Il cardinal Carlo Maria Martini nel 2008 ha pubblicato un libro dal titolo intrigante: “Conversazioni notturne a Gerusalemme. Sul rischio della fede” (Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2008). Il testo ha conquistato in breve tempo le classifiche dei libri piú venduti. La forma è quella di un’intervista, curata dal gesuita tedesco Georg Sporschill. In questo libro il cardinale è piuttosto severo nel giudicare gli atti di governo e di magistero degli ultimi papi, da Paolo VI in poi. In piú di un’occasione il cardinal Martini non si è espresso in termini favorevoli all’enciclica “Humanae Vitae”, ma in questo suo libro c’è anche un’accusa, rivolta alla Chiesa, di “involuzione”. Martini reclama una Chiesa “coraggiosa” e “aperta”, come si può evincere dal suo libro.

Il quotidiano della conferenza episcopale italiana, “Avvenire”, nel darne notizia si è limitato a sottolineare che... “molte delle considerazioni ivi espresse, comprensibilmente, faranno discutere”. Silenzio invece da parte de “L’Osservatore Romano”. Ma qual è il “rischio della fede” che il cardinal Martini evoca? Il prof. Pietro De Marco, docente all’Università di Firenze e alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale, sottopone ad una critica puntuale e decisa questo libro definendolo... “reticente quanto a completezza della confessione di fede”. Un libro ricco di riferimenti biblici ma dove gli articoli del Credo... “vivono in sordina come fosse superfluo menzionarli”. Un dato che ha caratterizzato il percorso di un uomo come Martini, insieme ad una parte della Chiesa del postconcilio, ma il vero rischio è quello della perdita della fede.

 

 

 

 

 

 

 

OSSERVAZIONI SULLE “CONVERSAZIONI NOTTURNE”

di Carlo Maria Martini e Georg Sporschill

del Prof. Pietro De Marco

 

 

 

La forma di questo libro, una ben costruita intervista scandita in capitoli introdotti da brevi testi, spesso domande, di “giovani”, ne fa un testimone importante della mente del cardinale Carlo Maria Martini. E di quanti lo seguono dentro e fuori i confini ecclesiali.

Del libro sottolineerò quello che non mi sento di approvare e specialmente quella che mi appare l’intima contraddizione, una contraddizione che segna forse l’intera vicenda pubblica del gesuita, già arcivescovo di Milano. Ma rendo omaggio, anche filiale, alla personalità grande che si rivela, ancora una volta, in queste pagine, scritte assieme a Georg Sporschill, anch’egli un religioso della Compagnia di Gesú.

Parto dalla risposta del cardinale alla domanda: “come dovrebbe essere oggi l’educazione religiosa?” (p. 19). Che equivale a: come educare qualcuno a essere un “buon cristiano”? Il cardinale aveva poco prima detto: un buon cristiano si distingue “perché crede in Dio, ha fiducia, conosce Cristo, impara a conoscerlo sempre meglio e lo ascolta”.

Nello stile del libro, che sembra risolvere tutto nella dimensione quotidiana, nella verità dei “mondi vitali”, Martini inizia con l’evocare scene familiari e “semplici usanze”. Tra queste ultime fa impressione vedere indicati anche il Natale e la Pasqua. Ci tornerò su. L’educazione religiosa proposta dal cardinale è di “ascoltare le domande e le scoperte dei giovani e accettarle”, per arrivare al suo fondamento, la Bibbia: “Non pensare in modo biblico ci rende limitati, ci impone dei paraocchi, non consentendoci di cogliere l’ampiezza della visione di Dio” (p. 20).

Va certamente apprezzato tale fiducioso e ragionato primato dato alla Scrittura, in anni in cui c’è chi propone nel cristianesimo una “religione della ragione”, ovvero una ricerca di Dio che elimina la Bibbia quale coacervo di falsità. Ma quando il cardinale va a spiegare in che cosa si esprime la “ampiezza della visione di Dio” dischiusa dalla Scrittura, la indica in Gesú che si meraviglia della fede dei pagani e accoglie in cielo il ladrone, o in Dio che protegge Caino che ha ucciso il fratello. “Nella Bibbia Dio ama gli stranieri, aiuta i deboli”, prosegue il cardinale. E con ciò slitta nel troppo detto, nel sermone, che prosegue nella risposta alla domanda successiva: “Dobbiamo imparare a vivere la vastità dell’essere cattolico. E dobbiamo imparare a conoscere gli altri. [...] Per proteggere questa immensità non conosco modo migliore che continuare sempre a leggere la Bibbia. [...] Se ascoltiamo Gesú e guardiamo i poveri, gli oppressi, i malati, [...] Dio ci conduce fuori, nell’immensità. Ci insegna a pensare in modo aperto”. Si coglie qui un compendio di pensiero che merita un commento.

Intanto, se la fede/fiducia in Dio e la conoscenza/ascolto di Cristo sono l’essenza della condizione cristiana, questa bella formula non può essere usata come già per sé sufficiente. Il solo rimando a un leggere/pensare biblico e ad una “apertura” di cuore resta del tutto indeterminato. L’unica, minima determinatezza nelle parole del cardinale è quella che procede dalla “apertura agli altri” alla Scrittura, per ritrovare in questa quella medesima apertura. Una simile circolarità, per quanto importante, è veramente poco rispetto all’immensità del tesoro scritturistico. Che ne è della conoscenza delle cose divine? Del timore e dell’amor di Dio? Della economia trinitaria? Se la Rivelazione ci trasforma è perché essa implica “infinitamente” di piú che un pensare “in modo aperto” alla maniera dei moderni; un “aperto” che si oppone a ciò che Sporschill liquida come “mentalità ristretta”.

Questo orizzonte, che tanto piace all’intelligencija laica e cattolica, spiega anche la riduzione che Martini fa delle grandi festività dell’anno liturgico a “semplici usanze”. Riduzione forse involontaria, eppure rivelatrice. Quando mai nel pensoso e spesso profondo ragionare del cardinale si intravvedono la “lex orandi” e la pienezza del mistero liturgico? A lui sfugge il legame tra l’immensità del “pensare in modo biblico” e l’immensità del culto cristiano che davvero ci apre a una liturgia cosmica, anche se non siamo né diventiamo per questo degli “spiriti aperti” alla maniera moderna. Non è questione da poco né recente. I cattolici e ancor piú gli ortodossi sono in questo su sponde opposte rispetto alle comunità protestanti, alle quali non è bastato, per far fronte alla modernità, il frequentare la Scrittura e “pensare in modo biblico”.

Il “vivere la vastità dell’essere cattolico” non si compie neppure nel guardare “i poveri, gli oppressi, i malati”. Quello che il cardinale chiama il “rischio” della Chiesa di porsi come un assoluto non mi pare evocato in maniera pertinente. L’assolutezza della incarnazione del Logos nel cosmo e nella storia non è un “rischio” ma è il fondamento di quella “vastità”, è ciò che davvero ci fa “aperti”.

Senza sottovalutare i “mondi vitali” che il cardinale predilige, è nell’assolutezza che si radicano da sempre universalità e responsabilità cristiane. Solo qualche pensatore laico insiste ancora, specialmente in Italia, sull’equazione tra “pretesa di verità” e “chiusura” intellettuale e morale. Mi preoccupa il passaggio in cui Martini dice: “Gli uomini si allontanano dai [...] dieci comandamenti e si costruiscono una propria religione; questo rischio esiste anche per noi. Non puoi rendere Dio cattolico. Dio è al di là dei limiti e delle definizioni che noi stabiliamo. Nella vita ne abbiamo bisogno, è ovvio, ma non dobbiamo confonderli con Dio”. Mi preoccupa perché è rischiosissima l’idea che una religione positiva sia in sé allontanamento da un fondamento indeterminato che la precede e le è superiore. Anche dal punto di vista della scienza delle religioni non sussiste per sé un religioso indeterminato, comune e primario. Solo le religioni sono religione.

Trovo infelice anche la formula del “Dio cattolico”, quasi che le teologie su Dio della “Catholica Ecclesia” rappresentino un’indebita appropriazione e perdita del divino, invece che l’amorosa e gelosa sollecitudine spirituale e gerarchica per quanto è rivelato in Cristo. Certamente Dio è al di là delle nostre definizioni; ma non è “per la vita”, cioè per motivi di praticità, che noi stabiliamo delle “definizioni”; infatti è molto piú pratico non definire, come preferiscono tanti moderni e postmoderni. La mirabile teologia trinitaria dei concili e le “summae” teologiche sono piú e altro che contingenze. Sono monumenti di lode al Dio di Gesú Cristo eretti dalla ragione cristiana. Forse è difficile per l’esegeta moderno, anche cattolico e della generazione di Martini, capirlo.

Tutto il percorso di queste conversazioni notturne nasconde molti passaggi rischiosi. Forse l’antica perizia da rocciatore di Martini li predilige, li cerca. Per restare nel capitolo primo, a p. 18 il cardinale dice: “Gesú si è battuto in nome di Dio perché viviamo secondo giustizia”. E a p. 24: “Gesú ha osato intervenire e mostrare che l’amore di Dio deve cambiare il mondo e i suoi conflitti. Per questo ha rischiato la vita, sacrificandola infine sulla croce. La sua abnegazione, però, la vediamo già in precedenza. [...] Credo che questo sia il suo amore, che sento nella comunione, nella preghiera, con i miei amici, nella mia missione”. Non ho alcun timore di impopolarità nel dire che questa cristologia di taglio liberazionista sarà anche pastoralmente utile con alcuni giovani aperti al progresso, ma mi appare seriamente lacunosa. È inutile che io ricordi a un grande conoscitore dei testi del Nuovo Testamento quanto sia criticamente infondato, oltre che profondamente riduttivo del significato della Rivelazione, affermare che Gesú “si è battuto in nome di Dio” come uno dei tanti ribelli religiosi, ed è morto sulla croce per cambiare il mondo secondo le contingenti istanze del mondo (pace e giustizia secondo chi e per chi?). Ammettiamo che la lettura che Martini fa di Gesú implichi un antagonismo piú spirituale e meno “politico”; non vi scorgo, comunque, quasi niente della tradizione trinitaria e cristologica. Tradizione che innerva invece profondamente il “Gesú di Nazaret” di Joseph Ratzinger, sul quale il padre Sporschill ironizza (“il buon Gesú di Ratzinger”) con scarsa intelligenza.

Inappropriati sul terreno ecclesiologico sono, poi, diversi passaggi del capitolo quinto dedicato all’enciclica di Paolo VIHumanae Vitae”, che hanno naturalmente fatto scalpore. Anche il sincero dispiacere che il cardinale mostra per quella che egli considera una disavventura nel pontificato di papa Montini finisce con una coda polemica. Il papa pubblicò l’enciclica “con un solitario senso del dovere e mosso da profonda convinzione personale”, dice Martini, marcandone fortemente il volontario isolamento. Ma ci si domanda: di chi Paolo VI poteva fidarsi, fuori di Roma, nel 1968? Di episcopati travolti dalle crisi del postconcilio? O di teologi trasformati in intelligencija ribelle? Appare poco accorto anche lasciar scrivere provocatoriamente a padre Sporschill: “Supponiamo che Benedetto XVI si scusi e ritiri l’enciclica Humanae Vitae”. Sbaglia Martini a coprire con la sua autorità la propensione di correnti ecclesiali a “chiedere scusa”, naturalmente non dei propri errori ma di quelli della gerarchia: uno sport irresponsabile e senza discernimento.

Anche la metafora dei quarant’anni trascorsi dopo la “Humanae Vitae”, da intendere come i quarant’anni di Israele nel deserto (p. 93), è ambigua. Chi avrebbe guidato chi, in questa traversata costellata di infedeltà? Pensa il cardinale Martini, come si pensa negli sparsi focolai della contestazione, che sia il popolo di Dio a guidare alla Terra Promessa una gerarchia resistente al richiamo dello Spirito? O riconosce che è avvenuto il contrario: la profonda conferma della insostituibilità della Chiesa “madre e maestra”? Il coraggio di Paolo VI, fondato nella sua coscienza del ruolo di Pietro, fu enorme e, nella lunga durata della sollecitudine della Chiesa per l’uomo, salutare, come possiamo valutare oggi, dopo decenni di disorientamento e presunzione modernizzante.

Insomma, anche apprezzando in queste pagine tante osservazioni misurate e di grande delicatezza pastorale, trovo nel cardinale una troppo debole consapevolezza di ciò che è in gioco nell’attuale passaggio di civiltà. Prevale in lui l’ascolto delle opinioni, delle preoccupazioni e delle proteste, interne ed esterne alla Chiesa, e una programmatica sintonia con esse, tipica dell’intellettuale. Valga la considerazione, davvero eccessiva, che riserva alle tesi del filosofo tedesco Herbert Schnädelbach in un saggio del 2000 sulle “colpe del cristianesimo”.

Trovo rivelatrice anche la risposta di Martini alla domanda se ha mai avuto paura di prendere decisioni sbagliate (p. 64): “Per paura delle decisioni ci si può lasciar sfuggire la vita. Chi ha deciso qualcosa in modo troppo avventato o incauto sarà aiutato da Dio a correggersi. [...] Non mi spaventano tanto le defezioni dalla Chiesa. Mi angustiano, invece, le persone che non pensano. [...] Vorrei individui pensanti. [...] Soltanto allora si porrà la questione se siano credenti o non credenti. Chi riflette sarà guidato nel suo cammino. Ho fiducia in questo”.

Intravedo in queste formule un metodo talvolta adottato da uomini di Chiesa e in particolare dalla Compagnia di Gesú: attrarre le persone che pensano, non importa se credenti; non smarrirsi per le passate o presenti defezioni dall’istituzione; avere fiducia nella guida e nella correzione di Dio in questo genere di impresa. Questo coraggio spesso appare efficace, anche se non sappiamo cosa ne scaturirà di piú profondo e decisivo per la formazione alla fede e per la Chiesa stessa. Ma c’è qualcosa di essenziale che sfugge. Chi giudica delle “persone pensanti”? E pensanti che cosa? Cosa intende esattamente il cardinale, se andiamo oltre le generali e generose formule educative ed entriamo nel cuore dell’istruzione cristiana?

È evidente che quella espressa dal cardinale è stata anche la scommessa di parte della Chiesa nella lunga crisi di uomini e di fede del postconcilio. È evidente anche l’ottimismo che regge una simile pedagogia della provvidenziale realizzazione di sé nella libertà. Cosí, però, si è sottovalutata e alla fine favorita la falcidie degli uomini dell’istituzione, del clero. Non era difficile, in anni ancora vicini a noi, sentir dire dai pastoralisti che la mancanza di clero è un falso problema ed è anzi una chance per il rinnovamento della trasmissione della fede e per la sua purificazione, naturalmente in senso “non clericale”.

L’ottimismo che accompagna la conversazione notturna del cardinale Martini non può essere, dunque, proposto semplicemente alla futura sperimentazione. Ha già segnato pratiche del passato. E i risultati di questo ottimismo sono sotto il giudizio di tutti. Si può sospettare che, dietro il fascino delle formule e il consenso di tanti amici non credenti, tale ottimismo abbia alimentato quell’intima contraddizione di cui il cardinale appare portatore: da un lato una visibilità cristiana dotata di un profilo “aperto”, dall’altro un messaggio reticente quanto a completezza della confessione di fede. Nel suo modello pedagogico, tra frequentazione della Bibbia e confidenza con gli articoli del Credo lo squilibrio è vistoso: uno squilibrio in cui la Tradizione e il Credo vivono in sordina come fosse superfluo menzionarli.

Una contraddizione simile segna paradossalmente anche le pagine di Carlo Maria Martini sugli esercizi spirituali di sant’Ignazio. Essi sono per il cardinale “esercizi pratici e semplici che mantengono vivo l’amore. È un po’ come nella vita familiare [...]. Anche l’amore per Gesú e l’intimità con Dio vivono di una condotta quotidiana. Non riesco ad immaginare la mia vita senza l’acquasanta ecc...”. Accolgo queste formule delicate, e alla base di esse la distinzione tra gli esercizi “nella loro forma completa, solo per pochi”, e i “numerosi esercizi facili” per tutti (p. 88). Però perché riservare ai semplici la prima settimana, dedicata (dico per semplicità) all’esame di coscienza, e non farli accedere almeno alla seconda? Nel testo italiano del 1555, che traduce la cosiddetta “vulgata”, si legge: “La seconda settimana è contemplare il regno di Iesú Christo per similitudine de uno re terreno il quale chiama li suoi soldati alla guerra”. L’autografo di Ignazio è piú secco: “El llamamiento del rey temporal ayuda a contemplar la vida del rey eternal”, ma non muta la sostanza. La regalità di Cristo e la sua chiamata sono forse irrilevanti per il “buon cristiano” e per la sua vita di fede?

Evidentemente per il cardinale Martini non è essenziale, anzi è imbarazzante “considerare Christum vocantem omnes suos sub vexillum suum”, salvo forse in una versione tutta spirituale. Ma credo che anche parte della Chiesa abbia troppo offuscato i propri “vexilla” e si sia autolimitata al domestico, sia familiare sia comunitario. Ne hanno sofferto i suoi necessari profili universali e pubblici. Ne ha sofferto la sua stessa dedizione e chiamata alla Verità; poiché se a una famiglia possono bastare la consuetudine privata del Pater Noster e la lettura dei Vangeli o dei Salmi, questo non basta alla fede e alla missione. Né può bastare, penso, alla Compagnia di Gesú, ai suoi uomini, alla sua ragione di vita.

È stato necessario che fosse la cattedra di Pietro a fare attiva e autorevole memoria di tutto questo, negli ultimi decenni.