Il corpo umano “In Principio”

La teologia del corpo nel pensiero di Giovanni Paolo II - II [*]

P. Giovanni Cavalcoli, O.P.

 

[Articolo inserito per gentile concessione dell’Autore]

 

 

 

 

 

Prospettiva d’insieme

Una delle direttive di fondo delle riflessioni del Santo Padre è data dalla ricerca di ciò che il corpo era “da principio”, prendendo l’avvio dalle parole di Cristo in Mt 19,3 ss. e Mc 10,2 ss. (A, 7ss.). Ciò, secondo il Papa, consente di “delineare un’antropologia, che possiamo chiamare ‘teologia del corpo’” (13,60; cf. A,79,85,87). In questi passi evangelici, Gesú suppone l’esistenza di uno stato iniziale e perfetto del corpo umano, attualmente perduto (A,18,86), ma che occorre in qualche modo considerare come modello, e verso il quale quindi bisogna tornare (A,15): uno stato nel quale il cuore umano non era “indurito”, ma era un vero cuore, un cuore “di carne”, un cuore “puro”, dotato di una perfetta e serena coscienza morale (A,79).

Quali erano esattamente - per quanto possiamo saperne dalla Rivelazione - le condizioni del corpo in questo stato felice? Ecco l’argomento del presente articolo. Si tratta di quello che la teologia tradizionale chiama lo “stato d’innocenza” o di “giustizia originaria” (A,85).

La prima cosa che il Santo Padre rileva è come le suddette parole di Cristo nel Vangelo siano un riferimento ai due racconti della creazione (A,8). Gesú si riferisce a uno stato dell’umanità dal quale essa è decaduta in seguito al peccato originale. Esiste - riconosce il Papa - “una differenza essenziale tra lo stato di peccaminosità dell’uomo e quello della sua innocenza originaria” (A,15): vi è un rapporto diverso tra le forze interiori dell’uomo (A,85). E tuttavia, Gesú comanda, “in certo senso, di oltrepassare il confine che, nel testo jahvista della Genesi, corre tra la prima e la seconda situazione dell’uomo” (ibid.; cf A,86). In che senso e in che misura l’uomo, fin da ora, può e deve varcare tale confine, sarà oggetto di studio dei prossimi articoli.

In ogni caso, “le parole di Cristo, che si riferiscono al ‘principio’, ci permettono di trovare nell’uomo una continuità essenziale e un legame fra questi due diversi stati o dimensioni dell’essere umano” (A,16; cf. E,25). Tutta la difficoltà della nostra analisi sta allora nel determinare il piú esattamente possibile il rapporto tra questi due stati (A,86), evitando sia una separazione eccessiva (difetto della teologia del passato), sia un eccessivo accostamento (difetto della teologia di oggi). Nel prossimo articolo esamineremo lo stato conseguente al peccato, quello - per usare il linguaggio tradizionale - della “natura decaduta e redenta”, e che il Papa chiama lo “stato storico” o dell’”uomo storico” (ibid.). Tale continuità tra lo stato d’innocenza e lo stato presente (“storico”) ci permette di conoscere il primo non soltanto attraverso la Rivelazione, ma anche, in qualche modo, attraverso il secondo (A,79).

È importante determinare le caratteristiche dello stato d’innocenza, anche per conoscere meglio i nostri doveri e ideali morali dello stato presente. Difatti, nello stato d’innocenza si trovano “le radici permanenti dell’aspetto umano e soprattutto teologico dell’ethos del corpo” (A,96).

“Fondamento interiore e sorgente” dell’innocenza originaria, è la “grazia”, come “partecipazione alla vita interiore di Dio stesso, alla sua santità” (A,77; cf. 86). Si tratta però di una grazia speciale, caratteristica (A,89), che consente una “particolare purezza di cuore” (A,80), che è all’origine di una “coscienza beatificante del significato del corpo” (ibid.) e dell’”innocenza della mutua esperienza del corpo” (A,81). Per questa grazia, uomo e donna possono liberamente e serenamente “esistere nella reciproca relazione del dono disinteressato di sé” (A,76).

Lo stato d’innocenza va visto sotto una particolare luce; occorre far uso di uno speciale criterio interpretativo, che il Santo Padre chiama “ermeneutica del dono” (A,62): “la dimensione del dono decide della verità essenziale e della profondità di significato dell’originaria solitudine-unità-nudità. Essa sta anche nel cuore stesso del mistero della creazione, che ci permette di costruire la teologia del corpo ‘da principio’” (ibid.). L’uomo e la donna, infatti, nello stato d’innocenza, esistono, senza difficoltà e antinomie, “in una relazione di reciproco dono” (A,65). Questo fatto ci porta alla scoperta del “significato sponsale del corpo”, concetto fondamentale in se stesso, e di rilievo anche al fine di evidenziare gli elementi di novità dell’insegnamento pontificio. Il Papa stesso lo chiama “concetto-chiave” (F, 35). La realtà significata da tale concetto non vien meno del tutto nello stato presente, e anzi ricompare in una forma ulteriormente e definitivamente sublimata - come vedremo - nella condizione della risurrezione.

Vediamo con ordine, in questo articolo, i tre summenzionati aspetti dello stato d’innocenza - solitudine, nudità, unità - dei quali parla il Santo Padre e che interessano la “teologia del corpo”.

Innanzitutto, il Pontefice si sofferma a esaminare il significato della “solitudine” originaria, descritta nel secondo racconto della Genesi. Come abbiamo già detto nel precedente articolo, il detto racconto vuol rappresentare “miticamente” (cf. A, 34) la presa di coscienza della persona da parte di se stessa: cioè l’”autoconoscenza” (A,24) o “autocoscienza” (A,25), che sono fonti dell’”autodeterminazione” (ibid.), concetti sviluppati soprattutto in “Persona e atto”, e che qui ci limitiamo a citare, per non uscire dal nostro argomento, che riguarda in modo speciale la persona non tanto come spirito, quanto piuttosto nella sua dimensione sessuale, e la sua spiritualità in quanto condizionata dal sesso.

La solitudine primitiva vuol significare quell’atto spirituale per il quale Adamo, partendo dall’esperienza del proprio corpo e notando la sua somiglianza con quello degli animali, ma al contempo la sua diversità, s’accorge, proprio per questa diversità, di essere “solo” e comincia a interrogarsi sulla propria identità mettendosi in relazione con Dio: egli è “alla ricerca di una definizione di se stesso” (A,24). La sua solitudine significa il fatto di essere costituito “in un’unica, irripetibile ed esclusiva relazione con Dio stesso” (A,26), che lo distingue e lo innalza al di sopra di tutti gli altri corpi viventi.
Nella “solitudine” Adamo scopre il “senso della propria corporalità” (A,28), si riconosce “corpo tra i corpi” (A,26), ma allo stesso tempo, in quanto persona, essenzialmente distinto dagli altri animali (cf. A,27).

La seconda condizione dello stato d’innocenza, è quella della “nudità” priva di “vergogna” (cf. Gs 2,25). Essa sta a indicare una “pienezza di comprensione del significato del corpo” (A,55) e, nello stesso tempo, uno stato di “pienezza della comunicazione personale” (A,57), consentito dalla perfetta capacità di vedere il corpo come manifestazione della persona.

La terza condizione è quella dell’”unità” tra uomo e donna (cf. Gn 2,23-24): unità che ha un’immediata finalità procreativa, ma che non si esaurisce in essa e - come vedremo - proprio come unità tra uomo e donna, possiede anche un valore piú profondo, spirituale, indipendente dall’esercizio della sessualità. Il richiamo di Gesú al “principio”, vuol essere un richiamo a quella unità, che l’uomo ha spezzato col peccato originale, e che occorre invece rispettare e ricostruire (cf. Mt 19,6; B,1778). La “solitudine” deve portare a tale “unità” (A,38), affinché l’uomo, nella relazione interpersonale, diventi pienamente “immagine di Dio” (A,40). L’unità tra uomo e donna suppone il “significato sponsale del corpo”, che si esprime nell’”ethos del dono”.

Gli aspetti che, a nostro giudizio, meritano la maggiore attenzione, sono quelli della “nudità” e dell’”unità”; e ciò sia per la loro maggiore attinenza alla “teologia del corpo”, sia per l’opportunità di essere chiariti onde evitare possibili fraintendimenti.

 

 

La limpidezza dello sguardo

Il Santo Padre osserva come sia “significativo che l’affermazione racchiusa in Genesi 2,25 - circa la nudità reciprocamente libera da vergogna - sia una enunciazione unica nel suo genere in tutta la Bibbia, cosí che non sarà mai piú ripetuta. Al contrario, possiamo citare molti casi in cui la nudità sarà legata alla vergogna o addirittura, in senso ancor piú forte, all”ignominia’” (A,78). Difatti, tale “nudità o riflette una condizione dell’uomo, che non è piú quella presente, alla quale appunto si riferiscono i “casi” citati dal Papa. Ciò non significa, come è già stato detto, che la condizione presente sia o debba essere priva di ogni rapporto con quella primitiva. Il legame tra nudità e pudore non dev’essere assolutizzato, inquantoché, come osserva il Pontefice, anche nella vita presente, “ci sono circostanze in cui la nudità non è impudica” (11,176). Vedremo meglio questo punto nel prossimo articolo, trattando della vergogna e del pudore.

Il Santo Padre comincia con l’osservare che “affermando che ‘non ne provavano vergogna’, l’autore cerca di descrivere questa reciproca esperienza del corpo con la massima precisione a lui possibile” (A,51). Ciò significa che l’immagine della “nudità”, come quella della “solitudine”, non vanno prese soltanto in senso materiale, ma anche ontologico e teologico. L’autore si esprime in un modo primitivo e immaginoso, ma ciò che egli intende comunicarci è estremamente profondo, per cui dobbiamo stare attenti a non confondere la povertà del linguaggio con una povertà di contenuti. Già i primi libri della Scrittura esprimono un’altissima sapienza metafisica e teologica, anche se sotto il rivestimento di un linguaggio estremamente semplice e primitivo. Se - per usare espressioni di S. Caterina da Siena ci fermassimo alla “scorza” del linguaggio, senza giungere al “midollo” dei contenuti, perderemmo di vista il senso della divina Rivelazione e il significato peculiare della Scrittura come Parola di Dio.

Il Sommo Pontefice fornisce importanti precisazioni sul senso dell’assenza di vergogna propria della nudità primitiva. Nello stato presente, come abbiamo detto, la vergogna è legata al pudore o pudicizia, che è una parte potenziale della virtú di castità. Supponendo allora lo stato d’innocenza come uno stato di perfetta virtú, ci si può chiedere come sia da concepirsi o come sia possibile, in tale stato, l’assenza della vergogna. Svilupperemo questo punto nel prossimo articolo. Qui basterà dire che il Papa rileva come detta assenza di vergogna, nella nudità primitiva, non va assolutamente intesa come vizio, come carenza morale, come “impudicizia”, e “ancor piú esclude che la si spieghi mediante l’analogia con alcune esperienze umane positive, come ad esempio quelle dell’età infantile oppure della vita dei cosiddetti popoli primitivi” (A,55). In quest’ultimo caso, essa sembra essere il segno di una specie di indifferenza o insensibilità, o tutt’al piú avere un semplice significato psicologico, come effetto di un certo costume sociale. Al contrario, la “nudità” dello stato d’innocenza sta a indicare una “particolare pienezza di coscienza e di esperienza, soprattutto la pienezza di comprensione del significato del corpo, legato al fatto che ‘erano nudi’” (ibid.). Essa sta a significare, fondamentalmente, una speciale esperienza morale e teologica contemporaneamente, uno stato speciale di equilibrio interiore, di comunione reciproca e di comunione con Dio.

Nello stato d’innocenza, l’esperienza del proprio corpo e di quello dell’altro sesso comporta “una percezione del mondo, che si attua direttamente attraverso il corpo (‘carne della mia carne’)” (A,56); nello stesso tempo, “l’uomo riconosce e ritrova la propria umanità ‘con l’aiuto’ della donna (Gn 2,25)” (ibid.). Questo reciproco vedersi e contemplarsi è “la sorgente diretta e visibile dell’esperienza che giunge a stabilire la loro unità nell’umanità” (ibid.).

La “nudità” non rappresenta soltanto una “percezione esteriore” (A,58), puramente fisica, ma anche ‘l’interiore’ pienezza della visione dell’uomo in Dio, cioè secondo la misura dell’’immagine di Dio’ (Cf. Gn 1,27)” (ibid.). Corrisponde dunque, come abbiamo detto, anche a una “percezione” ontologica e teologica. Come ben dice il commento dell’edizione A al passo citato, Adamo ed Eva erano “nudi”, in quanto il loro rapporto con Dio era del tutto trasparente e limpido, perfettamente esposto allo sguardo di Dio; e cita Eb 4,13: “Non v’è creatura che possa nascondersi davanti a Lui, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi”.

Questa trasparenza agli occhi di Dio comporta tra uomo e donna una trasparenza reciproca, un conoscersi e incontrarsi profondi non solo in senso fisico, ma anche spirituale, un passaggio facile e spontaneo dalla percezione gioiosa della sessualità animale a quella della sessualità personale e spirituale. E nel momento stesso in cui si percepisce la diversità, si percepisce anche la somiglianza, la reciprocità, l’unità e l’uguaglianza (cf. A,36,37).

La “nudità”, cosí, non è soltanto una condizione fisica del corpo, ma assurge anche a immagine simbolica di una realtà ben piú profonda: essa “significa il bene originario della visione divina; ... Significa tutta la semplicità e pienezza della visione attraverso la quale si manifesta il valore ‘puro’dell’uomo quale maschio e femmina, il valore ‘puro’ del corpo e del sesso” (A.59), senza “interiore rottura e contrapposizione tra ciò che è spirituale e ciò che è sensibile, cosí come non conosce rottura e contrapposizione tra ciò che umanamente costituisce la persola e ciò che nell’uomo è determinato dal sesso: ciò che è maschile e femminile” (ibid.).

La “purezza”, dunque, la “castità” dello stato d’innocenza, comporta una perfetta unità del composto umano, senza dualismi e contrapposizioni. L’assenza di dualismi, però, non va intesa nel senso di un’antropologia monistica, di tipo materialista o spiritualista che eventualmente - sotto falso pretesto del linguaggio “semitico” - non distingua lo spirito dal corpo. L’”unità” dello stato d’innocenza è l’unione, la perfetta e reciproca armonia di forze e potenze materiali e spirituali, sensitive e intellettive, appetitive e conoscitive in se stesse essenzialmente tra loro distinte. Non e un’unità semplicistica e confusionistica, ma è un’unità organica e pluralistica, che suppone la distinzione di fattori e componenti diversi e reciprocamente complementari e finalizzati a costituire quell’unico essere che è l’individuo umano, la persona.

Il dualismo antropologico, come vedremo meglio nel prossimo articolo, come conflitto tra la “carne” e lo “spirito”, tra l’anima e il corpo, tra il sensibile e lo spirituale, non è affatto - come credono alcuni esegeti - un lascito anacronistico del pensiero greco estraneo alla antropologia biblica, ma al contrario è una precisa conseguenza del peccato originale, sulla quale insiste S. Paolo. E il Santo Padre, come vedremo, riprende e commenta a lungo questo insegnamento Paolino, di importanza fondamentale per una corretta consapevolezza delle condizioni della natura decaduta, e di conseguenza dei mezzi ascetici e morali necessari per liberarla da tali condizioni e ricostruire l’unità della persona. Le concezioni monistiche, viceversa, che falsamente pretendono richiamarsi alla Scrittura, lasciano l’uomo nell’ignoranza della propria condizione di interiore contrasto, impedendogli quindi di cercare e trovare i mezzi per risolverla.

In conclusione, “l’originario significato della nudità corrisponde a quella semplicità e pienezza di visione, nella quale la comprensione del significato del corpo nasce quasi nel cuore stesso della loro (dell’uomo e della donna) comunità-comunione” (A.59,60; cf. 85,88). La nudità primitiva esprime un’esperienza di libertà (A,68,69), di autodominio e di autopossesso della persona, i quali, come tali, le permettono di far dono di sé all’altro e di riceverlo a sua volta in dono (cf. A.70,72).

Nello stato d’innocenza, l’impulso sessuale non è sentito come forza coercitiva che limiti o tolga alla persona la sua libertà, ma è pienamente sottomesso allo spirito e guidato dalle sue esigenze. nel pieno rispetto delle sue finalità procreative. Vedremo meglio questo nel prossimo articolo.

 

 

Il significato “sponsale” del corpo

La nudità primitiva è l’espressione piena e spontanea di una speciale qualità del corpo edenico, presente in esso in una misura perfetta, ma che tuttavia non è del tutto scomparsa nello stato presente: il significato “sponsale” del corpo. “La rivelazione, e insieme la scoperta originaria del significato ‘sponsale’ del corpo, consiste nel presentare l’uomo, maschio e femmina, in tutta la realtà e verità del suo corpo e sesso (‘erano nudi’) e nello stesso tempo nella piena libertà da ogni costrizione del corpo e del sesso” (A,69,73; D18,23,53,58; F,35,37,39).

Bisogna fare attenzione a cosa intende esattamente, il Santo Padre, per “sponsalità” del corpo. Egli non si riferisce soltanto né principalmente alla funzione generativa. Essa, certamente, col matrimonio, costituisce lo scopo materiale immediato della distinzione sessuale (A,87). Tuttavia, piú in radice e al di là di ciò, la “sponsalità” del corpo umano va intesa come riflesso dell’”immagine di Dio” (A,90); essa è la “capacità di esprimere l’amore, quell’amore appunto nel quale l’uomo-persona diventa dono e - mediante questo dono - attua il senso stesso del suo essere e del suo esistere” (A,69; C,288,593). Per questo, come vedremo, il significato “sponsale” del corpo verrà recuperato nella risurrezione, dove pure l’attività sessuale avrà cessato di esistere (E,20,23,28,40; F,12).

Questo significato del corpo comporta la prospettiva di accogliere l’altro a prescindere dalla finalità procreative - e quindi dall’attività sessuale corrispondente -: di accoglierlo in se stesso e per se stesso, cioè come persona, in quanto la persona non è mezzo per raggiungere qualche fine, ma è un “bonum honestum”, un valore cioè perseguibile e amabile per se stesso, indipendentemente dal perseguimento di altri scopi, anche se nobili, come può essere la procreazione (cf. A,71). Ciò suppone, secondo il Papa, che mascolinità e femminilità non sono attributi estrinseci alla ragione di “immagine di Dio”, ma ne sono una peculiare espressione (ibid.; 90). Sulla base di questa partecipazione dell’immagine di Dio comune e reciprocamente complementare, uomo e donna, costituiti persone proprio nella loro mascolinità e femminilità (F,35.37,40), godono, nello stato d’innocenza, di un particolare equilibrio interiore della loro personalità e di una speciale grazia, “che consente a entrambi... di esistere ‘dal principio’ nella reciproca relazione del dono disinteressato di sé” (A,78), in vista della “comunione delle persone” (B,1834).

Questo stato di libertà, questa condizione di equilibrio e unità interiore, questa possibilità di reciproco dono di sé senza egoismi e turbamenti, sulla base dell’esperienza del corpo, tutto ciò è caratteristico dello stato d’innocenza, e comporta una “coscienza beatificante del significato del corpo” (A,80), che nel contempo è esperienza del suo significato sponsale (ibid.).

Tale significato ha - per il Santo Padre - anche un valore in certo senso “sacramentale” e santificante. Nella dimensione dello stato d’innocenza, attraverso la “sponsalità” del corpo, “si costituisce un primordiale sacramento, inteso quale segno che trasmette efficacemente nel mondo visibile il mistero invisibile nascosto in Dio dall’eternità. E questo è il mistero della Verità e dell’Amore, il mistero della vita divina, alla quale l’uomo partecipa realmente” (A,90). Si tratta, sí, del sacramento del matrimonio (A,91), ma al di là di esso, attraverso la dimensione del dono”, si tratta di qualcosa di piú vasto e profondo: dell’”ingresso” della santità nel mondo visibile (ibid.); si tratta del “sacramento del corpo”, per il quale l’uomo si sente, nel suo corpo di maschio o di femmina, soggetto di santità” (ibid.); si tratta, al limite, del “sacramento del mondo” per il quale tutto l’universo fisico e dei viventi inferiori è come assunto, attraverso il corpo dell’uomo, maschio e femmina, a diventare segno e tramite del divino, come un’originaria prefigurazione del mistero della Incarnazione. E come tutta la creazione, nello stato d’innocenza, partecipa a modo suo a questa grande “festa dell’umanità” (ibid.), cosí, come spiegherà poi S. Paolo, anch’essa compartecipe in qualche modo delle conseguenze del peccato dell’uomo, e “sottomessa alla caducità nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitú della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio” (Rm 8,20-21).

Il Santo Padre richiama l’attenzione sul fatto che un’antropologia completa e integrale non può oggi mancare di un capitolo dedicato al significato sponsale del corpo. Difatti, l’antropologia tradizionale ha trascurato o per lo meno sottovalutato il significato antropologico e personalistico della differenza sessuale, che veniva ricondotta esclusivamente all’ambito del contingente, del generico e dell’individuale, e quindi considerata come estranea all’indagine scientifico-teologica sull’elemento specifico della natura umana. Tale non sembra essere il pensiero di Papa Wojtyla: per lui, la dualità mascolinità-femminilità come duplice e paritaria realizzazione dell’”immagine di Dio” (il significato sponsale del corpo), “è importante e indispensabile per conoscere chi sia l’uomo e chi debba essere, e quindi come dovrebbe plasmare la sua attività. È cosa essenziale e importante per l’avvenire dell’ethos umano” (A,87).

L’uomo, dunque, non è caratterizzato semplicemente dalla razionalità senza ulteriori determinazioni. Ovvero, quando diciamo, “uomo”, come “animale razionale”, noi non ci riferiamo a una specie, ma a un genere. La razionalità, infatti, che biblicamente non è altro che l’”immagine di Dio”, si realizza, secondo il piano della creazione (“maschio e femmina li creò”), in due forme specifiche, differenti tra loro e reciprocamente complementari: la mascolinità e la femminilità.

Queste due forme non sono estrinseche alla razionalità; non appartengono soltanto all’individuo; non appartengono soltanto al genere (animalità), ma anche, in una forma superiore, tipica dell’essere umano, alla razionalità, il che è come dire: all’immagine di Dio nell’uomo. Cioè - dato che Dio è puro spirito - hanno anche un valore spirituale. L’animalità, certo, è estrinseca alla razionalità; ma la sessualità umana non si risolve soltanto nel livello dell’animalità. Essa invece origina, al livello dello spirito, delle speciali “qualità spirituali”, come abbiamo detto, e che abbiamo proposto di chiamare “caratteri parasessuali”.

Al di sotto della razionalità, dal punto di vista logico-epistemologico, non c’è subito l’individuo empirico, scientificamente irrilevante, ma c’è una forma ulteriore, piú precisa, veramente e propriamente specifica, e che Maritain chiama “tipicità sottospecifica” (1): la razionalità maschile e la razionalità femminile. Questa è la “species specialissima” dell’essere umano. Al di sotto della razionalità pura e semplice, dunque, la scienza può ancora indagare: non si trova immediatamente di fronte all’individuo empirico, non astraibile né universalizzabile, ma incontra invece un altro, piú preciso ambito di specificità: quello della mascolinità e femminilità come “tipicità sottospecifiche” della razionalità. È chiaro che questa bipartizione dello spirito è possibile solo nell’essere umano, che è sostanzialmente “animale”, e non ha nessun senso (benché si tratti di bipartizione spirituale) negli spiriti puri, cioè negli angeli. Essa non può esistere, perché spirituale, neppure negli animali, i quali non hanno un’anima spirituale, benché si tratti di una bipartizione legata al sesso, che pure appartiene anche all’animalità.

Mascolinità e femminilità non appartengono, come si pensava un tempo (2), alla categoria dell’individuo, ma dello specifico. Non è la mascolinità (o femminilità) come tale, che appartiene al piano dell’individuo, ma questa o quella mascolinità (o femminilità). L’aver confuso i due piani, è caratteristico dell’antropologia del passato. Oltre a ciò, quand’anche si ammetteva il valore scientifico della differenza sessuale, la si considerava irrilevante dal punto di vista antropologico, perché la si connetteva soltanto al livello dell’animalità, non specifico per l’uomo. Il Santo Padre sembra invece insistere sul valore antropologico, anzi addirittura teologico, della differenza sessuale nell’uomo (e solo nell’uomo, non negli animali). Egli sembra dunque venire a dar ragione a Edith Stein, che già cinquant’anni fa parlava di una bipartizione dell’essere umano in due “specie” distinte: uomo e donna (3).

Tale bipartizione comprometterebbe l’unità e l’uguaglianza dell’uomo e della donna? Non crediamo affatto. La differenza specifica non modifica il genere, ma vi si aggiunge, lasciandolo identico nelle varie specie a lui sottoposte. Una distinzione specifica tra uomo e donna non compromette affatto l’unità della natura umana, intesa come “genere”, della quale entrambi partecipano, e che resta identica in entrambi. Né d’altra parte le due “differenze” (uomo e donna) portano, come si pensava un tempo, a una “superiorità” dell’uomo sulla donna, perché invece, come abbiamo detto e ripetuto, la moderna antropologia le vede piuttosto come fonte di una reciproca complementarietà, del resto comprovata anche dall’esegesi contemporanea dei racconti della creazione, che viceversa in passato erano utilizzati per sostenere la “superiorità” dell’uomo-maschio (4).

 

 

 

 Creazione dell'uomo

La creazione dell'uomo - Cappella Sistina - Città del Vaticano

 

 

 

 

L’”unità” originaria dell’uomo e della donna nella “dimensione del dono”

La somiglianza, pur nella diversità, la complementarietà reciproca, fonte di attrazione reciproca, nonché l’appartenenza paritaria alla medesima natura umana, orientano i Progenitori verso una reciproca, profonda unità o unione, frutto di libera scelta, che ha immediatamente uno scopo procreativo, ma piú essenzialmente uno scopo di perfezionamento delle persone, dell’”immagine di Dio” maschile e femminile, nella “comunione delle persone” e nella “dimensione del dono”.

Questa “unità” è affermata nella Genesi con la prospettiva di essere “una sola carne” (2,24). Non è difficile vedere in ciò l’unione sessuale con la relativa procreazione; eppure il contesto, che è quello del secondo racconto della creazione, non vi fa cenno. E soltanto il primo racconto che parla della procreazione (Gn 1,28). Ciò non significa evidentemente che il secondo racconto escluda positivamente tale altissimo valore, né che sottenda la liceità di un esercizio della sessualità violentato da finalità o modalità anticoncezionali, magari sotto pretesto dell’”amore” o dell’”unità”. Chiarissima è la posizione del Santo Padre su questo delicato problema di etica sessuale. Egli ne parla soprattutto nella sua opera “Amore e responsabilità” e nell’Enciclica “Familiaris consortio”. Tratteremo di questo argomento nell’ultimo articolo (il quinto) dedicato all’amore coniugale come espressione della “teologia del corpo”. Resta il fatto, comunque, che il secondo racconto non ha in vista principalmente il fine procreativo dell’unione tra uomo e donna, ma quello perfettivo della loro personalità: il completamento e l’attuazione piena dell’”immagine di Dio” nel mutuo amore e nel reciproco dono di sé all’altro: fine questo - come vedremo che non vale solo per lo stato presente, come il primo fine, ma anche e soprattutto nella risurrezione, ed è prefigurato (lo vedremo nel quinto articolo) in questa vita dalla scelta verginale “per il Regno dei cieli”.

Per questo il Santo Padre, nel commentare il secondo racconto, e in particolare la prospettiva dell’essere “una sola carne”, si scosta dall’esegesi tradizionale, che istituisce immediatamente il rapporto col fine procreativo e, secondo il metodo dell’esegesi moderna, preferisce, prima di creare allacciamenti, approfondire accuratamente il senso proprio e intrinseco del brano biblico in se stesso, che è una chiara ed evidente prospettiva di “unità”, indipendentemente da quella procreativa, anche se non contro di essa. Da questa nuova ottica nell’esame del versetto biblico, il Pontefice fa scaturire una serie di considerazioni che non possono che risultare nuove, facendoci meglio conoscere il senso del testo sacro. Egli quindi comincia col diffondersi a lungo sul senso personalistico dell’unità primitiva, e solo in un secondo tempo si sofferma sul tradizionale (e sempre valido!) significato procreativo, arricchendo anche questo di nuovo significato, proprio alla luce delle considerazioni sul significato personalistico.

Il Santo Padre comincia con l’osservare come il linguaggio immaginoso (“carne della mia carne e osso delle mie ossa”, Gn 2,23) e “scenico” (l’incontro fisico tra Adamo cd Eva), che vuol rappresentare l’”unità” reciproca dei Progenitori, sottenda sempre un profondo significato ontologico, che è quello che dobbiamo scovare, se non vogliamo fermarci al livello del “mito” e alla “scorza” della Scrittura. Occorre sí una “demitizzazione”; ma Papa Wojtyla non la intende certamente alla maniera di Bultmann, il quale, considerando come “mito” l’elemento ontologico, lo elimina dalla Scrittura mettendo al suo posto i miti dell’esistenzialismo heideggeriano. Cosí, per il Pontefice, l’unità dei Progenitori “denota soprattutto l’identità della natura umana” (A,37): l’agiografo, col linguaggio della sua propria cultura, vuole insegnarci la fondamentale uguaglianza di natura trauomo e donna, nonostante la loro diversità dovuta alla differenza sessuale (cf. ibid.). Uomo e donna sono parimenti persone, come tali emergenti assieme al di sopra di tutto il mondo dell’animalità irrazionale. Incontrando Eva, Adamo non è piú “solo”, in quanto ché in lei vede un’altra persona come lui, cosa che prima non aveva assolutamente sperimentato, osservando gli altri corpi viventi precedentemente creati da Dio. Viceversa, osservando e contemplando il nudo corpo di Eva, Adamo, nello stato d’innocenza, ha finalmente la chiara e gioiosa coscienza di avere incontrato un essere “simile a lui”: il corpo di una persona: un altro corpo-persona (cf. ibid.). La prima considerazione che Adamo fa vedendo Eva non è quella di esprimere soddisfazione per l’esaudimento di un bisogno sessuale o procreativo, ma per avere trovato una “partner” con la quale entrare veramente in comunione, parlare, avere scopi comuni, completare la propria personalità completando la sua, come abbiamo già visto nel precedente articolo. L’immediato riferimento della donna al piacere sessuale e alla procreazione, prima della prospettiva personalistica, è un capovolgimento dell’ordine originario della creazione, che prevede viceversa il primato della comunione interpersonale sulle prospettive del soddisfacimento dei sensi o della riproduzione della specie. La teologia tradizionale, nell’accentuare fortemente il rapporto della femminilità con la sessualità piú che con la personalità, ha mostrato di partire da un’ottica troppo legata allo stato presente e troppo poco attenta invece al riferimento edenico. Il Sommo Pontefice, facendo perno sul richiamo di Cristo al “principio”, invita a trovare maggiormente nello stato d’innocenza il modello del rapporto uomo-donna anche per lo stato presente, “storico”, pur senza dimenticare l’incolmabile dislivello esistente fra i due.

“Nel racconto biblico, la solitudine è via che porta a quell’unità che, seguendo il Vaticano II, possiamo definire “communio personarum” (A,38) (6). Il Santo Padre, in tutto il corso delle sue meditazioni, ritorna spessissimo su questo concetto fondamentale, strettamente congiunto a quello della “teologia del corpo”, per il fatto che la persona umana è persona corporea e sessuata, per cui, nell’essere umano, è la teologia del corpo che fornisce il fondamento della communio personarum propria delle persone umane. La “filosofia della persona”, per Papa Wojtyla, per poter avere concrete applicazioni antropologiche e morali, non si limita alla considerazione - pur necessaria - del concetto metafisico e analogico di “persona”, ma prende anche in considerazione le caratteristiche proprie della persona umana in quanto umana, e quindi anche in quanto corpo maschile e femminile, senza peraltro derogare in nulla (ecco l’errore di un’antropologia freudiana o materialistica o evoluzionistica) alle esigenze di “trascendenza” proprie del costitutivo formale della personalità con la sua aspirazione alla verità e alla libertà e il suo rapporto con l’Assoluto divino. Questa analisi concreta della persona, è quella che il Papa chiama “fenomenologica”, in un senso, peraltro, non pienamente coincidente con quello husserliano. La si potrebbe parimenti chiamare “analisi antropologica integrale”.

La comunione delle persone, intesa come rapporto tra uomo e donna o come comunione che nel rapporto uomo-donna ha la sua prima matrice, ha contemporaneamente un’origine corporale-sessuale e un’origine spirituale-personalistica. Essa suppone la distinzione sessuale e nel contempo l’atto proprio della persona, che è il libero volere che si estrinseca nell’atto della donazione di sé all’altro e nel ricevere a sua volta l’altro come dono che egli fa di se stesso.

“Uomo e donna costituiscono quasi due diversi modi dell’umano ‘esser corpo’” nell’unità dell’”immagine di Dio” (A,61), e chiamati a essere “una sola carne”. La comunione uomo-donna ha un fondamento corporeo: dalla loro stessa differenziazione, infatti, nasce, nello stato d’innocenza, una “mutua relazione”, per la quale “l’uomo e la donna diventano dono l’uno per l’altro, mediante tutta la verità e l’evidenza del loro corpo, nella sua mascolinità e femminilità” (A,81s.; C,289,290).

La donna viene affidata all’uomo: “viene ‘da principio’ affidata ai suoi occhi, alla sua coscienza, alla sua sensibilità, al suo ‘cuore’. ... L’uomo si arricchisce non soltanto mediante lei, che gli dona la propria persona e femminilità, ma anche mediante la donazione di se stesso. La donazione da parte dell’uomo, in risposta a quella della donna, è per lui stesso un arricchimento; infatti vi si manifesta quasi l’essenza specifica della sua mascolinità che, attraverso la realtà del corpo e del sesso, raggiunge l’intima profondità del “possesso di sé”, grazie alla quale è capace sia di dare se stesso che di ricevere il dono dell’altro. L’uomo, quindi, non soltanto accetta il dono, ma a un tempo viene accolto quale dono dalla donna, nel rivelarsi della interiore spirituale essenza della sua mascolinità, insieme con tutta la verità del suo corpo e sesso” (A,83-84).

 

 

Sessualità e spiritualità

Da questo brano del Santo Padre, vediamo come per lui vi sia e debba esservi un legame strettissimo nell’essere umano, tra sessualità e spiritualità, ove per “sessualità” non s’intende necessariamente il suo esercizio, ma il suo semplice essere, in quanto causa dei caratteri parasessuali. La sessualità “raggiunge” in qualche modo “l’intima profondità del ‘possesso di sé’”, cioè della realtà dello spirito e della persona e, trasfigurata a questo livello, diventa in certo modo essa stessa “spirituale”, donando una specifica modalità maschile-femminile all’incontro interpersonale tra l’uomo e la donna, e piú in generale donando una modalità “parasessuale” all’atto del rapporto comunitario proprio della persona umana.

L’atto del libero dono di sé è certamente in se stesse, sostanzialmente, un atto spirituale, indipendente sia dalla sessualità che dalla parasessualità. Esso infatti si ritrova sostanzialmente anche nei puri spiriti. Da questo punto di vista, appare chiara l’origine spirituale della comunione delle umane persone. Tuttavia, in tali persone, in quanto umane, quell’atto non può esercitarsi se non nelle modalità parasessuali della mascolinità e della femminilità, essenzialmente collegate alla realtà del corpo e del sesso animale.

Il rapporto originario e profondo tra uomo e donna, per il Sommo Pontefice, è dunque spirituale, prima che procreativo: “L’uomo e la donna, prima di diventare marito e moglie (in concreto ne parlerà Gn 4,1), emergono dal mistero della creazione prima di tutto come fratello e sorella nella stessa umanità” (A,88). È questo il significato sponsale del corpo, che rivela l’intimo della loro libertà, che è libertà di dono” (ibid.). Si tratta peraltro di una libertà che ha di fronte a sé “l’alternativa della morte e dell’immortalità” (A,30 ss.), vale a dire la possibilità di porsi o meno, con una personale scelta o derisione, in una radicale antitesi a ciò di cui Dio ha fatto loro dono (cf. A,30). In tal modo, “l’innocenza originaria manifesta e insieme costituisce l’ethos perfetto del dono” (A,88).

Come già si è detto, “l’unità, di cui parla Gn 2,24 (“i due saranno una sola carne”), è senza dubbio quella che si esprime e realizza nell’atto coniugale” (A,44,67), e porta come fine e conseguenza la “benedizione della fecondità” (A,44). Ciò è senza dubbio vero - ripetiamo - anche se il contesto immediato non si esprime esplicitamente in questo senso. Solo al c. 4 si farà riferimento esplicito all’unione sessuale tra Adamo ed Eva, dopo il peccato originale. Nello stato d’innocenza tale unione non c’è stata, e tuttavia vi erano le condizioni perché essa potesse avere il suo pieno significato personalistico, secondo l’”ethos del dono” e come riflesso del significato sponsale del corpo. Come vedremo meglio nell’articolo dedicato all’amore coniugale, il Santo Padre, richiamandosi alle parole di Cristo a proposito del “principio”, sottolinea a piú riprese come, sebbene nello stato presente si sia offuscato il significato sponsale del corpo, tuttavia è alla luce di quanto è restato o di quanto si può recuperare di tale significato. che va vissuta l’esperienza dell’amore coniugale e dell’attività sessuale. In tal modo anch’essa diventa arricchimento personale ed espressione della comunione delle persone. Diventa ciò che sarebbe stata nello stato d’innocenza: una “donazione creatrice” (A,67).

Nella prospettiva edenica, “l’uomo e la donna, unendosi tra loro (nell’atto coniugale) cosí strettamente da divenire “una sola carne”, riscoprono, per cosí dire, ogni volta e in modo speciale, il mistero della creazione, ritornano cosí a quell’unione dell’umanità (“carne della mia carne e osso delle mie ossa”), che permette loro di riconoscersi reciprocamente, come la prima volta, di chiamarsi per nome. Ciò significa rivivere, in certo senso, l’originario valore verginale dell’uomo, che emerge dal mistero della sua solitudine di fronte a Dio e in mezzo al mondo. Il fatto che divengano “una sola carne” è un potente legame stabilito dal Creatore, attraverso il quale essi scoprono la propria umanità, sia nella sua unità originaria sia nella dualità di una misteriosa attrattiva reciproca” (A,45). In tal modo, nello stato d’innocenza, l’esperienza sessuale sarebbe stata anch’essa un “superamento del limite della solitudine dell’uomo” (ibid.), e “una certa assunzione della solitudine del corpo del secondo ‘io’ come propria” (ibid.).

È significativo - osserva il Santo Padre - “che la situazione, in cui marito e moglie si uniscono cosí intimamente tra loro da formare ‘una sola carne’, sia stata definita una ‘conoscenza’” (A,94): è il segno del fatto che nella prospettiva edenica, nel “principio”, il rapporto coniugale “è stato elevato e introdotto nella dimensione specifica delle persone” (A,95). Anche qui, la povertà del linguaggio semitico nasconde un profondo contenuto sapienziale, che Papa Wojtyla viene a precisare con diligenza, giacché “ciò sembra assolutamente fondamentale per comprendere l’uomo, che fin dal ‘principio’ è alla ricerca del significato del proprio corpo. Questo significato sta alla base della stessa teologia del corpo” (A,97). Non si tratta di ridurre il conoscere alla dimensione del rapporto affettivo-sessuale, ma al contrario, la Scrittura intende rilevare il valore in certo senso “conoscitivo”, cioè spirituale, personale, del rapporto coniugale edenico. Ed è ovvio che tale valore può essere presente non in forza del semplice porsi in atto del rapporto come tale nella sua realtà psicosomatica, ma in quanto tale rapporto viene attuato nel rispetto del suo naturale orientamento procreativo e come segno della comunione delle persone. Solo a queste condizioni - come vedremo meglio parlando dell’amore coniugale - l’uomo e la donna, nel rapporto sessuale, “si rivelano l’uno all’altra, con quella specifica profondità del proprio ‘io’ umano, che appunto si rivela anche mediante il loro sesso, la loro mascolinità e femminilità” (A,96), e solo cosí essi raggiungono “una ulteriore scoperta del significato del proprio corpo” (A,97).

“Il mistero della femminilità - osserva il Santo Padre - si manifesta e si rivela fino in fondo mediante la maternità” (A,98): è quello che troviamo in Gn 4,1, dove il reciproco “conoscersi” dei Progenitori (reso nella traduzione italiana della CEI col verbo “unirsi”) porta come risultato la generazione. Ciò che è detto della femminilità, ovviamente, vale anche analogamente - per la mascolinità. E peraltro, la maternità e la paternità, in questa loro funzione di rivelare pienamente e portare a compimento la femminilità e la mascolinità, non sono da intendersi solo in senso fisico, ma anche morale e spirituale, come vedremo meglio parlando della loro realizzazione nella vita religiosa.

Secondo questa prospettiva, allora, “la ‘conoscenza’, di cui parla Gn 4,1, l’atto che origina l’essere, ossia, in unione col Creatore, stabilisce un nuovo uomo nella sua esistenza” (A,10 I 1). “L’uomo e la donna in questa ‘conoscenza’, in cui danno inizio a un essere simile a loro, del quale possono insieme dire che è 'carne della mia carne e osso delle mie ossa’ (Gn 2,24), vengono quasi insieme ‘rapiti', insieme presi ambedue in possesso dall’umanità che essi, nell’unione e nella ‘conoscenza’ reciproca, vogliono esprimere nuovamente, prendere nuovamente in possesso, ricavandola da loro stessi, dalla propria umanità, dalla mirabile maturità maschile e femminile dei loro corpi e infine... dal mistero stesso della Creazione” (A,103).

La Scrittura ci suggerisce l’idea di una “conoscenza” che coinvolga la partecipazione della sensibilità, dell’affettività e delle stesse energie fisiche e sessuali. Si potrebbe quasi parlare di “conoscenza corporea”. Ciò non autorizza certo a sminuire il significato intellettuale, speculativo, concettuale del conoscere, anch’esso chiaramente espresso dalla rivelazione biblica. Riteniamo tuttavia che l’uso biblico-semitico del termine “conoscenza” oltre il significato di “atto puramente intellettuale” non sia dovuto a una semplice povertà di linguaggio, ma nasconda un vero e proprio concetto di “conoscenza” che abbraccia, oltre a quella concettuale-quidditativa, anche quella che i tomisti chiamano “per connaturalità” (7).

In particolare, la conoscenza “sessuale” o “procreativa” di Gn 4,1 sembra porsi come una delle espressioni fondamentali del significato sponsale del corpo, e piú precisamente essa ci dà la “rivelazione del significato generatore del corpo” (A,104), significato altissimo, per il quale il corpo umano maschile-femminile diventa collaboratore e fattore condizionante dell’opera per la quale il Creatore, nel corso del tempo, dona l’esistenza a un numero sempre maggiore di anime umane, fino a che non sarà raggiunto il “numero” definitivo di cui parla l’Apocalisse (Ap 7). La generazione, certo, di fatto, ha cominciato ad avvenire e avviene - come si è detto - non nello stato d’innocenza, ma in quello conseguente al peccato, nello “stato storico”, che è quello attuale, cioè nella prospettiva della morte (cf. A,103s.): ma ciò non toglie che essa affondi le sue ragioni nel piano originario della creazione e quindi nello stato d’innocenza, come appare chiaro da Gn 1,28. Per questo, anche se di fatto l’atto coniugale ha iniziato la sua storia nello stato di natura decaduta, tuttavia, secondo il richiamo di Cristo al “principio”, esso deve trovare nel modello edenico la sua ideale realizzazione con le relative ottimali condizioni psicologiche e morali.

 

 

 

 

 

[*] Il primo articolo in “Sacra Dottrina”, 6 (1983) 604-626. Le citazioni sono prese, come nell’articolo precedente, dalle seguenti fonti bibliografiche, che, per comodità, rappresenteremo con una sigla, alla quale segue il numero della o delle pagine:

Sigla A: Discorsi dal 5/IX/79 al 9/IV/80. Sono citati dall’edizione a cura della Libreria Editrice Vaticana, che va sotto il titolo: “L’amore amano nel piano divino”(1980).

Sigla B: Discorsi dal 16/IV/80 al 25/VI/80. Si trovano in: “Insegnamenti di Giovanni Paolo II”, Libreria Editrice Vaticana, 1980, vol. III-1.

Sigla C: Discorsi dal 23/VII/80 all’8/X/80. Idem come sopra; vol. III.2.

Sigla D: Discorsi dal 15/X/80 all’8/IV/81. Sono citati dalla Collana “Magistero” delle Edizioni Paoline, N. 68 (1981).

Sigla E: Discorsi dall’11/XI/81 al 10/1/82. Idem come sopra, N. 86 (1982).

Sigla F: Discorsi dal 10/111/82 al 5/V/82. Idem come sopra, N. 87 (1982).

Altre fonti meno pertinenti, e tuttavia citate:

Sigla G: Esortazione Apostolica “Familiaris consortio”,Edizioni Dehoniane, Bologna 1981.

Sigla H: “Amore e responsabilità”, Edizioni Marietti, Torino 1978.

Sigla J: “Persona e atto”,Libreria Editrice Vaticana, 1982.

Altre pubblicazioni del Santo Padre saranno citate per esteso.

 

 

1) Questa tesi è sostenuta in: Facciamogli un aiuto simile a lui, in “Approches sans entraves”, vol. I, Città Nuova, Roma 1977.

2) Questo vale per S. Tommaso: cf. Quest. de An., a. 12, 7m e Suppl. 81,3.

3) Vedi la sua opera La donna, Città Nuova, Roma 1969, 204.

4) Per un confronto tra l’antica e la nuova esegesi, vedi: la rivista teologica canadese “Eglise et Théologie”, del gennaio 1978; J.-M. AUBERT, La donna - Antifemminismo e Cristianesimo, Cittadella Editrice, Città di Castello 1976.

5) Cf. I. Mancini, Barth Bultmann Bonhöffer - Novecento teologico, CE-LUG, Milano, 1971.

6) Cf. Gaudium et Spes, n. 12.

7) Cf. per es.: G. BORTOLASO, La connaturalità affettiva nel processo conoscitivo, in “Civiltà Cattolica”, 103° anno (1952), I, 374-383; I. CAMPOREALE, La conoscenza affettiva nel pensiero di S. Tommaso, in “Sapienza”, 12 (1959), 237-271.

 

 

 

 

 

Cfr. CAVALCOLI G., Il corpo umano “In Principio”. La teologia del corpo nel pensiero di Giovanni Paolo II, in Sacra Doctrina, 3-4 (1984-XXIX), 302-324.

 

I testi originali sono reperibili anche nel sito Web dedicato allo studio del pensiero filosofico e teologico del Servo di Dio Padre Tomas Maria Tyn, O.P.

 

N. B. Le immagini presenti in questa pagina non fanno parte del testo originale.