(La numerazione progressiva a margine senza formattazione è riportata dalla serie degli EV)

 

 

Introduzione: Il posto della donna nella società moderna e nella Chiesa

 

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Tra i fenomeni che caratterizzano la nostra epoca il Sommo Pontefice Giovanni XXIII di v. m. indicava, nell'enciclica Pacem in terris dell'11 aprile 1963, "l'ingresso della donna nella vita pubblica: piú accentuatamente, forse, nei popoli di civiltà cristiana; piú lentamente, ma sempre su larga scala, tra le genti di altre tradizioni o civiltà". Nel medesimo senso il concilio Vaticano II, enumerando nella costituzione pastorale Gaudium et spes le forme di discriminazione relative ai diritti fondamentali della persona, le quali debbono essere superate ed eliminate come contrarie al disegno di Dio, indica in primo luogo quella che è fondata sul sesso. L'eguaglianza che ne risulterà deve condurre alla costruzione di un mondo non già livellato ed uniforme, ma armonioso ed unificato, se gli uomini e le donne vi apportano le ricchezze e i dinamismi loro propri, come precisava recentemente il papa Paolo VI.

 

 

Il posto della donna nella Chiesa

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Nella vita stessa della Chiesa - la storia ce lo dimostra - vi sono state donne che hanno esercitato un ruolo decisivo e svolto compiti di valore considerevole. Basta pensare alle fondatrici delle grandi famiglie religiose, come santa Chiara d'Assisi e santa Teresa d'Avila. Quest'ultima, d'altra parte, e santa Caterina da Siena hanno lasciato scritti cosí ricchi di dottrina spirituale, che il papa Paolo VI le ha annoverate tra i dottori della Chiesa. Né si potrebbero dimenticare le innumerevoli donne che si sono consacrate al Signore per la pratica delle opere di carità o per la causa delle missioni, come pure quelle spose cristiane che hanno esercitato un influsso profondo sulle loro famiglie e, in particolare, hanno trasmesso ai loro figli la fede.

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Il nostro tempo, tuttavia, presenta esigenze maggiori: "Poiché ai nostri giorni le donne prendono parte sempre piú attiva in tutta la vita sociale, è di grande importanza una loro piú larga partecipazione anche nei vari campi dell'apostolato della Chiesa". questa consegna del concilio Vaticano II ha già determinato un movimento di evoluzione, che è tuttora in corso: si tratta, beninteso, di esperienze diverse che hanno bisogno di maturare. Ma - come sottolineava ancora Paolo VI - sono già molto numerose le comunità cristiane, che beneficiano dell'impegno apostolico delle donne. Alcune di queste donne sono chiamate a prender parte alle istanze di riflessione pastorale, sia a livello delle diocesi che su scala parrocchiale; la Sede Apostolica ha ammesso delle donne a far parte di alcuni suoi organismi di lavoro.

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Ora, da un certo numero di anni, diverse comunità cristiane, sorte dalla riforma del XVI secolo o in epoca successiva, hanno ammesso le donne all'ufficio di pastore, allo stesso titolo degli uomini: la loro iniziativa ha provocato, da parte dei membri di tali comunità o di gruppi simili, richieste e scritti tendenti a generalizzare questa ammissione, come anche, del resto, reazioni in senso contrario. Ciò costituisce, dunque, un problema ecumenico, sul quale la Chiesa cattolica deve far conoscere il proprio pensiero, tanto piú che in diversi settori dell'opinione pubblica ci si è domandato se, a sua volta, essa non dovrebbe modificare la propria disciplina ed ammettere le donne all'ordinazione sacerdotale. Alcuni teologi cattolici hanno addirittura posto pubblicamente questo problema e hanno provocato ricerche non solo nell'ambito dell'esegesi, della patristica, della storia della Chiesa, ma anche nel campo della storia delle istituzioni e dei costumi, della sociologia, della psicologia; i diversi argomenti, capaci di portare un chiarimento in questo importante problema, sono stati sottoposti ad un esame critico. Trattandosi di una discussione sulla quale la teologia classica non s'è molto attardata, l'attuale modo d'argomentare rischia di trascurare elementi essenziali.

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Per questi motivi, in esecuzione di un mandato ricevuto dal Santo Padre e facendo eco alla dichiarazione che egli stesso ha fatto nella sua lettera del 30 novembre 1975, la Congregazione per la dottrina della fede ritiene di dover richiamare che la Chiesa, per fedeltà all'esempio del suo Signore, non si considera autorizzata ad ammettere le donne all'ordinazione sacerdotale, e crede opportuno, nelle presenti circostanze, di spiegare questa posizione della Chiesa, che sarà forse risentita dolorosamente, ma il cui valore positivo apparirà con l'andar del tempo, in quanto potrebbe aiutare ad approfondire la missione "rispettiva" dell'uomo e della donna.

 

 

I. Il fatto della tradizione

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La Chiesa cattolica non ha mai ritenuto che le donne potessero ricevere validamente l'ordinazione presbiterale o episcopale. Alcune sette eretiche dei primi secoli, soprattutto gnostiche, vollero affidare l'esercizio del ministero sacerdotale a delle donne: tale innovazione fu subito rilevata e biasimata dai padri, i quali la giudicarono come inaccettabile nella Chiesa. È pur vero che nei loro scritti si può rintracciare l'innegabile influsso di pregiudizi sfavorevoli alla donna, i quali tuttavia - occorre sottolinearlo - ebbero ben poca incidenza sulla loro azione pastorale e, meno ancora, sulla loro direzione spirituale. Ma al di là di queste considerazioni, suggerite dallo spirito dei tempi, si trova espresso, soprattutto nei documenti canonici della tradizione antiochena ed egiziana, questo motivo essenziale che la Chiesa, chiamando unicamente uomini all'ordine sacro e al ministero propriamente sacerdotale, intende restare fedele al tipo di ministero ordinato, voluto dal signore Gesú Cristo e scrupolosamente conservato dagli apostoli.

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La medesima convinzione anima la teologia medioevale, anche se i maestri della scolastica, nel tentativo di chiarire con la ragione i dati della fede, presentano sovente su questo punto argomentazioni, che il pensiero moderno difficilmente potrebbe ammettere, o che addirittura rifiuterebbe a buon diritto. Da allora e fino alla nostra epoca, si può dire che la questione non sia piú stata sollevata, giacché la prassi beneficiò di un possesso pacifico e universale.

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La tradizione della Chiesa in materia è stata, dunque, talmente stabile nel corso dei secoli, che il magistero non avvertí il bisogno di intervenire per affermare un principio che non incontrava opposizione, o per difendere una legge che non era contestata. Ogni volta, però, che questa tradizione aveva occasione di manifestarsi, essa attestava la volontà della Chiesa di conformarsi al modello che il Signore le aveva lasciato.

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La stessa tradizione è stata fedelmente salvaguardata dalle chiese d'oriente. La loro unanimità su questo punto appare. tanto maggiormente degna di nota, quando si tenga conto che, circa molte altre questioni, la loro disciplina ammette una grande diversità. Ed anche ai giorni nostri queste stesse chiese rifiutano di associarsi alle richieste, miranti ad ottenere l'accesso delle donne all'ordinazione sacerdotale.

 

 

II. L'atteggiamento di Gesú

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Gesú Cristo non ha chiamato alcuna donna a far parte dei dodici. Se egli ha fatto cosí, non è stato per conformarsi alle usanze del suo tempo, poiché l'atteggiamento, da lui assunto nei confronti delle donne, contrasta singolarmente con quello del suo ambiente e segna una rottura voluta e coraggiosa. È cosí che egli, con grande stupore dei suoi stessi discepoli, conversa pubblicamente con la samaritana (cf. Gv 4,27); non tiene alcun conto dello stato di impurità legale dell'emorroissa (cf. Mt 9, 20-22); lascia che una peccatrice lo avvicini presso Simone, il fariseo (cf. Lc 7, 37 ss.); e, perdonando la donna adultera, si preoccupa di mostrare che non si deve essere piú severi verso la colpa di una donna, che verso quella degli uomini (cf. Gv 8, 11). Egli non esita a prendere le distanze rispetto alla legge di Mosè, per affermare l'eguaglianza dei diritti e dei doveri dell'uomo e della donna di fronte al vincolo del matrimonio (cf. Mc 10,2-11; Mt 19,3-9).

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Nel suo ministero itinerante Gesú non si fa accompagnare soltanto dai dodici, ma anche da un gruppo di donne: "Maria di Magdala, dalla quale erano usciti sette demoni, Giovanna, moglie di Cusa, amministratore di Erode, Susanna e molte altre, che li assistevano con i loro beni" (Lc 8,2-3).

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In contrasto con la mentalità giudaica che non accordava grande valore alla testimonianza delle donne, come dimostra il diritto ebraico, sono tuttavia delle donne che hanno avuto, per prime, il privilegio di vedere il Cristo risorto, ed è ancora ad esse che Gesú affida l'incarico di recare il primo messaggio pasquale agli stessi undici (cf. Mt 28, 7-10; Lc 24,9-10; Gv 20, 11-18), per prepararli a divenire i testimoni ufficiali della resurrezione.

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Siffatte constatazioni, è vero, non forniscono un'evidenza immediata. Ma ciò non può far meraviglia, poiché i problemi sollevati dalla parola di Dio superano l'evidenza. Per cogliere il senso ultimo della missione di Gesú, come anche quello della Scrittura, non può bastare l'esegesi puramente storica dei testi. Si deve, però, riconoscere che vi è qui un insieme di indizi convergenti, i quali sottolineano il fatto importante che Gesú non ha affidato alle donne l'incarico dei dodici. La sua stessa Madre, cosí strettamente associata al mistero del Figlio, e il cui incomparabile ruolo è sottolineato dai vangeli di Luca e di Giovanni, non è stata investita del ministero apostolico. Ciò indusse i padri a presentarla come esempio della volontà di Cristo in questo campo; e agli inizi del secolo XIII;, il papa Innocenzo III confermò ancora la medesima dottrina: "Benché la beata vergine Maria superasse in dignità ed eccellenza tutti gli apostoli, tuttavia non a lei, ma a costoro il Signore affidò le chiavi del regno dei cieli".

 

 

III. La prassi degli apostoli

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La comunità apostolica è rimasta fedele all'atteggiamento di Gesú. Nella piccola cerchia di coloro che si riuniscono nel cenacolo dopo l'ascensione, Maria occupa un posto privilegiato (cf. At 1, 14). Eppure, non è lei che viene designata per entrare nel collegio dei dodici, al momento dell'elezione che porterà alla scelta di Mattia: coloro che sono presenti sono due discepoli, dei quali i vangeli non fanno neppure menzione. Nel giorno di pentecoste lo Spirito santo discese su tutti, uomini e donne (cf. At 2, 1; 1, 14), e tuttavia l'annuncio dell'adempimento delle profezie in Gesú fu proclamato da "Pietro e gli undici" (At 2, 14).

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Allorché costoro e Paolo uscirono dai confini del mondo giudaico, la predicazione del vangelo e la vita cristiana nella civiltà greco-romana li indussero a rompere, talvolta dolorosamente, con le pratiche mosaiche. Essi avrebbero, dunque, potuto pensare, se su questo punto non fossero stati persuasi del loro dovere di fedeltà al Signore, di conferire l'ordinazione alle donne. Nel mondo ellenistico parecchi culti di divinità pagane erano affidati a sacerdotesse. I greci, infatti, non condividevano le concezioni dei giudei: benché alcuni filosofi abbiano professato l'inferiorità della donna, gli storici sottolineano, tuttavia, l'esistenza di un certo movimento per la promozione femminile durante il periodo imperiale. Di fatto, constatiamo dal libro degli Atti degli apostoli e dalle Lettere di san Paolo che alcune donne collaborano con l'apostolo per il vangelo (cf. Rm 16,3-12; Fil 4,3); egli ne enumera i nomi con compiacimento nelle formule finali di saluto delle sue lettere. Talune esercitano spesso un influsso di non lieve importanza sulle conversioni: Priscilla, Lidia e altre; Priscilla soprattutto, la quale si è assunta l'impegno di completare la formazione di Apollo (cf. At 18,26); Febe che è a servizio della Chiesa di Cencre (cf. Rm 16, 1). Tutti questi fatti manifestano nella Chiesa apostolica una notevole evoluzione nei confronti dei costumi del giudaismo. Ciononostante, non è stata, in nessun momento, posta la questione di conferire l'ordinazione a queste donne.

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Nelle lettere paoline autorevoli esegeti hanno notato una differenza tra due formule, usate dall'apostolo: egli scrive indistintamente "miei collaboratori" (Rm 16,3; Fil 4,2-3) a proposito degli uomini e delle donne, che in un modo o nell'altro l'aiutano nel suo apostolato; ma riserva il titolo di "cooperatori di Dio" (1 Cor 3,9; cf. 1 Ts 3,2) ad Apollo, a Timoteo e a se stesso, Paolo, cosí designati perché sono direttamente consacrati al ministero apostolico, alla predicazione della parola di Dio. Nonostante il loro ruolo cosí importante al momento della risurrezione, la collaborazione delle donne non giunge, per san Paolo, fino all'esercizio dell'annuncio ufficiale e pubblico del messaggio, che resta nella linea esclusiva della missione apostolica.

 

 

IV. Valore permanente dell'atteggiamento di Gesú e degli apostoli

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Da un tale atteggiamento di Gesú e degli apostoli, considerato come normativo da tutta la tradizione fino ai nostri giorni, potrebbe oggi la Chiesa allontanarsi? In favore di una risposta affermativa a questa domanda, sono stati portati diversi argomenti, che vale la pena esaminare. Si è voluto, in particolare, che la presa di posizione di Gesú e degli apostoli si spiegherebbe mediante l'influsso del loro ambiente e del loro tempo. Se Gesú - dicono - non ha conferito alle donne, e neppure a sua madre, un ministero che le assimila ai dodici, è perché le circostanze storiche non glielo permettevano. Nessuno, tuttavia, ha mai provato - ed è, senza dubbio impossibile provarlo - che questo atteggiamento si ispiri solamente a motivi socio-culturali. L'esame dei vangeli - come abbiamo visto - indica, al contrario, che Gesú ha rotto con i pregiudizi del suo tempo, contravvenendo largamente alle discriminazioni praticate nei confronti delle donne. Non si può, dunque, sostenere che, non chiamando le donne ad entrare nel gruppo apostolico, Gesú si sia semplicemente lasciato guidare da ragioni di opportunità. A piú forte ragione, questo condizionamento socio-culturale non avrebbe trattenuto gli apostoli nell'ambiente greco, dove queste discriminazioni non esistevano.

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Si ricava parimenti un'obbiezione dal carattere caduco, che si crede di riconoscere oggi ad alcune prescrizioni di san Paolo, riguardanti le donne, e dalle difficoltà che, a questo proposito, certi aspetti della sua dottrina sollevano. Ma bisogna notare che queste disposizioni, probabilmente ispirate agli usi del tempo, non riguardano se non pratiche disciplinari di scarsa importanza, come l'obbligo fatto alle donne di portare il velo sul capo (cf. 1 Cor 11, 2-16); tali esigenze non hanno piú valore normativo. Nondimeno, il divieto fatto da Paolo alle donne di "parlare" nell'assemblea (cf. 1 Cor 14, 34-35; 1 Tm 2, 12) è di natura differente. E gli esegeti ne precisano il senso cosí: l'apostolo non s'oppone per nulla al diritto, che riconosce peraltro alle donne, di profetizzare nell'assemblea (cf. 1 Cor 11,5); la proibizione riguarda unicamente la funzione ufficiale d'insegnare nell'assemblea cristiana. Una tale prescrizione, per san Paolo, è legata al piano divino della creazione (cf. 1 Cor 11,7; Gen 2, 18-24); difficilmente vi si potrebbe vedere l'espressione di un dato culturale. Non bisogna dimenticare, del resto, che noi dobbiamo a san Paolo uno dei testi piú vigorosi del nuovo testamento sull'eguaglianza fondamentale dell'uomo e della donna, come figli di Dio nel Cristo (cf. Gal 3,28). Non c'è ragione, perciò, di accusarlo di pregiudizi ostili alle donne, quando si constata la fiducia che egli loro esprime e la collaborazione che chiede loro nel suo apostolato.

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Ma oltre a queste obbiezioni, tratte dalla storia dei tempi apostolici, coloro che sostengono la legittimità di una evoluzione in materia traggono argomento dalla pratica della Chiesa nella disciplina dei sacramenti. Si è potuto rilevare, soprattutto nella nostra epoca, come la Chiesa ha coscienza di possedere sui sacramenti, ancorché istituiti dal Cristo, un certo potere. Essa ne usò nel corso dei secoli per precisarne il segno e le condizioni per amministrarli; le recenti decisioni dei pontefici Pio XII e Paolo VI ne sono la prova. Nondimeno occorre sottolineare che questo potere, che è reale, resta limitato. Come ricordava Pio XII, "la Chiesa non ha alcun potere sulla sostanza dei sacramenti, vale a dire su tutto ciò che il Cristo signore, secondo la testimonianza delle fonti della rivelazione, ha voluto che si mantenga nel segno sacramentale". Questo era stato già l'insegnamento del concilio di Trento, che aveva dichiarato: "Nella Chiesa è sempre esistito questo potere, che cioè nell'amministrazione dei sacramenti, mantenendo inalterata la loro sostanza, essa possa stabilire o modificare tutto ciò che giudica piú conveniente all'ostilità di quelli che li ricevono o al rispetto verso gli stessi sacramenti, secondo il variare delle circostanze, dei tempi e dei luoghi".

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D'altra parte, non bisogna dimenticare che i segni sacramentali non sono convenzionali; e anche se è vero che sono, sotto certi aspetti, dei segni naturali perché rispondono al simbolismo profondo dei gesti e delle cose, essi sono piú di questo: sono destinati principalmente a coinvolgere l'uomo di ciascuna epoca con l'evento supremo della storia della salvezza, a fargli comprendere, mediante tutta la ricchezza della pedagogia e del simbolismo della Bibbia, quale grazia essi significhino e producano. Cosí, il sacramento dell'eucaristia non è soltanto un convito fraterno, ma è, ad un tempo, il memoriale che rende presente ed "attualizza" il sacrificio del Cristo e la sua offerta mediante la Chiesa; il sacerdozio ministeriale non è un semplice servizio di carattere pastorale, ma garantisce la continuità delle funzioni affidate dal Cristo ai dodici, e dei poteri relativi ad esse. L'adattamento alle civiltà ed alle epoche, dunque, non può abolire, nei punti essenziali, il riferimento sacramentale agli avvenimenti costitutivi del cristianesimo e al Cristo medesimo.

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In ultima analisi, è la Chiesa che, per la voce del suo magistero, assicura, in questi vari campi, il discernimento tra ciò che può cambiare e ciò che deve restare immutabile. Quando essa ritiene di non poter accettare certi cambiamenti, è perché sa di essere legata al modo d'agire di Cristo; il suo atteggiamento, nonostante le apparenze, non è allora quello dell'arcaismo, bensí quello della fedeltà: essa non si può veramente comprendere se non a questa sola luce. La Chiesa si pronuncia, in virtú della promessa del Signore e della presenza dello Spirito santo, al fine di proclamare meglio il mistero di Cristo, di salvaguardarne e di manifestarne la ricchezza nella sua integrità.

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Questa pratica della Chiesa riveste, dunque, un carattere normativo: nel fatto di non conferire l'ordinazione sacerdotale se non ad uomini è implicita una tradizione continua nel tempo, universale in oriente e in occidente, ben attenta nel reprimere tempestivamente gli abusi. Una tale norma, che si appoggia sull'esempio del Cristo, è seguita perché viene considerata conforme al disegno di Dio per la sua Chiesa.

 

 

V. Il sacerdozio ministeriale alla luce del mistero di Cristo

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Dopo aver ricordato la norma della Chiesa ed i suoi fondamenti, è utile ed opportuno chiarire questa regola, indicando la profonda convenienza che la riflessione teologica scopre tra la natura propria del sacramento dell'ordine, nel suo riferimento specifico al mistero di Cristo, ed il fatto che soltanto gli uomini sono stati chiamati a ricevere l'ordinazione sacerdotale. Non si tratta già di apportarvi un'argomentazione dimostrativa, ma di chiarire questa dottrina mediante l'analogia della fede.

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L'insegnamento costante della Chiesa, rinnovato e precisato dal concilio Vaticano II, richiamato ancora dal sinodo dei vescovi nel 1971 e da questa Congregazione per la dottrina della fede nella sua dichiarazione del 24 giugno 1973, proclama che il vescovo o il presbitero, nell'esercizio del rispettivo ministero, non agisce a suo proprio nome, ma rappresenta il Cristo, il quale agisce per mezzo di lui: "Il sacerdote compie realmente le veci di Cristo", come scriveva già nel secolo III s. Cipriano. È proprio questo valore di rappresentatività del Cristo che san Paolo considerava come caratteristico della sua funzione apostolica (cf. 2 Cor 5,20; Gal 4, 14), Esso raggiunge la piú alta espressione ed una forma del tutto particolare nella celebrazione dell'eucaristia, la quale è la sorgente e il centro dell'unità della Chiesa, convito sacrificale in cui il popolo di Dio è associato al sacrificio di Cristo: il sacerdote che, solo, ha il potere di compierlo, agisce in questo caso non soltanto per la virtú che gli è conferita da Cristo, ma nella persona di Cristo, cioè sostenendo la parte di Cristo, al punto di essere la stessa sua immagine, allorché pronuncia le parole della consacrazione.

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Il sacerdozio cristiano è, dunque, di natura sacramentale: il sacerdote è un segno, la cui efficacia soprannaturale proviene dall'ordinazione ricevuta, ma un segno che deve essere percettibile e che i fedeli devono poter riconoscere facilmente. L'economia sacramentale è fondata, in effetti, su segni naturali, su simboli che sono inscritti nella psicologia umana: "I segni sacramentali - dice s. Tommaso - rappresentano ciò che significano per una naturale rassomiglianza". Ora, questo criterio di rassomiglianza vale, come per le cose, cosí per le persone: allorché occorre esprimere sacramentalmente il ruolo del Cristo nell'eucaristia, non si avrebbe questa "naturale rassomiglianza", che deve esistere tra il Cristo e il suo ministro, se il ruolo del Cristo non fosse tenuto da un uomo: in caso contrario, si vedrebbe difficilmente in chi è ministro l'immagine di Cristo. In effetti, il Cristo stesso fu e resta un uomo.

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Certamente, è di tutta l'umanità, tanto delle donne quanto degli uomini, che il Cristo è primogenito: l'unità che egli ha ristabilito dopo il peccato è tale che non c'è piú né giudeo né greco, né schiavo né libero, non c'è piú uomo e donna; tutti, infatti, sono uno solo in Cristo Gesú (cf. Gal 3,28). Tuttavia, l'incarnazione del Verbo è avvenuta secondo il sesso maschile: è, sí, una questione di fatto, ma un tal fatto, lungi dall'implicare una presunta superiorità naturale dell'uomo sulla donna, è inseparabile dall'economia della salvezza. In realtà, esso è in armonia col disegno di Dio nel suo insieme, cosí come egli stesso l'ha rivelato ed il cui centro è il mistero dell'alleanza.

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Infatti, la salvezza offerta da Dio agli uomini, l'unione cui sono chiamati con lui, in una parola l'alleanza, riveste fin dall'antico testamento, presso i profeti, la forma privilegiata di un mistero nuziale: il popolo eletto diventa agli occhi di Dio una sposa ardentemente amata. Di questa intimità d'amore sia la tradizione giudaica che quella cristiana hanno scoperto la profondità, leggendo e rileggendo il Cantico dei cantici; lo sposo divino resterà fedele anche quando la sposa tradirà il suo amore, quando Israele sarà infedele a Dio (cf. Os 1-3; Ger 2). Venuta "la pienezza dei tempi" (Gal 4,4), il Verbo, figlio di Dio, assume la carne per inaugurare e sigillare la nuova ed eterna alleanza nel suo sangue, che sarà versato per la moltitudine in remissione dei peccati: la sua morte radunerà i figli di Dio che erano dispersi; dal suo fianco trafitto nascerà la Chiesa, come Eva è nata da quello di Adamo. Allora si realizza pienamente e definitivamente il mistero nuziale, annunziato e cantato nell'antico testamento: il Cristo è lo sposo; la Chiesa è la sua sposa, che egli ama poiché se l'è acquistata col suo sangue e l'ha resa gloriosa, santa ed immacolata, e dalla quale è ormai inseparabile. Questo tema nuziale, che si precisa a partire dalle lettere di san Paolo (cf. 2 Cor 11, 2; Ef 5,22-33) fino agli scritti giovannei (soprattutto Gv 3,29; Ap 19,7 e 9), è presente pure nei vangeli sinottici: finché lo sposo è con loro, i suoi amici non devono digiunare (cf. Mc 2, 19); il regno dei cieli è simile a un re che fece le nozze per suo figlio (cf. Mt 22, 1-14). È attraverso questo linguaggio della Scrittura, tutto intessuto di simboli e tale da esprimere e raggiungere l'uomo e la donna nella loro profonda identità, che ci è rivelato il mistero di Dio e di Cristo, mistero che di per sé è insondabile.

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È per questo che non si deve mai trascurare questo fatto che Cristo è un uomo. Pertanto, a meno che non si voglia misconoscere l'importanza di questo simbolismo per l'economia della rivelazione, bisogna ammettere che, nelle azioni che esigono il carattere dell'ordinazione e in cui è rappresentato il Cristo stesso, autore dell'alleanza, sposo e capo della Chiesa, nell'esercizio del suo ministero di salvezza, e ciò si verifica nella forma piú alta nel caso dell'eucaristia, il suo ruolo deve essere sostenuto - è questo il senso originario della parola "persona" - da un uomo. E ciò all'uomo non deriva da alcuna superiorità personale nell'ordine dei valori, ma soltanto da una diversità di fatto sul piano delle funzioni e del servizio.

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Si potrebbe dire che, essendo Cristo al presente nella condizione celeste, sarebbe ormai indifferente che egli sia rappresentato da un uomo o da una donna, poiché "nella resurrezione non si prende né moglie né marito" (cf. Mt 22,30)? Ma questo testo non significa che la distinzione dell'uomo e della donna, in quanto determina l'identità propria della persona, sia soppressa nella glorificazione; ciò che vale per noi, vale anche per il Cristo. Infatti, è appena necessario ricordare che negli esseri umani la differenza sessuale ha un influsso rilevante, piú profondo che non, ad esempio, le differenze etniche: queste non raggiungono la persona umana tanto intimamente quanto la differenza dei sessi, direttamente ordinata sia alla comunione delle persone che alla generazione degli uomini. Nella rivelazione biblica essa è l'effetto di una volontà primordiale di Dio: "Uomo e donna li creò" (Gen 1,27).

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Tuttavia, alcuni osserveranno forse che il sacerdote soprattutto quando presiede le azioni liturgiche e sacramentali, rappresenta egualmente la Chiesa: egli agisce a suo nome, con "l'intenzione di fare ciò che essa fa". In tal senso, i teologi del medioevo dicevano che il ministro agisce anche "nella persona della Chiesa", cioè a nome di tutta la Chiesa e per rappresentarla. E di fatto, checché ne sia della partecipazione dei fedeli ad una azione liturgica, è proprio a nome di tutta la Chiesa che tale azione è celebrata dal sacerdote: questi prega a nome di tutti; nella messa offre il sacrificio di tutta la Chiesa; nella nuova pasqua è la Chiesa che immola il Cristo, sotto segni visibili, per il ministero dei sacerdoti. Cosí, dal momento che il sacerdote rappresenta anche la Chiesa, non si potrebbe pensare che tale rappresentanza possa essere assicurata da una donna, secondo il simbolismo già esposto; È vero che il sacerdote rappresenta la Chiesa, che è il corpo di Cristo. Ma se lo fa, è precisamente perché, innanzitutto, egli rappresenta il Cristo stesso, il quale è il capo e il pastore della Chiesa: formula questa usata dal concilio Vaticano II, che precisa e completa l'espressione "nella persona di Cristo". È con tale qualifica che il sacerdote presiede l'assemblea cristiana e celebra il sacrificio eucaristico, nel quale la Chiesa tutta offre e si offre.

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Se si dà valore a queste riflessioni, si comprenderà meglio come sia ben fondata la prassi della Chiesa, e si concluderà che le controversie, suscitate ai nostri giorni circa l'ordinazione della donna, costituiscono per tutti i cristiani un pressante invito ad approfondire il senso dell'episcopato e del presbiterato, a riscoprire la specifica posizione del sacerdote nella comunità dei battezzati, della quale egli certo fa parte, ma dalla quale si distingue poiché, nelle azioni che esigono il carattere dell'ordinazione, egli è per essa - con tutta l'efficacia che comporta il sacramento - l'immagine, il simbolo di Cristo stesso che chiama, perdona, compie il sacrificio dell'alleanza.

 

 

VI. Il sacerdozio ministeriale nel mistero della Chiesa

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Forse è opportuno ricordare che i problemi di ecclesiologia e di teologia sacramentaria, soprattutto quando riguardano il sacerdozio - come in questo caso -, non possono trovare la loro soluzione che alla luce della rivelazione. Le scienze umane, per quanto prezioso sia il loro contributo nell'ambito proprio, non possono bastare, poiché non possono raggiungere la realtà della fede; il contenuto propriamente soprannaturale di queste sfugge alla loro competenza.

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È per questo che si deve sottolineare come la Chiesa sia una società diversa dalle altre società, originale nella sua natura e nelle sue strutture. La funzione pastorale, nella Chiesa, è normalmente legata al sacramento dell'ordine: non si tratta soltanto di un governo paragonabile ai modi di autorità che si verificano negli stati. Esso non è concesso per scelta spontanea degli uomini: anche quando comporta una designazione per via di elezione, è l'imposizione delle mani e la preghiera dei successori degli apostoli che garantiscono la scelta di Dio; ed è lo Spirito santo, donato mediante l'ordinazione, che consente di partecipare al governo del supremo pastore, Cristo (cf. At 20,28). È funzione di servizio e di amore: "Se mi ami, pasci le mie pecore" (cf. Gv 21, 15-17).

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Per questa ragione, non si vede come si possa proporre l'accesso delle donne al sacerdozio in virtú dell'eguaglianza dei diritti della persona umana, eguaglianza che vale pure per i cristiani. E talvolta si utilizza a tale scopo il testo sopra menzionato della lettera ai Galati (3,28), secondo il quale, nel Cristo, non c'è piú distinzione tra l'uomo e la donna. Ma un tal passo non riguarda minimamente i ministeri: esso afferma soltanto la vocazione universale alla filiazione divina, che è uguale per tutti. D'altra parte e soprattutto, significherebbe misconoscere completamente la natura del sacerdozio ministeriale il considerarlo come un diritto: il battesimo non conferisce alcun titolo personale al ministero pubblico nella Chiesa. Il sacerdozio non è conferito per l'onore e il vantaggio di colui che lo riceve, ma come un servizio di Dio e della Chiesa; esso è oggetto di una vocazione specifica, totalmente gratuita: "Non siete voi che avete scelto me; sono io che vi ho scelti e costituiti"... (Gv 15, 16; cf. Eb 5,4).

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Si dice a volte e si scrive in libri e riviste che ci sono delle donne, le quali si sentono una vocazione sacerdotale. Una tale attrattiva, per quanto nobile e comprensibile, non costituisce ancora una vocazione. Questa, infatti, non potrebbe ridursi alla sola inclinazione personale, che può restare puramente soggettiva. Poiché il sacerdozio è un ministero peculiare di cui la Chiesa ha ricevuto l'incarico e il controllo, l'autenticazione da parte della Chiesa risulta qui indispensabile; essa fa parte costitutiva della vocazione: il Cristo ha scelto "coloro che egli voleva" (Mc 3, 13). Al contrario, esiste una vocazione universale di tutti i battezzati all'esercizio del sacerdozio regale mediante l'offerta della vita a Dio e la testimonianza come lode a Dio.

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Le donne che formulano la loro richiesta in ordine al sacerdozio ministeriale sono certo ispirate dal desiderio di servire Cristo e la Chiesa. Né desta sorpresa il fatto che esse, al mo mento in cui prendono coscienza delle discriminazioni di cui sono state oggetto, giungano al punto di desiderare lo stesso sacerdozio ministeriale. Non bisogna, tuttavia, dimenticare che il sacerdozio non fa parte dei diritti della persona, ma dipende dall'economia del mistero di Cristo e della Chiesa. La funzione del sacerdote non può essere ambita come termine di una promozione sociale; nessun progresso puramente umano della società o della persona può di per se stesso darvi accesso: si tratta di un ordine diverso.

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Ci rimane, dunque, da considerare meglio la vera natura di questa eguaglianza dei battezzati, la quale è una delle grandi affermazioni del cristianesimo: l'eguaglianza non è affatto identità, nel senso che la Chiesa è un corpo differenziato, nel quale ciascuno ha la sua funzione; i compiti sono distinti e non devono essere confusi. Essi non danno adito alla superiorità degli uni sugli altri; non forniscono alcun pretesto alla gelosia; il solo carisma superiore, che può e deve essere desiderato, è la carità (cf. 1 Cor 12-13). I piú grandi nel regno dei cieli non sono i ministri, ma i santi.

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La santa madre Chiesa auspica che le donne cristiane prendano pienamente coscienza della grandezza della loro missione: il loro ruolo sarà oggigiorno determinante sia per il rinnovamento e l'umanizzazione della società, sia per la riscoperta, tra i credenti, del vero volto della Chiesa. Nel corso dell'udienza, concessa il 15 ottobre 1976 al sottoscritto prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, Paolo VI ha approvato questa dichiarazione, l'ha confermata e ne ha ordinato la pubblicazione.

 Roma, palazzo della Congregazione per la dottrina della fede, 15 ottobre 1976, festa di santa Teresa d'Avila.

Franjo card. Seper, prefetto.

+ Fr. Jerome Hamer, O.P., arciv. tit. di Lorium, segretario.

 

 

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N.B. Si raccomanda la consultazione dei testi originali presso il sito della Santa Sede. È inoltre possibile richiedere i documenti presso il sito della Libreria Editrice Vaticana.