi persero la vocazione, quando non addirittura la stessa fede.

 

Quasi coincidono

Tutto questo è un irreversibile avvicinarsi alla legge di Dio. Già oggi la coincidenza è cosí grande che normalmente un buon cristiano può passare anche l'intera vita senza mai essere costretto dalla coscienza a violare una legge dello Stato.

Io per esempio fino a questo momento sono incensurato. E spero di esserlo anche alla fine di questo processo è un augurio che faccio ai patrioti. Chissà come patirebbero se potessero leggere le tante lettere che ricevo dall'estero. Da paesi che non hanno il servizio di leva o riconoscono l'obiezione. Quelli che le scrivono sono convinti di scrivere a un paese di selvaggi. Qualcuno mi domanda quanto dovrà ancora stare in prigione il povero padre Balducci.

 

** Ancora l'ottimismo di don Milani circa l'irreversibile avvicinarsi [della legge dello Stato] alla legge di Dio. È singolare come egli non mostrasse lo stesso ottimismo verso la Chiesa che - a giudicare dalle sue tesi - non pareva mossa dallo stesso... irreversibile avvicinarsi alla legge di Dio.

 

Ma non sempre

Dicevamo dunque che oggi le nostre due leggi quasi coincidono. Ci sono però dei casi eccezionali nei quali vige l'antica divergenza e l'antico comandamento della Chiesa di obbedire a Dio piuttosto che agli uomini.

Ho elencato nella lettera incriminata alcuni di questi casi.

Posso aggiungere altre considerazioni.

L'obiezione di coscienza e il Concilio

Cominciamo dall'obiezione di coscienza in senso stretto.

Proprio in questi giorni ho avuto conforto dalla Chiesa anche su questo punto specifico. Il Concilio invita i legislatori a avere rispetto (respicere) per coloro i quali "o per testimoniare della mitezza cristiana, o per reverenza alla vita, o per orrore di esercitare qualsiasi violenza, ricusano per motivo di coscienza o il servizio militare o alcuni singoli atti di immane crudeltà cui conduce la guerra" (Schema 13 paragrafo 101). Questo è il testo proposto dalla apposita Commissione la quale rispecchia tutte le correnti del Concilio. Ha quindi tutte le probabilità d'essere quello definitivo.

Quei 20 militari di Firenze han detto che l'obiettore è un vile. Io ho detto soltanto che forse è un profeta. Mi pare che i Vescovi stiano dicendo molto piú di me.

 

** Don Milani certamente seguiva con attenzione lo svolgimento del Concilio, tuttavia non poteva sapere che nei documenti da esso emanati neppure si parla di "obiezione di coscienza". Non che la Chiesa non la riconosca o non la approvi, al contrario, quello che non è accettabile però è la lettura parziale del Concilio, quando non addirittura ideologica. Nella realtà l'espressione "obiezione di coscienza" appare ufficialmente, per la prima volta, in un documento scritto dalla Pontificia Commissione «Giustizia e Pace» a firma del cardinal Maurice Roy solo il 22 ottobre 1969, cioè circa quattro anni dopo la fine del Concilio. Don Milani fece l'errore di confondere una "Commissione", pur rispecchiante - a suo dire - "tutte le correnti del Concilio" con la Chiesa. In questo non fu profeta.

 

Tre fatti sintomatici

Ricorderò altri tre fatti sintomatici. Nel '18 i seminaristi reduci di guerra, se vollero diventare preti, dovettero chiedere alla Santa Sede una sanatoria per le irregolarità canoniche in cui potevano essere incorsi nell'obbedire ai loro ufficiali.

Nel '29 la Chiesa chiedeva allo Stato di dispensare i seminaristi, i preti, i vescovi dal servizio militare.

Il canone 141 proibisce ai chierici di andare volontari a meno che lo facciano per sortirne prima (ut citius liberi evadant)! Chi disobbedisce è automaticamente ridotto allo stato laicale.

La Chiesa considera dunque a dir poco indecorosa per un sacerdote l'attività militare presa del suo complesso. Con le sue ombre e le sue luci. Quella che lo Stato onora con medaglie e monumenti.

 

** L'attività militare non è sic et simpliciter "indecorosa" ma ovviamente non è consona alla vocazione sacerdotale. Quanto al can. 141 del Codice di diritto canonico del 1917 la preoccupazione di fondo del legislatore era che il chierico non si desse alle attività secolari, soprattutto se esse potevano in qualsiasi modo spingerlo o esporlo alla violenza. Ecco il testo originale latino nella sua interezza:

«Can. 141. - §1. Saecularem militiam ne capessant voluntarii, nisi cum sui Ordinarii licentia, ut citius liberi evadant, id fecerint; neve intestinis bellis et ordinis publici perturbationibus opem quoquo modo ferant.

§ 2. Clericus minor qui contra praescriptum § 1 sponte sua militiae nomen dedierit, ipso iure e statu clericali decidit».

A parziale smentita delle affermazioni di don Milani si noti che il chierico non poteva arruolarsi volontariamente se non con il permesso del suo Vescovo (ne capessant voluntarii, nisi cum sui Ordinarii licentia): il divieto non era assoluto dunque, infatti, era previsto che il Superiore ecclesiastico potesse concedergli il relativo permesso (licentia). Il § 2 inoltre riguardava solo i chierici minori, ossia i chierici che non avevano ancora ricevuto l'ordinazione diaconale (fino alla riforma conciliare, infatti, si diventava giuridicamente chierici già con la tonsura e non, come nell'ordinamento canonico attuale, con l'ordinazione diaconale).

 

L'uccisione dei civili

E infine affrontiamo il problema piú cocente delle ultime guerre e di quelle future: l'uccisione dei civili.

La Chiesa non ha mai ammesso che in guerra fosse lecito uccidere civili, a meno che la cosa avvenisse incidentalmente cioè nel tentare di colpire un obiettivo militare. Ora abbiamo letto a scuola su segnalazione del Giorno un articolo del premio Nobel Max Born (Bullettin of the Atomic Scientists, aprile 1964).

Dice che nella prima guerra mondiale i morti furono 5% civili 95% militari (si poteva ancora sostenere che i civili erano morti "incidentalmente").

Nelle ultime tre guerre

Nella seconda 48% civili 52% militari (non si poteva piú sostenere che i civili fossero morti "incidentalmente").

In quella di Corea 84% civili 16% militari (si può ormai sostenere che i militari "muoiono incidentalmente").

La strategia d'oggi

Sappiamo tutti che i generali studiano la strategia d'oggi con l'unità di misura del megadeath (un milione di morti) cioè che le armi attuali mirano direttamente ai civili e che si salveranno forse solo i militari.

 

** A cominciare dalla Seconda guerra mondiale, prima Hitler, poi gli stessi Alleati in modo anche piú massiccio, inglesi per primi, optarono per la "strategia del terrore" impiegandola largamente contro la popolazione civile. L'idea di fondo era quella di minare il morale della nazione avversaria privandola nel contempo del potenziale industriale civile ma anche bellico. Le affermazioni di don Milani sono per molti versi realistiche, tuttavia è difficile che in caso di conflitto atomico possa salvarsi qualcuno, molto probabilmente neppure i militari, forse solo un'élite dirigenziale dei paesi coinvolti.

 

Gandhi

Che io sappia nessun teologo ammette che un soldato possa mirare direttamente (si può ormai dire esclusivamente) ai civili. Dunque in casi del genere il cristiano deve obiettare anche a costo della vita. Io aggiungerei che mi pare coerente dire che a una guerra simile il cristiano non potrà partecipare nemmeno come cuciniere. Gandhi l'aveva già capito quando ancora non si parlava di armi atomiche. "Io non traccio alcuna distinzione tra coloro che portano le armi di distruzione e coloro che prestano servizio di Croce Rossa. Entrambi partecipano alla guerra e ne promuovono la causa. Entrambi sono colpevoli del crimine della guerra" (Non-violence in peace and war, Ahmedabad 14 vol. 1).

A questo punto mi domando se non sia accademia seguitare a discutere di guerra con termini che servivano già male per la seconda guerra mondiale.

 

** A meno che la frase attribuita a Gandhi non sia un'iperbole non merita commento alcuno se non una ferma riprovazione. Sostenere che chi presta servizio nella Croce Rossa partecipa alla guerra e ne promuove la causa, rendendosi colpevole del crimine della guerra, è un'ingiustizia. Fra il negare qualsiasi appoggio alla guerra e il rifiutare perfino la doverosa assistenza umanitaria c'è una grande differenza. Dispiace che don Milani non abbia dimostrato in tali questioni il necessario discernimento, ciò che può spiegarsi solo con dei preconcetti ideologici inammissibili in un sacerdote.

 

La guerra futura

Eppure mi tocca parlare anche della guerra futura perché accusandomi di apologia di reato ci si riferisce appunto a quel che dovranno fare o non fare i nostri ragazzi domani.

Ma nella guerra futura l'inadeguatezza dei termini della nostra teologia e della vostra legislazione è ancora piú evidente.

Sparare per primi

È noto che l'unica "difesa" possibile in una guerra di missili atomici sarà di sparare circa 20 minuti prima dell'"aggressore".

Ma in lingua italiana lo sparare prima si chiama aggressione e non difesa.

Vendicarsi

Oppure immaginiamo uno Stato onestissimo che per sua "difesa" spari 20 minuti dopo. Cioè che sparino i suoi sommergibili unici superstiti d'un paese ormai cancellato dalla geografia. Ma in lingua italiana questo si chiama vendetta non difesa.

Mi dispiace se il discorso prende un tono di fantascienza, ma Kennedy e Krusciov (i due artefici della distensione!) si sono lanciati l'un l'altro pubblicamente minacce del genere. "Siamo pienamente consapevoli del fatto che questa guerra se viene scatenata, diventerà sin dalla primissima ora una guerra termonucleare e una guerra mondiale. Ciò per noi è perfettamente ovvio" (lettera di Krusciov a B. Russell, 23-10-1962).

Siamo dunque tragicamente nel reale. Allora la guerra difensiva non esiste piú. Allora non esiste piú una "guerra giusta" né per la Chiesa né per la Costituzione.

 

** Don Milani nel suo giusto ripudio per la guerra, soprattutto nucleare, si perde in una serie di considerazioni inutili quale quella della difesa o della vendetta in un conflitto nucleare. Egli stesso si dà una risposta ben triste quando scrive che: "È noto che l'unica "difesa" possibile in una guerra di missili atomici sarà di sparare circa 20 minuti prima dell'"aggressore". In una guerra nucleare il piú grande nemico è la guerra stessa, perciò occorre prodigarsi affinché essa non abbia mai luogo poiché, una volta scoppiata, segue purtroppo una logica ineluttabile dove non di rado è umanamente arduo discernere fra difesa e rappresaglia. Ciò è tanto piú vero quanto piú vasto è il teatro operativo e quanto piú potenti sono le forze in campo. Quanto al fatto che nell'era nucleare non possa piú esserci una "guerra giusta" è fuor di dubbio, essendo in questione la sopravvivenza stessa del genere umano. L'uso di qualunque arma di distruzione di massa è senza dubbio radicalmente e gravemente immorale.

 

Sopravvivenza della specie umana

A piú riprese gli scienziati ci hanno avvertiti che è in gioco la sopravvivenza della specie umana. (Per esempio Linus Pauling premio Nobel per la chimica e per la pace).

E noi stiamo qui a questionare se al soldato sia lecito o no distruggere la specie umana?

Spero di tutto cuore che mi assolverete, non mi diverte l'idea di andare a fare l'eroe in prigione, ma non posso fare a meno di dichiararvi esplicitamente che seguiterò a insegnare ai miei ragazzi quel che ho insegnato fino a ora. Cioè che se un ufficiale darà loro ordini da paranoico hanno solo il dovere di legarlo ben stretto e portarlo in una casa di cura.

Spero che in tutto il mondo i miei colleghi preti e maestri d'ogni religione e d'ogni scuola insegneranno come me.

Poi forse qualche generale troverà ugualmente il meschino che obbedisce e cosí non riusciremo a salvare l'umanità.

 

Conclusione

Non è un motivo per non fare fino in fondo il nostro dovere di maestri. Se non potremo salvare l'umanità ci salveremo almeno l'anima.

 

** Concludendo l'esame di questi testi viene spontaneo chiedersi se la figura critica, talvolta polemica, di don Milani abbia svolto un ruolo sostanzialmente positivo o negativo. È difficile, se non impossibile, dare una valutazione cosí sommaria. Don Milani incarnò in sé i contrasti forti, tipici della sua epoca, accentuati forse dalla sua singolare personalità. Non fu un'epoca facile la sua, tutta aperta al nuovo, ma ancora profondamente intrisa di vecchi usi e costumi quando non addirittura arcaici. La sua fu un'epoca che soggiacque al fascino del progresso tecnologico ma subí duramente le conseguenze della sua impreparazione morale. La società e la Chiesa che don Milani conobbe portavano in sé feroci contraddizioni. Al di là di rispettabili facciate si celavano profondi malesseri, gravi angosce e solitudini esistenziali: un mondo dove i valori di solidarietà, fraternità e comunione erano spesso proclamati ma troppo spesso messi in discussione. La vecchia società post-fascista tardava a rinnovarsi interiormente e, pur avendo mutato molte strutture, ne conservava spesso, ancora, un intimo spirito.

È bene ricordare tuttavia che a parte il fascismo ci fu anche un autoritarismo ecclesiastico non meno gravido di conseguenze. I difficili pontificati di Giovanni XXIII e di Paolo VI - pur positivi sotto molti aspetti - poterono forse attenuare la portata della crisi post-conciliare, non certo evitarla. Don Milani - e con lui molti altri - si gettò a capofitto nel tentativo di offrire un contributo alla ricerca di un nuovo stile sociale ed ecclesiale ma forse non si avvide dei limiti e delle conseguenze concrete delle sue idee e delle sue azioni; forse non comprese che il "forzare la mano" non sempre giova alle cause, anche se giuste. Questo probabilmente fu uno dei suoi limiti principali, ma non solo il suo. Egli, come tutta una generazione, cercò anche violentemente un cambiamento che solo in parte fu conquistato e spesso a caro prezzo. Non di rado assieme alle forme, di quella società vennero rifiutati anche i valori, che pure non mancavano e che non si sarebbero dovuti smarrire. Don Milani fu compreso e amato da pochi, tranne forse dalla sua gente, ma quanto seppe e volle dialogare, quanto concesse all'imprudenza e alle strumentalizzazioni, anche politiche? Forse tutta la sua vicenda, in ultima analisi, fu inevitabile in un contesto storico che bruciò un'intera generazione.

Dei messaggi da lui lasciati restano certamente il ripudio della guerra, del formalismo, del militarismo; per il resto si tratta di storia passata, una storia che le vicende hanno in parte smentito e in parte confermato. Oggi convivono obiezione di coscienza e cappellani militari, forze armate e impegno umanitario, amore di patria e sensibilità globale, in un intreccio molto piú ricco e piú fecondo di quanto lo stesso don Milani non avrebbe mai potuto immaginare.

 

 

 

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