Nelle celebrazioni che interessano quest’anno la famiglia dei cappellani militari, si vuol dare spazio anche ai cappellani in congedo; del resto, cinquant’anni dalla costituzione del Servizio Assistenza Spirituale alle FF.AA. a che fan pensare se non a quelli che a detto Servizio diedero credibilità?

Non intendo qui ricordare i nomi gloriosi; rilevo soltanto che la storia dei cappellani militari sembra cominciare nel giorno del loro congedo. Penso a Padre Semeria, a Facibeni, a don Antonietti, a don Gnocchi, a don Gilardi... Io mi chiedo: avrebbero creato, questi uomini, le opere mirabili che li rendono ammirati ad ogni livello, senza la loro esperienza militare?

Erano uomini di carica umana e di fede straordinari; sarebbero esplosi ugualmente; ma è certo che la vocazione a soccorrere, confortare, guarire le ferite creando opere che hanno coinvolto tutta la società è venuta loro dalla trincea. Quanto hanno operato in pace è venuto a confermare la sincerità della loro dedizione in guerra; non potevano non raccogliere i figli i cui padri erano morti loro in braccio.

Viene ovvio il pensare alla grandezza del sacerdozio che educa e plasma cosí da far risplendere i suoi di luce ancor piú viva là dove sembra si spenga ogni altra luce. Ma, a proposito del sacerdote che condivide la guerra con i fratelli in guerra, resta sempre il grande mistero: che ci fa un prete là dove si uccide? Non è egli chiamato ad affermare i pensieri di pace? Non chiede egli al Signore che dissipi quelli che vogliono la guerra? E allora, che ci fa in trincea? Ma lui non spara; il cappellano in trincea ha l’unica arma della croce. D’accordo; ma è fortissimo il suo peso di disarmato nell’incuorare i soldati a fare il loro terribile dovere. (Quando si cadeva prigionieri in Russia, noi cappellani venivamo equiparati ai politruk, che erano gli animatori in mezzo alle truppe senza avere alcun grado militare). Il mistero resiste ad ogni possibile ragionamento. La posizione di Cristo a condannare ogni violenza è talmente chiara, che non ammette di cadere in tentazione, direbbe Padre Semeria, da fare di un linguaggio sublime, un discorsetto alla portata di mano; d’un volo d’aquila, un salto di passero.

Anche se padre Semeria, dopo aver affermato chiaramente che il Vangelo non contempla la possibilità di una guerra sia pure per legittima difesa (come la guerra partigiana ad esempio) nel 1915 egli scriveva: «Il Vangelo non impone l’immediato disarmo a nessuno come non impose diciannove secoli fa a nessun padrone il licenziamento degli schiavi; ma con i suoi ideali di mansuetudine, di amore, di fraternità, crea il disagio della guerra nella società cristiana e della società cristiana nella guerra».

Ogni cappellano militare in linea ha trovato un suo motivo di validità per restarci. Una coincidenza abbastanza scontata ha dato a me una luce e un conforto insperato.

Mi sono trovato a dire la Messa durate un combattimento e siccome dovevo contemporaneamente accogliere i feriti, mi sono accorto delle mie mani macchiate del sangue dei miei ragazzi, mentre elevavo il calice del Signore. Non ricordo bene; ma credo che quell’Elevazione mi durò parecchio. Il Canone romano mi aiutò mirabilmente: ero Abramo che offre il sacrificio del figlio di Cristo che in quel momento sanguinava, moriva nella persona di quei figli attorno a me.

Ma lo stare sul Calvario può suggerire qualche idea in piú; se Cristo invoca soccorso, allora bisogna aiutarlo; ma se aiutarlo significa rischiare la vita, allora bisogna rischiare la vita.

Il 26 dicembre 1941 in Albania don Secondo Pollo viene falciato mentre corre ai lamenti di un suo alpino; nello stesso giorno 26 dicembre 1941 in Russia don Giovanni Mazzoni viene falciato mentre corre ai lamenti di un suo bersagliere. Non c’è niente di assurdo nella loro morte; altrimenti dovremmo dire che è assurda la morte di Cristo. Il 26 dicembre 1941 don Secondo Pollo e don Giovanni Mazzoni hanno veramente celebrata la Messa.

A questo punto i soldati si accorgono dei loro cappellani e quello che provano lo espresse efficacemente a me Antonio Rossetti di Fabbrico (Reggio Emilia) che nel febbraio 1942 mi stava parlando del suo cappellano don Guglielmo Biasutti. Le parole testuali furono queste «Cappellano, senta quello che le dico: io a casa ho quattro bambini che adoro. Se Dio mi chiedesse uno dei miei bambini o il mio cappellano, creda, non saprei chi darGli».

Una cosa è certa: l’esperienza dei cappellani militari può apportare validissimi contributi per un approfondimento della grandezza del sacerdozio cattolico.

Ora mi rifaccio all’idea da cui ero partito: il cappellano militare sembra cominciare la sua attività nel giorno del suo congedo. Può sembrare che per la maggioranza di noi, questo non si realizzi.

La guerra finisce; si ritorna a casa, si ringrazia Dio dello scampato pericolo e si vive di ricordi. Ci si ritrova con gli amici, si fanno delle «belle feste», dei raduni; sí, ritorna la Messa al campo ma è sempre condensata; un po’ piú di tempo si dedica al banchetto; già, sono tanti i ricordi da smaltire!

Se fosse solo cosí, noi tradiremmo bellamente noi stessi.

Io ho un collega, don Carlo Caneva, che tornato dalla Russia, ha sentito il bisogno di creare un centro di incontri nel ricordo di quelli che non erano tornati; è sorto un Tempio e una cripta. Folle e folle là si raccolgono ogni anno e in tanti momenti dell’anno. Il dr. Giulio Bedeschi, il prestigioso autore delle «100.000 gavette di ghiaccio» ambienta nel Tempio di don Caneva un lungo capitolo della sua «Rivolta di Abele».

La cripta ha nel centro una tomba di porfido nero; Don Caneva dice che quella tomba un giorno si chiuderà e precisamente quando avremo ottenuto dai Russi. le ossa di almeno uno dei nostri morti in Ucraina.

Accanto alla cripta, una sala; tutt’intorno, 18 leggii molto solenni reggono 18 volumi con i nomi dei nostri caduti e dispersi in Russia: 70.000 nomi. Don Caneva continua cosí il suo servizio militare. I contatti di ieri con i suoi alpini, li ha moltiplicati oggi con le loro famiglie e con quanti vengono a meditare, ad ascoltare, a pregare.

Padre Ottorino Marcolini, don Luigi Pasa, padre Oreste Cerri, don Guido Turla, don Giulio Penitenti... vivono oggi, attraverso la testimonianza di opere le piú varie, la loro prima vocazione.

Molti cappellani militari sono oggi parroci, se aveste partecipato alla presa di possesso della loro parrocchia, li avreste sentiti parlare cosí: cari parrocchiani, io sarò tutto per voi; ma vi avverto che, venendo a voi, non posso rinunciare alla parrocchia costituita dai miei reduci. Che anzi li vedo in mezzo a voi, venuti anch’essi a farmi festa con voi. Se in qualche momento io mi assenterò da voi, sappiate che sto attendendo a loro. Cari mi siete voi, ma ancor piú cari mi sono loro. Potete ben capire: il vincolo che mi lega a loro è il piú forte che ci sia; è il vincolo della morte che ci ha sfiorati mentre insieme si trepidava e si pregava.

 

 

 

 

 

Cfr. FRANZONI E., Spunti per qualche riflessione, in Bonus Miles Christi, 3-4 (1976), 37-39.